Castello di Rivoli dispone e ospita la prima mostra monografica in Europa con l’artista iracheno-americano Michael Rakowitz (Great Neck, NY, 1973), vincitore del prestigioso premio Nasher 2020. Abbiamo avuto una lunga conversazione con lui su pratiche e approcci votati a migliorare la nostra conoscenza della storia e i suoi collegamenti puri.
La tua idea di Utopia modernista (Dull Roar, 2005) e della vita indigena contemporanea in Australia (White Man Got No Dreaming, 2008), la tua ossessione per i Beatles (The Break-up, 2010 – in corso) come hanno influenzato il tuo intervento culinario?
Studiare l’architettura significa vivere in una città e pensare alle connessioni sociali e alle reti di persone che definiscono davvero i tessuti urbani. In un certo senso, i progetti sugli edifici sono diventati ancora più complicati della ricerca di nuove risposte per me, quando ho iniziato a sviluppare un progetto chiamato ParaSITE (in corso dal 1998. Sacchetti di plastica, tubi in polietilene, ganci, nastro. Diversi siti urbani in New York City, Boston e Cambridge MA e Baltimora MD).
In questo caso stavo creando un riparo per ogni individuo. Rispondendo non solo ai suoi bisogni ma anche ai suoi desideri. È la persona all’interno di un edificio che è più importante dell’edificio stesso. E un progetto sull’architettura è sempre un progetto sulla ritrattistica dell’individuo. Un’estensione dello spazio è necessariamente un’annessione al corpo di una persona. Così, ho iniziato a pensare in modo più preciso alle città e ispirandomi a The Omnivore’s Dilemma (2006) di Michael Pollan ho iniziato a coltivare l’idea di costituire un modo per stare insieme rallentando il tempo, creando uno spazio dove si radunano le persone. Questo è il tipo di metodologia che seguo per collegare tutte queste opere. Una sorta di lente d’ingrandimento, che con lo sguardo mi porta sempre più vicino a una scena originale, in termini di storia del collezionismo.
I Beatles e The Break-up (2010 – in corso) mi hanno permesso di lavorare in modo non ortodosso. Quindi, il fatto che io potessi parlare di processi e architettura culinaria mi ha concesso di trovare percorsi non previsti e sperimentali. Così come ciascuno degli album dei Beatles rappresenta un passo avanti rispetto ai precedenti. Io di solito ammiro moltissimo questo procedere.
The Flesh is Yours, the Bones are Ours (2015), attraverso una configurazione sensibile ed empatica, che tipo di condizioni o di ammonimento ha apportato nei confronti dei diritti umani, della sofferenza e del dolore?
Quel progetto è stato davvero interessante perché ha intrecciato ancora una volta la mia pratica con l’architettura. Inoltre, ha sottolineato il rapporto che intraprendo con Carolyn Christov-Bakargiev: lavoro con lei da quasi 20 anni. Mi ha invitato a partecipare alla Biennale di Istanbul nel 2015. A quel tempo eravamo entrambi molto preoccupati di ciò che era accaduto 100 anni prima e dell’anniversario del genocidio armeno. Un fatto non riconosciuto dal governo turco.
Carolyn sapeva che sono profondamente appassionato di città e dei loro mestieri, artigiani. Quindi, ha identificato un ex orfanotrofio francese, nel quartiere di Tophane a Istanbul, dove c’era un atelier gestito da un artigiano armeno, Garabet Cezayirliyan; un posto ancora operativo oggi grazie al suo apprendista turco. Avere accesso a quel mondo è stato un bel modo, per me, di essere in grado di interagire con materiali e storia attraverso lo spiegamento di dita e mani. I ricordi tardivi legati a questo universo mi hanno aiutato a pensare a come anche gli artigiani curdi e greci rappresentassero la classe manifatturiera di un impero e fossero considerati minoranze.
La fioritura dell’Art Nouveau è avvenuta a Istanbul (1870) e si è evoluta negli stessi anni anche qui a Chicago (1871), dove vivo. Una tale coincidenza ha fatto emergere in me la convinzione che esistesse una condivisione estetica, collegata in tutto il mondo, in un’era preindustriale globale. Quindi, ho iniziato a pensare: se tutte le persone della comunità armena fossero scomparse nel 1915, a causa del genocidio, come sarebbe stata la città, se gli elementi che loro avevano realizzato fossero scomparsi con loro? Mi sono reso conto che i pezzi realizzati con intonaci ornamentali erano testimonianze silenziose, tracce e parti vive del popolo armeno come cittadini della città, partecipanti della bellezza di Istanbul. Ma questo lavoro, alla fine, vorrei non rimanesse semplicemente un ammonimento.
Come e quando si verifica un legame non-perfetto?
Quando Carolyn mi ha invitato a realizzare una mostra a Castello di Rivoli, quello che mi è venuto in mente è stato quanto possa essere imperfetta una retrospettiva di un artista vivente. Quando prendi la storia di un artista e la raccogli, cercando di rappresentarlo, è sempre come se mancasse qualcosa. Inoltre, sono un artista che lavora sempre in modo site-specific e le opere che io creo si attivano nella città in cui espongo.
Anche il termine “rilegatura imperfetta” è diventato specifico per la sede di Torino, quando Carolyn mi ha invitato a sviluppare un progetto per la collezione Cerruti. Sono rimasto molto sorpreso dal modo in cui Francesco Federico Cerruti ha introdotto la “rilegatura perfetta” in Italia, pur essendo responsabile della creazione delle rubriche telefoniche. Ho incaricato Luciano Fagnola, un maestro rilegatore di artigianato e amico di Cerruti, di rileggere un libro di preghiere ebraico ed arabo-ebraico stampato nel 1935, appartenente alla dispersa comunità ebraica irachena, da cui proviene la mia famiglia materna. In effetti, ho un archivio personale sulla comunità ebraica irachena, che ora è scomparsa, un archivio che è cresciuto negli ultimi 20 anni.
Quindi, sebbene secondo la tradizione ebraica, i volumi danneggiati dovrebbero essere sepolti, ho comunque portato il mio libro a Torino: per riparare entrambe le edizioni e generare una nuova opera d’arte, attraverso ricordi e collaborazioni con un collezionista. Ho dovuto salvare quei libri e l’idea di rilegatura perfetta è solamente un tentativo di essere perfetta, perché non appena che ti rendi conto di cercarla fallirai automaticamente. Quindi, non c’è perfezione, esattamente come rivelano le ferite, le cicatrici di quel libro.
Tra gli spazi di Whitechapel e quelli di Castello di Rivoli, che tipo di ponte invisibile attiva questa mostra nella tua carriera e perché?
A Londra, ho adorato il modo in cui la mostra si riferiva alla storia del quartiere. Ci sono così tanti gruppi di immigrati oggi. Mentre un tempo era un’area di comunità ebraica, ora c’è una grande comunità musulmana che vive e lavora. Questo fatto mostra un’evoluzione della popolazione. Quando mio nonno fuggì dall’Iraq si stabilì a Londra. E per me, preparare un percorso espositivo lì rappresentava un ritorno, un ponte con il mio passato: posso dire di aver trovato l’Iraq fuori dall’Iraq.
Inoltre, gli spazi di Whitechapel sono al piano terra e la stazione della metropolitana attraversa l’edificio, interrompendo, in un certo senso, la mostra. Anche la Manica Lunga potrebbe sembrare un ponte, come un treno, perfettamente suddiviso da tende di carta. Questo potrebbe rappresentare in parallelo un altro ponte fisico.
Ci sono ponti anche tra le persone con cui lavoro: Iwona Blazwic, ad esempio, ha prestato molta attenzione alle coincidenze, emerse mentre stavamo realizzando la mostra, molto collegate alla città di Londra. A Torino, invece, ho avuto la possibilità di lavorare con una persona che conosce il mio lavoro meglio di chiunque altro, fin dall'inizio. Carolyn mi ha dato la possibilità, anche grazie alla collezione di Cerruti, di mettermi in contatto con un progetto che avevamo precedentemente realizzato in Afghanistan e, naturalmente, alle mie origini in Iraq, costruendo ponti tra Medio Oriente e Italia. A Livorno, per esempio, stampavano e rilegavano simili libri di preghiera venduti a Baghdad. Si tratta di creare doppie risonanze, rivelando una terra promessa di una terra promessa.
Quale tipo di definizione di tempo e storia viene incorporata, trasmessa da Imperfect Binding? Potresti per favore fornire alcuni esempi, presentando alcune opere esposte?
Carolyn mi raccontò un fatto, mentre stavamo tornando a casa, dopo la notte dell’inaugurazione, un fatto relativo ad uno dei miei eroi: Michelangelo Pistoletto. È venuto a visitare la mostra e le ha detto che c’era così tanto tempo nei miei lavori. Questo mi ha fatto pensare alla mia opera in modo diverso.
Ho iniziato a sentire le trame del tempo negli oggetti e nei paesaggi, così come nella non-linearità e nel modo non-cronologico secondo il quale la mostra si svolge al Castello di Rivoli. Non si tratta di una ricerca accademica sul tempo, ma è un’allegoria, un processo che mi offre la possibilità di non essere politicamente prevedibile. Ad esempio, sono sempre libero di raccontare la storia di Gerusalemme in un modo che nessuno pensava comunque di raccontarla. Presento il tempo come un modo per il visitatore di costruire ponti, attraversando uno strano tour, in cui le persone sono più autorizzate a pensarci in termini di prossimità.
- Titolo:
- Michael Rakowitz. Legatura imperfetta
- Date di apertura:
- Dall'8 ottobre 2019 al 19 gennaio 2020
- Una mostra delineata da:
- Carolyn Christov-Bakargiev, Iwona Blazwic, Marianna Vecellio
- Sede:
- Castello di Rivoli, Museo di arte contemporanea
- Indirizzo:
- Piazza Mafalda di Savoia 10098 Rivoli - Torino