Lo Schinkel Pavillon è stato realizzato nel 1969 da Richard Paulick, architetto noto per alcune delle sezioni più riuscite della Karl-Marx-Allee, arteria che, per il resto, appare un lungo copia e incolla di realismo socialista decorativo che taglia Berlino partendo da Alexanderplatz fino alla Porta di Francoforte, a est della città. La via, allora Stalin-Allee, fu costruita in brevissimo tempo ed era destinata a rappresentare le ambizioni della Repubblica Democratica Tedesca; a suscitare ammirazione agli occhi occidentali proiettando uno stile di vita equo, sereno, nuovo: un boulevard monumentale per lo svago, la socialità, ma anche per parate celebrative della giovane DDR. Ironicamente, nel giugno del 1953, a causa di un inasprimento delle condizioni contrattuali per i lavoratori che la stavano fabbricando, nacquero lì i moti operai sedati con vigore da reparti dell’esercito sovietico schierato in Germania orientale. Le crude immagini della repressione circolarono nei media occidentali come uno svelamento: la frizione tra la scenografia idilliaca di una società utopica e gli sbrigativi, brutali metodi di stampo staliniano che saranno denunciati pochi anni dopo da Nikita Krusciov gelando le relazioni tra Unione Sovietica e i comunisti occidentali.
Berlino. Jordan Wolfson e la distorsione del reale
Allo Schinkel Pavillon, i video, le installazioni e le fotografie dell’artista newyorkese affrontano temi come la violenza, il potere seduttivo del “ripugnante” e il concetto di realismo.
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- Francesco Tenaglia
- 02 marzo 2018
- Berlino
Un momento di rottura o, come lo definirebbe l’artista newyorkese Jordan Wolfson, una “distorsione”: l’attimo in cui un episodio intenso e imprevedibile irrompe violentemente nel quotidiano al punto da modificare, anche solo per qualche istante, quanto è lecito attendersi dal mondo. Accade in uno dei lavori in mostra, Real Violence (2017) presentato per la prima volta all’ultima edizione della Biennale del Whitney: il visitatore è invitato a indossare un visore per realtà virtuale e, al termine di un breve conto alla rovescia, è catapultato sulle strade di New York di fronte all’artista armato con una mazza da baseball e a un uomo inginocchiato sull’asfalto. Dopo qualche istante, Wolfson inizia a picchiare lo sconosciuto fino a ridurne il viso in una poltiglia informe. Il lavoro ha, naturalmente, fatto parlare molto di sé e mette in scena una violenza quasi insostenibile come “materia prima” – puro fenomeno, privo di giudizi espliciti – che attraversa il corpo dello spettatore trasformandolo in elemento scultoreo: in maniera più evidente, con un movimento di camera all’inizio della simulazione che costringe chi guarda a una torsione fisica.
La conclusione della breve esperienza e il ritorno nello Schinkel Pavillon sono le ultime “distorsioni”: com’è cambiato lo sguardo nell’attimo in cui i grattacieli di New York tornano a essere il salone ottagonale, in cui vittima e carnefice lasciano il posto all’allegro vociare del pubblico dell’esibizione? La tecnologia della realtà virtuale è prosciugata di potenzialità interattive (non c’è modo di cambiare il tragico corso degli eventi) e usata per dar forma alle preoccupazioni principali del lavoro, ovvero il potere seduttivo del “ripugnante” – lo spettatore può rivolgere lo sguardo altrove, ma è calamitato dal linciaggio – e una riflessione sul concetto di realismo: la circolazione di scene brutali in rete ha scavalcato i modi di rappresentazione della violenza, nell’ultimo secolo appannaggio dell’industria cinematografica.
Real Violence è una finzione che ambisce a svolgersi secondo il linguaggio “realistico” nato dal matrimonio tra elettronica di consumo e piattaforme social, e non quello di Hollywood. Occupa gli spazi superiori del padiglione, il video Riverboat Song (2017): l’io narrante, un incrocio tra Huckleberry Finn e Pinocchio in abiti consunti, danza su Work di Iggy Azalea indossando tacchi a spillo. D’improvviso, gli compaiono sul corpo seni e natiche vistose che lascia cadere, come protesi, con un movimento d’anca prima di lanciarsi in un soliloquio – che s’immagina rivolto alla partner – in cui rivela una forma estrema e malevola di narcisismo: intima, manipolativa e distaccata. Nel farlo, muta in una famiglia di animazioni antropomorfe, come per moltiplicare, nascondere e diluire la responsabilità individuale. Poi ci osserva mentre si contempla in uno specchio, traendone un piacere infantile, fino a raggiungere il climax nel momento in cui, dopo essersi tirato giù i pantaloni, comincia a urinare fiotti che s’innalzano simili a giochi d’acqua di fontane pubbliche. Beve la propria pipì, ci si sciacqua il viso con palpabile eccitazione.
L’ultimo pezzo in mostra è una scultura composta da un disegno di due streghe – una delle quali molto simile a Hillary Clinton – che cuociono nel proverbiale pentolone lettere cartacee, e da due giubbe di pelle appese nel vuoto, coperte di borchie e disegni raffiguranti uomini che espellono demoni e teschi dalla bocca. Segni di una trasgressione esausta, resa pura connotazione: come nel resto della mostra, Wolfson maneggia temi delicati e scabrosi – narcisismo e violenza – superando i dossi di facili polemiche, con opere che prendono ispirazione e sono attraversate – con successo formale e concettuale – da formati vernacolari, dalle loro manifestazioni e ricadute sociali.
Lo scivolamento della nozione di realismo, la porosità e le reazioni chimiche che nascono dai contatti tra la realtà – qui definita nei termini di una serie di paesaggi mediatici ricorrenti e rappresentazioni che hanno l’avallo del consenso sociale – e l’industria delle arti visive sono messi in gioco e coreografati in una mostra laconica e intensamente intrigante.
- Jordan Wolfson
- 10 febbraio - 1 aprile 2018
- Schinkel Pavilion
- Oberwallstrasse 1, Berlino