Cos’hanno in comune un rudere di quattro piani, collocato in uno dei quartieri più vivi di Bangkok, e una foresta che dista circa 200 km dal centro città? Entrambi sono al centro dell’ambizioso progetto di Marisa Chearavanont, collezionista d’arte e mecenate sudcoreana, di trasformare la Thailandia in un centro del sud-est asiatico per l’arte contemporanea. Nel 2023, Chearavanont ha avviato il progetto della Khao Yai, un’organizzazione culturale che oggi comprende la Kunsthalle di Bangkok e la Forest.

Per dar vita al progetto, Chearavanont ha affidato la direzione artistica a Stefano Rabolli Pansera, architetto e curatore di progetti internazionali, nonché Leone d’Oro per il Padiglione dell’Angola alla Biennale di Venezia del 2013 e fondatore del St. Moritz Art Film Festival.
La recente apertura della Forest, a febbraio 2025, ha attirato l’attenzione internazionale, soprattutto perché gode della presenza di grandi nomi del mondo dell’arte, come Louise Bourgeois, Fujiko Nakaia, Elmgreen & Dragset. Ma dietro alla realizzazione della Forest, c’è il progetto di un polo attrattivo che nasce nel cuore della città di Bangkok: “senza la Kunsthalle, non ci sarebbe mai stata la Forest. Per questo è importante capire che sono le due facce della stessa medaglia, ma declinate in modi completamente diversi” spiega a Domus Pansera, che racconta di essersi trasferito a Bangkok due anni fa per intraprendere questo temerario progetto curatoriale.

“Entrambi i progetti si fondano sul concetto di healing, di curare e di prendersi cura”, sostiene Pansera, sperimentando un approccio che, come un gioco di parole, fa della cura del luogo il tema stesso del progetto di curatela.
La Kunsthalle, un edificio che si rigenera un piano alla volta

L’edificio situato nel quartiere di Yawaerat (cioè Chinatown) a Bangkok è ciò che Pansera definisce “una bellissima espressione di archeologia industriale”. Si tratta di una ex tipografia – divisa in 3 edifici, oggi unificati - rimasta vittima di un incendio nel 2001, evento che ha determinato l’abbandono dell’immobile per ben 23 anni. Nel 2023, Chearavanont e Pansera lo hanno trasformato nella sede della nuova Kunsthalle di Bangkok, adottando un approccio curatoriale radicale.
Invece di ristrutturare l’edificio con una visione imposta dall’alto, l’idea è quella di addomesticarlo e raggiungerlo piano per piano.
Stefano Rabolli Pansera

L’attività artistica è iniziata immediatamente, senza ristrutturazioni né interventi di trasformazione estetica. L’approccio seguito da Pansera, infatti, si serve delle opere d’arte e delle installazioni ospitate all’interno dello spazio museale per ricostruire l’edificio stesso. “Invece di ristrutturare l’edificio con una visione imposta dall’alto, l’idea è quella di addomesticarlo e raggiungerlo piano per piano” commenta il curatore. Così, a partire dalla prima di Michel Auder nel gennaio 2024 al primo piano, la Kunsthalle diventa viva e visitabile un piano alla volta. “Ogni artista crea un’installazione che modifica lo spazio in cui si inserisce e allo stesso tempo si adatta all’anima dell’edificio stesso” sostiene Pansera, “Lo spazio, così brutale e grezzo, costringe gli artisti a soluzioni impossibili in un contesto museale tradizionale, rendendoli parte attiva del processo di ridefinizione dell’edificio.”

Partendo da una base di servizi primari e infrastrutture essenziali come elettricità e impianti di aerazione, il resto dello spazio si evolve in base alla creatività degli artisti, come nel caso dell’installazione di Yoko Ono che ha introdotto un tavolo per ottanta persone in una sala diventata un laboratorio per riparare frammenti di ceramica, o la mostra di Korakrit Arunanondchai, filmaker thailandese la cui installazione di opere video ha innescato la ristrutturazione di un’ala dell’edificio, diventata un cinema permanente. “È una nuova epistemologia del progetto, e questa idea di combinare un programma curatoriale con un progetto architettonico è il perno di questa operazione” spiega Pansera, sottolineando che “l’edificio non vuole essere semplicemente un luogo dove si mostrano le opere, ma lo strumento attraverso cui le opere si mostrano in modo diverso”.

La Khao Yai Art Forest e la natura risanata dall’arte
Come la Kunsthalle, anche la Khao Yai Art Forest ha alle spalle una storia difficile: si tratta di un appezzamento di terra di circa 65 ettari che negli anni ’70 è stato completamente distrutto da un’agricoltura intensiva. “È un paesaggio naturale fortemente violentato” dice Pansera “per questo il tema della ‘cura’ diventa ancora più importante”.

Il modello classico del parco di Land Art ormai è come un virus. Trovo che sia obsoleto posizionare semplicemente delle opere d’arte nella natura.
Stefano Rabolli Pansera
Nella definizione di questo nuovo progetto, il curatore si sbilancia: “Il modello classico del parco di Land Art ormai è come un virus. Trovo che sia obsoleto posizionare semplicemente delle opere d’arte nella natura, così come trovo obsoleto chiamare le archistar per fare qualcosa di iconico e di spettacolare. La Khao Yahi Art Forest vuole essere quanto di più lontano da tutto questo, almeno negli intenti”. Può sembrare un’enorme contraddizione, quindi, che nella Forest si trovino (anche) opere di grandi nomi, tra cui Louise Bourgeois, Fujiko Nakaia, Elmgreen & Dragset.

In realtà, spiega Pansera, le opere di questi artisti non si limitano ad inserirsi solo nel contesto naturale, ma tentano di interagire con esso in modi inaspettati e alle volte incontrollabili. Come la coltre di finta nebbia di Fujiko Nakaia, che al minimo soffio di vento o movimento di ali di uccello assume una forma diversa. La presenza di questa opera d’arte trasforma anche il terreno stesso, con l’umidità costante che tenderà a creare, nel tempo, un nuovo ecosistema, in cui cresceranno nuovi fiori e piante. Un altro esempio è l’opera del monaco thailandese Ubatsat, che ha posizionato nella Forest 9 frammenti di Jedi, la tipica cupola dei templi thailandesi, con l’idea che la terra, con i suoi muschi e piante spontanee, possa riappropriarsi del suo spazio attraverso la storia locale.

Perfino la famosissima Maman di Burgeois, che si inserisce come presenza temporanea, assume un significato diverso: “di solito questo gigantesco ragno viene inserito in contesti urbani. Qui, immerso in questo spazio verde sconfinato, sembra tornato ad essere un piccolo insetto nella natura” suggerisce Pansera.
Un bar totalmente fuori contesto

C’è poi chi ha proposto qualcosa di completamente opposto e provocatorio. Elmgreen & Dragset, i due artisti conosciuti per aver realizzato negli ultimi 30 anni opere sovversive e di forte impatto visivo, hanno scelto di costruire il K-Bar, un piccolo locale metropolitano in un ambiente naturale, accessibile solo una volta al mese e quasi completamente non visibile dall’esterno.
L’idea principale era quello di creare un senso di spaesamento, quasi come se un oggetto alieno fosse caduto in mezzo alla foresta.
Elmgreen & Dragset

“L’idea principale era quello di creare un senso di spaesamento, quasi come se un oggetto alieno fosse caduto in mezzo alla foresta” spiega il duo di artisti a Domus, creando un parallelismo con alcune delle loro opere più note: “come Prada Marfa, un negozio di design nel mezzo del deserto, e Van Gogh's Ear, una piscina installata verticalmente nel Rockefeller Plaza di New York, K-Bar sposta qualcosa da un contesto sensato a un ambiente totalmente nuovo.”
È un’opera che sembra essere lì come monito di ciò che non si dovrebbe fare, creando un distacco netto tra l’intervento umano e la natura, ma negando la sua fruizione anche all’uomo stesso, mostrando “gli effetti emotivi e psicologici dell’attesa e delle aspettative insoddisfatte”.
All’interno del bar, un dipinto dell’artista tedesco Martin Kippenberger, da cui prende il nome l’opera di E&D, diventa la sintesi dell’installazione: “l’idea di dislocamento aumenta ancora di più, poiché molte preziose opere d’arte e manufatti provenienti dal Sud-est asiatico sono finiti nei musei europei. Qui abbiamo fatto l’operazione contraria: abbiamo collocato un’opera unica, di un importante artista tedesco, nella campagna thailandese” affermano Elmgreen & Dragset.

Il caso ha voluto che il dipinto raffigurasse un ippopotamo, e poco dopo la sua acquisizione, un cucciolo di ippopotamo thailandese di nome Moo Deng è diventato virale sui social. Concludono divertiti gli artisti: “Ora sembra che il dipinto sia stato fatto apposta”.
Immagine di apertura: Bangkok Kunsthalle. Foto Andrea Rossetti

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