Tocca proprio alla “figurina” della Gioconda con i baffi di proprietà del partito comunista francese e in deposito al Centre Pompidou per i prossimi cent’anni pubblicizzare in gigantografia, l’ennesimo funerale duchampiano.
Marcel Duchamp
Il Centre Pompidou di Parigi dedica una mostra a Marcel Duchamp, e propone in una nuova luce i dipinti di una delle figure artistiche più iconiche del XX secolo.
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- Ivo Bonacorsi
- 16 ottobre 2014
- Parigi
È uno strano destino che il sublime esercizio di pigrizia dell’anartista, capace di stravolgere la processualità dell’arte del XX secolo, sia ora riproposto al pubblico come indizio a suo carico. In fondo, il quadretto trovato al mercatino e firmato sarebbe bastato a evitare la caritatevole missione di riavvicinare Duchamp alle ridicole croste dei suoi esordi, che – seppur collezionate da grandi musei – arrivarono (purtroppo per lui) in ritardo di almeno 5 o 6 anni sulla spietata e ridicola legge della novità e soprattutto sulle sue epifanie ai vari Salon parigini 1905 e 1911.
Scomparsi i suoi magnifici gesti di reazione alle disonorevoli inclusioni e agli allontanamenti dalle kermesse artistiche dell’epoca, quando New York e Parigi si giocavano ancora in una partita a dadi, all’ombra dell’azzardo teorico di Mallarmé, il primato di un mercato ricchissimo ristretto e ancora tutto da inventare per l’avanguardia. È per una questione teorica che allora le sue tele finirono in un angolo – non proprio qualunque – dei salotti bene newyorkesi, in compagnia di arte primitiva e pezzi di Brancusi, mentre oggi finiscono in stand-by i ready-made assistiti e non, le fontane orinatoio, le ruote di bicicletta.
Oppure, come una carta da parati floreale, punteggiano una magnifica collezione di scadenti e più o meno esatte prove di pittura amatoriale. È purtroppo la stessa sua minuzia per la traccia e la nota, vertigine che ha sopraffatto i curatori e lo stesso compito decisamente demistificante del museo portatile. In fondo, proprio Duchamp aveva chiuso tutta la sua opera in valigia, assistito da Joseph Cornell e, con l’aiuto dell’artista pop inglese Richard Hamilton, aveva accettato di replicare l’inamovibile Grande Vetro.
L’esigenza di visibilità porta a un tragicomico destino la sua partita a scacchi con la storia della pittura, vinta in partenza perché era già stata persa contro i mostri sacri del Novecento – Matisse su tutti. È, in fondo, lui a promuovere il Dada più radicale ma, ancor più, ad accogliere nella New York esoterica e carbonara delle prime avanguardie, nel salotto buono degli Arensberg, l’urlatore del secolo, Arthur Cravan il pugile intellettuale che si era scagliato contro la politica del Salon. L’intellettualissimo Duchamp paga oggi persino il prezzo della qualità media delle sue croste. Le sue A propos d’une jeune sœur del 1911 o la Femme brune corsage vert, così come il ritratto di Yvonne Duchamp del MoMA del 1907 assumono oggi lo statuto del capolavoro quando non sono che tristi lavori di de-teorizzazione del cubismo, ed erano infelici persino per i suoi amici cubisti della prima ora. Un’altra bellissima e inutile mostra per dirci che Duchamp pittore per linea famigliare come il fratello maggiore o lo zio ha pagato il tributo matissiano, cezanniano e quant’altro.
L’ennesima magia curatoriale estrae dal cilindro, ricomposte, pagine e pagine di note, create intorno all’ultimo impossibile quadro La marié mis a nu… relegando a una piccola maquette di Etant Donné la capacità di secreto e in fondo d’instancabile denuncia delle qualità voyeuristiche del valore e della merce. È quel corpo di donna, illuminato da una luce a gas che intravediamo dietro una serratura a Filadelfia, la traccia del suo crimine perfetto.
Edouard Manet era il solo artista moderno da uccidere per entrare nell’olimpo dei grandi. Duchamp l’ha fatto inventando macchine, celibi e non, imbrattando superfici. Più concettuale di così si muore e – in realtà – troppo amore rischia di fare morire anche il più iconoclasta degli artisti.
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Fino al 5 gennaio 2015
Marcel Duchamp – La peinture, même
Centre Pompidou, Galerie 2