Come Domus ha già avuto modo di raccontare, il Brutalismo si è sviluppato a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, un tempo in cui il pensiero architettonico riformulava il lessico del costruire per fare fronte alle esigenze della società ferita dalla guerra e pronta a ripartire. Il risultato è un’architettura che cerca di liberarsi dalle rigidità del Movimento Moderno, scarnificata e disinvoltamente anti-edonistica, che privilegia l’etica all’estetica e si caratterizza per il funzionalismo schietto, l’impostazione gerarchica della struttura e la plasticità dei volumi. La firma estetica del brutalismo – per ragioni al contempo espressive ed economiche – è appunto il beton brut, il cemento armato a vista, che ritroviamo a ogni latitudine e in ogni continente, nelle espressioni europee come l’Unité d’Habitation di Le Corbusier a Marsiglia e le realizzazioni dell'area anglosassone, così come nelle differenti espressioni tropicali, sempre in dialogo con città e natura. In Italia, come sempre caso peculiare, più che un vero e proprio gruppo o movimento brutalista che si afferma, sono piuttosto diversi percorsi storici e di ricerca – radicali, postmoderni, organicisti, indipendenti – ad incrociare quella che, specialmente oggi, è classificata e globalmente accettata come estetica brutalista, oppure ad integrare le componenti di programma sociale proprie di progetti brutalisti loro contemporanei. Per questo, pur nella differenza dei loro percorsi, abbiamo raccolto 20 di queste architetture per esplorare la specificità italiana del tema: dalle opere istituzionali (Viganò, Castiglioni, Banca d’Italia a Catania, Spence, Sartogo, Albertini, D’Amore-Basile), agli edifici di culto (Guacci, Arrighetti, Andrault-Parat), al terziario (Zanuso), agli interventi residenziali alla scala architettonica (Perugini, Berarducci, Graffi-Musmeci, Busiri Vici) e urbana (Vecchi, De Carlo, Aymonino-Rossi, Fiorentino, Celli-Tognon). Comune denominatore è, soprattutto alle origini, la fiducia nel cambiamento – nell'approccio progettuale, nella cultura e nella politica – facendo leva sul diritto alla città e alla casa e su un’idea di società equa e coesa. La naturale corrosione fisica del materiale e il degrado antropico che hanno talvolta segnato alcune opere hanno contribuito a consolidare nell’immaginario collettivo l’iconografia delle architetture brutaliste come di “cadaveri insepolti" (parafrasando Ernesto Nathan Rogers), spesso utilizzate come parafulmine per giustificare politiche pubbliche fallimentari. A volte demolite, a volte abbandonate, a volte snaturate, a volte additate a monito di un passato gravoso come le masse che le compongono, molte architetture brutaliste in Italia restano però una ricca eredità storico-testimoniale che pone oggi una inevitabile questione: se sia più brutale (in senso letterale) un’opera filologicamente brutalista nelle forme e nei contenuti o certa edilizia corrente semplicistica e anestetizzata, fatta di villettopoli pseudo-vernacolari o proliferazioni speculative, che punteggia le città italiane contemporanee, e che di cambiare il mondo con l’architettura non fa il minimo tentativo.
Brutalismo in Italia, 20 architetture che devi conoscere
Ripercorriamo le orme del brutalismo alla riscoperta di opere italiane che, al di là di apologie o demonizzazioni, raccontano la volontà di cambiare il mondo attraverso la schiettezza dell’architettura.
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Domus 521, aprile 1973
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- Chiara Testoni
- 01 giugno 2023
Il complesso, considerato un capolavoro dell'architettura brutalista a livello internazionale e oggi in stato di degrado, è composto da quattro nuclei edilizi principali orientati secondo un asse est-ovest e immersi in un parco, che ospitano le diverse aree funzionali: uffici e direzione, convitto per gli studenti, il corpo per i docenti e un centro scolastico. L’impianto planivolumetrico è caratterizzato da una rigorosa scansione modulare, enfatizzata dalla struttura in cemento a vista a passo costante. Particolarmente rilevante risulta la scelta compiuta dall’architetto, d’accordo con gli educatori dell'Istituto, di di articolare su due livelli i quartieri abitativi..
Situato a una quota di 330 m sul monte Grisa, il santuario è soprannominato dai triestini il "formaggino" per la sua forma triangolare. Il complesso, da cui si coglie una vista spettacolare della città, è caratterizzato dall'imponenza della struttura in cemento armato a vista e dal diverso spirito delle due chiese sovrapposte che lo compongono: la chiesa superiore luminosa e trasparente, scandita dai moduli triangolari della facciata, e quella inferiore definita da lame di luce in sequenza.
“Questo edificio ha introdotto nell'edilizia scolastica – forse per la prima volta in Italia – l'identificazione dell'architettura con la struttura, in questo caso molto complessa nel sistema delle volte”: così Castiglioni descriveva la sua opera, ritenuta da Nikolaus Pevsner uno dei migliori esempi di architettura brutalista e, secondo la critica, non priva di riferimenti all’espressionismo di Poelzig e Mendelsohn (dalla drammatizzazione delle forme, al disegno delle aperture). Il complesso è composto da due volumi in linea – uno dei quali arcuato in pianta e in facciata – di tre piani fuori terra, disposti su una piastra scandita da una sequenza di shed curvilinei prefabbricati in cemento armato, che contiene le funzioni comuni. Il fronte è scandito da setti sagomati e vetrate in ferro-finestra che si incurvano plasticamente verso la sommità.
La chiesa si inserisce nel contesto distaccandosi apertamente dall’edilizia residenziale circostante, grazie al suo marcato andamento ascensionale. Il fronte, raddoppiato nell’immagine riflessa dalla vasca antistante, è formato da un unico triangolo allungato in cemento a vista traforato da finestre colorate, ricorda da un lato le guglie gotiche e dall’altro suggerisce l’idea di una tenda piantata nel quartiere. La struttura è composta da muri in cemento armato con travi in acciaio che sorreggono la copertura, oggi in lamiera di alluminio porcellanato dopo che un incendio ha distrutto quella originaria in materiale plastico. A fianco della chiesa si situano gli edifici parrocchiali e le residenze del clero, distribuiti a semicerchio attorno a un giardino.
Ridurre la cosiddetta Casa Albero a semplice residenza estiva sarebbe riduttivo, perché l’opera progettata da una famiglia di architetti (padre, madre e figlio) per se stessi non è soltanto una casa al mare ma un esempio di sperimentazione di un nuovo linguaggio architettonico in ambito abitativo. L’opera è stata concepita come work in progress continuamente trasformabile, fermo restando il dialogo costante con la natura. Il complesso è formato da tre edifici di tipologia diversa: la casa, con struttura modulare ripetibile, in calcestruzzo grezzo, vetro e acciaio tinto di rosso; la palla, una sfera di 5 metri di diametro concepita come appendice esterna alla casa; i tre cubetti, moduli spaziali cubici intervallati da semi-moduli contenenti i servizi, camera da letto, soggiorno e cucina, in meno di 40 metri quadrati.
Il villino affacciato su una collina del parco urbano di Monte Mario è caratterizzato da una maglia strutturale in cemento armato a vista composta da pilastri a C e travi che scandiscono l’impianto plani-volumetrico e ritmano i prospetti, dove tamponamenti compatti e chiusi dialogano con le vetrate dei fronti principali. L’opera è stata sfondo per alcune scene del film “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri.
Situato nella fascia a nord della ferrovia in una zona che dal dopoguerra è diventata l’area di espansione delle attività industriali e commerciali della città, il complesso polifunzionale nasce per ospitare, oltre ai servizi e alle attività commerciali, miniappartamenti destinati ai lavoratori del Mercato Bestiame. Il monolitico fabbricato, caratterizzato da una marcata orizzontalità accentuata dall’alternanza di piani in cemento armato con quelli ad intonaco di colore mattone scuro, è presto diventato un epicentro di degrado e criminalità. A partire dagli inizi del 2000, il complesso è stato oggetto di un intervento di rigenerazione finalizzato non solo a sanare il degrado fisico ma anche a far fronte alla radicata conflittualità sociale della zona: il progetto ha previsto la revisione dimensionale degli alloggi per garantirne una migliore fruibilità, l’insediamento di associazioni culturali, formative e di servizi, la riqualificazione degli spazi pubblici esterni.
L’edificio è caratterizzato da un volume di forte impatto monumentale, a simboleggiare il carattere istituzionale della costruzione. Il fronte interamente in calcestruzzo si anima ai vari livelli in un drammatico gioco di luci ed ombre, attraverso la ritmica serrata della struttura a vista di pilastri e travi in calcestruzzo: dilatata ai primi due livelli, dove pilastri ciclopici scandiscono il porticato; serrata ai due piani successivi; marcata da aggetti e rientranze a quelli superiori.
La casa per un imprenditore piemontese nel settore dei cementi è un omaggio appassionato al calcestruzzo, gettato in opera in cassaforme lignee per travi e solette e impiegato in blocchi di cemento Vibramac per gli involucri. L’andamento a gradoni del volume, sorretto nella parte centrale da una struttura circolare in cemento armato che racchiude una scala a chiocciola in ferro, crea un giocoso contrasto tra la gravità delle masse ed il loro distaccarsi disinvoltamente dal suolo. I serramenti dai toni accesi gettano vivaci pennellate sui prospetti ruvidi e grigi.
L’edificio concilia il brutalismo di matrice anglosassone del progettista con il contesto storico della Porta Pia michelangiolesca: il complesso è caratterizzato da volumi in cemento armato rivestiti da pannelli in travertino che cercano un dialogo con la cromia delle mura Aureliane e che si alternano a superfici vetrate con infissi di alluminio di colore bronzo scuro.
L’ edificio si staglia con il suo carattere provocatorio e dirompente nel Quartiere Nomentano, in contrasto con la composta uniformità dei villini e delle palazzine novecentesche circostanti. La costruzione, connotata da una sequenza di volumi sovrapposti e aggettanti, evoca l’immagine di un albero che espande i suoi rami nel cielo. La struttura rivela all’esterno la ripartizione funzionale interna: il basamento cubico a due livelli interrati, leggibili dalla strada, con l’auditorium e la biblioteca, il garage, l’archivio e la tipografia; il piano terra con l’atrio di accesso e la grande sala dell’albo, riconoscibile dalle vetrate a tutta altezza su due piani; il piano primo con la sala riunioni, a sbalzo rispetto all’ingresso; i due piani superiori, che ospitano uffici, segnalati da una fascia marcapiano in lastra continua che rimarca il cambio di funzione.
La costruzione è un manifesto brutalista, riconoscibile come tale nell’utilizzo virtuosistico e plastico del calcestruzzo, nella forza espressiva delle superfici ruvide segnate dalle cassaforme lignee e nell’articolazione drammatica e vibrante delle masse strutturali, in una serrata dialettica tra chiari e scuri. Oggi prepotentemente trasfigurata nello spirito, resta il ricordo dell’architettura originaria, e con essa di una visione progettuale che sapeva guardare all’essenza senza tradire qualità e raffinatezza di composizione.
Il complesso polifunzionale originariamente denominato Residence Porta Nuova è un segno rappresentativo dell’attività architettonica degli anni settanta a Milano, fortemente consolidato nella memoria storica della città. La struttura in cemento armato è connotata da una forte scansione orizzontale dove le fasce marcapiano in cemento prefabbricato delimitano i curtain walls continui in acciaio e vetro. Lo studio Park associati ha realizzato recentemente un intervento di retrofitting che ha saputo interpretare con correttezza filologica il linguaggio originario, senza rinunciare ad un cura meticolosa del dettaglio contemporaneo. Gioiaotto è stato il primo edificio certificato LEED Platinum a Milano.
Il Palazzo dei Congressi della Regione Piemonte, in origine Federagrario e centro incontri CRT, in Corso Stati Uniti era un imponente edificio di 8 piani con destinazione uffici e sala congressi, composto da due blocchi simmetrici tripartiti in facciata: un basamento trasparente leggermente arretrato rispetto alla facciata, uno sviluppo verticale del fronte disegnato dal contrasto tra il calcestruzzo dei marcapiani e le finestre a fascia; la sommità vetrata e arretrata. La vistosa struttura portante in cemento armato con travi giganti sostenute da pilastri cilindrici evoca le mega-strutture di Kenzo Tange. Nel 2021 è stato venduto a un gruppo di investitori privati ed oggi è stato demolito, per lasciare posto ad una nuova costruzione.
Il quartiere, commissionato dalla società Terni Acciaierie in sostituzione del precedente villaggio operaio allo scopo di aumentare la densità abitativa del comparto, e solo in parte realizzato, è composto da quattro corpi di fabbrica in calcestruzzo a tre piani, con volumetrie articolate a gradoni che ospitano 240 alloggi, terrazze comuni e giardini pensili. L’intervento è stato oggetto di un percorso partecipativo di portata storica che ha visto coinvolti i progettisti, i committenti, gli abitanti chiamati ad esplicitare la propria voce, tra cui l’esigenza di spazi verdi pubblici e privati, di luoghi per la vita sociale e di separazione tra flussi di veicoli e pedoni.
Il “dinosauro rosso”, così definito per la struttura ciclopica, la forma insolita e il colore delle facciate, è un complesso residenziale nel quartiere Gallaratese concepito come una micro-città utopica ispirata in dialogo con l’ Unité d'Habitation di Le Corbusier a Marsiglia. L’opera comprende cinque edifici di altezze differenti raggruppati attorno a spazi centrali comuni di aggregazione (un anfiteatro e due piazze più piccole) e numerosi percorsi pedonali che evidenziano la ricerca di un rapporto dialettico tra spazio abitativo e spazio pubblico.
Il complesso, dalle dimensioni ciclopiche e di scala territoriale (è detto "il Serpentone"), accoglie circa 4500 abitanti ed è composto da tre edifici: la monumentale “stecca” principale, un unico corpo di 986 metri di lunghezza su nove piani; un secondo corpo più basso, parallelo al primo ed un terzo orientato di 45° rispetto ai primi due. Franco Purini diceva che “Fiorentino aveva una concezione dell’abitare come movimento eroico e che voleva che la sua mastodontica macchina abitativa fosse una specie di comunità che si sarebbe autoregolata facendo prevalere gli interessi collettivi su quelli individuali”. Purtroppo questa visione idealistica non è stata sostenuta dai fatti ma il Corviale – nonostante tutte le problematiche ancora in essere – resta ancora un luogo di vita e un interessante caso studio a livello non solo architettonico ma anche socio-economico.
Con le sue dimensioni ciclopiche, il complesso a Rozzol Melara caratterizza fortemente il paesaggio urbano della città. Concepito come un sistema insediativo semi-indipendente dotato di tutti i servizi e le infrastrutture secondarie di base, piuttosto che come un semplice edificio residenziale, l‘opera è composta da due corpi con impianto ad L, uno di doppia altezza rispetto all’altro, raggruppati attorno ad una corte centrale e collegati da un sistema di passaggi coperti e servizi collettivi. L’edificio realizzato completamente in cemento armato faccia a vista appare compatto e unitario, all’insegna di una certa monumentalità, enfatizzata dalla ritmica dei macroscopici pilastri con passo di 15 metri che definiscono grandi porticati.
La Basilica e Santuario della Madonna delle Lacrime, considerata la più grande chiesa di pellegrinaggio della Sicilia, è il frutto di un concorso di progettazione bandito nel 1957, per rappresentare l’importanza per i devoti di un evento miracoloso avvenuto quattro anni prima. Il complesso scultoreo a impianto circolare è suddiviso in due livelli – la basilica in alto e la cripta in basso – ed è coronato da una copertura conica in cemento armato, alta 103 m, sormontata da una statua in bronzo della Madonna.
Il complesso è caratterizzato da un corpo in cemento di colore rosa salmone, in forma di piramide a base rettangolare, tronca e rovesciata, che ospita gli uffici comunali, disposto su un volume vetrato che comprende sale espositive ed un teatro.