Se spingersi oltre i propri limiti è una propensione dell’uomo dai tempi di Icaro, costruire ad alta quota – in particolare al di sopra dei 2.000 m s.l.m., secondo un limite non scientifico ma indicativo di un contesto ambientale particolarmente complesso – è una pratica che si è diffusa soprattutto in tempi recenti, con lo sviluppo del turismo e dell’innovazione tecnologica. La costruzione in altitudine ha una duplice valenza: se da un lato è un’equivocabile affermazione narcisistica di conquista (di una vetta o di proprie capacità fisiche e mentali), dall’altro è una ammissione della fragilità dell’individuo in rapporto alla natura di cui, senza cedere al pessimismo leopardiano che la vuole “matrigna”, resta comunque ospite minuscolo e temporaneo. E proprio per sopravvivere a questa condizione, al di là dell’aspetto romantico ed emozionale che il contatto con la natura comporta, è soprattutto l’ingegno ad essere chiamato in causa per ideare soluzioni insediative adatte ad ambienti ostili: dalle tradizionali e semplici architetture in legno di un tempo (Chacaltaya Ski Resort), alle contemporane e più raffinate tecnologie basate su una spinta prefabbricazione, su un’efficace gestione logistica, sull’impiego di materiali innovativi ed ecologici e su soluzioni off-grid che rendono più sicura e meno impattante la presenza umana sulle vette. Così che siano rifugi, bivacchi, ristoranti, opere d’arte o luoghi di cultura, le architetture sulle cime raccontano tutte, seppure con linguaggi diversi, la stessa storia di avventura e intraprendenza: dalle costruzioni letteralmente integrate nella roccia (Zaha Hadid Architects) o sfacciatamente anti-mimetiche (Gentilcore e Testa), a quelle ispirate al genius loci (Rifugio Mollino, MacKay-Lyons Sweetapple Architects, Archermit, Martino Gamper, Museo dell’Asia Centrale a Leh) o minimali (Koncheto Shelter, OFIS arhitekti, Skylodge Adventure Suites).
Architetture d’alta quota: quando il progetto si confronta con la montagna
12 costruzioni in vetta, dalle Alpi al Sud America, dallo Utah al Tibet, raccontano il fascino romantico e tecnologico di un’avventura dell’ingegno umano.
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- Chiara Testoni
- 08 agosto 2023
A 5.375 m s.l.m., per decenni il Chacaltaya Ski Resort ha detenuto il record di stazione sciistica più alta al mondo. Con lo scioglimento del ghiacciaio nei primi anni 2000, il resort è stato progressivamente abbandonato; oggi resta in funzione il ristorante — riconosciuto dal Guinness dei primati — nell’edificio limitrofo al corpo principale in legno e pietra, da cui ammirare un panorama impressionante.
Il complesso, situato lungo la panoramica Route 318 in prossimità del lago Ranwu — il più grande del Tibet orientale — comprende un centro servizi, hotel, bar, un centro espositivo e di vendita di specialità tibetane, e posti auto per chi accetta la sfida di avventurarsi in un luogo spettacolare ma dalle condizioni climatiche estreme. Gli edifici, dai volumi semplici ed essenziali, sono realizzati con materiali altamente resistenti agli agenti atmosferici: dall’acciaio nelle strutture, ai pannelli di fibra di cemento bianco, cor-ten e ciottoli locali nei rivestimenti.
Con la sua una massa squadrata e la sommità piana incoronata da un ballatoio in legno che ricorda le torri fortificate himalayane, l’edifico contemporaneo inserito nel tessuto storico della città è un compendio architettonico di stili, tecniche costruttive e metodi artigianali provenienti dalla vasta area centroasiatica, nonché un punto di riferimento culturale imprescindibile in una zona dalle forti tensioni geo-politiche.
“Our glacial perspectives”, commissionata da Talking Water Society — una piattaforma di riflessione e interscambio sul tema delle risorse idriche — è un'opera d'arte pubblica permanente situata sul Monte Grawand. L’intervento si snoda per un percorso di 410 metri lungo la cresta della montagna: nove archi metallici — che corrispondono alla durata delle ere glaciali della Terra — scandiscono il sentiero che conduce all’istallazione principale costituita da anelli di acciaio e vetro, al cui interno — come in un dispositivo ottico — lo spettatore può leggere il percorso del sole.
Le capsule ottagonali e trasparenti, incastonate nel fianco della montagna e letteralmente sospese nel vuoto, sono ispirate ai nidi dei condor e offrono una prospettiva a 360° sulla Valle Sacra. Gli alloggi, ciascuno in grado di ospitare 8 persone, sono caratterizzati da una struttura leggera ed estremamente resistente agli agenti atmosferici in alluminio aerospaziale e policarbonato.
Il nuovo bivacco sostituisce quello storico dedicato al celebre alpinista torinese e originariamente prefabbricato in legno. Con la forma — dichiaratamente antimimetica — di un cannocchiale incastrato nella montagna o di una fusoliera d'aereo, la costruzione modulare, interamente prefabbricata e caratterizzata da una scocca modulare in sandwich composito, è concepita per resistere a condizioni climatiche estreme; all’interno, l’ambiente rivestito in legno di betulla accoglie calorosamente fino a 12 alpinisti.
Situato lungo un percorso impervio tra le cime del Bayuvi Dupki e del Banski Suhodol, questo rifugio in lamiera – che dal 2018 sostituisce il precedente in legno – è ancorato con tiranti alle rocce per evitare che la piccola ma essenziale struttura di riparo – soprattutto per chi si avventura da queste parti – venga spazzata via dal vento.
L’intervento è concepito come parte di “Summit Series”, un ambizioso progetto finalizzato a promuovere una comunità ideale di investitori, intellettuali, artisti e attivisti accomunati dai valori di filantropia, sostenibilità ambientale, innovazione e creatività. La “new town” nelle Wasatch Mountains è composta da una biblioteca, un lodge e ventisei alloggi di varia tipologia raggruppati attorno a corti comuni, con volumi a capanna rivestiti in tavole e scandole di cedro e sospesi su strutture metalliche.
Il complesso fa parte del Messner Mountain Museum, un circuito di 6 musei (Firmiano, Juval, Ortles, Dolomites, Ripa e Corones) diffusi nel territorio alpino e dedicati al rapporto tra l’uomo e la montagna: la costruzione, quasi totalmente ipogea, emerge all’esterno con volumi fluidi e scultorei in cemento e vetro che sembrano una prosecuzione delle rocce granitiche e offrono spettacolari punti di osservazione sulle Dolomiti.
Una struttura minimale e leggera che fluttua sul vuoto e reinterpreta negli interni il calore delle malghe alpine: così il designer di origini altoatesine ha concepito questo ristorante stellato, dove il legno utilizzato come materiale principale — dal parquet agli arredi — e le pennellate di colore acceso offrono un’atmosfera elegante e conviviale con una vista mozzafiato sulla maestosa natura circostante.
Il piccolo e compatto volume con struttura prefabbricata in pannelli di legno lamellare incrociati e rivestimento alluminio è agganciato tramite tiranti alla roccia e sfida la gravità proiettandosi con un aggetto considerevole nel vuoto.
Il rifugio, promosso del Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino, è stato costruito sul modello del progetto incompiuto di Carlo Mollino della “Casa Capriata” per la X Triennale di Milano (1954): una struttura sospesa che reinterpretava la tradizione costruttiva dell'alta Valle di Gressoney ed esplorava materiali e tecniche innovative. A distanza di settanta anni, l’opera evidenzia l’attualità del progetto originario come manifesto di un’architettura eco-sostenibile e fortemente rappresentativa dello spirito del luogo.