Ernesto Nathan Rogers diceva che “i cadaveri dell’architettura rimangono insepolti”. Ed è quello che è capitato a molti interventi residenziali nella periferia italiana che, nell’intento di offrire alle fasce sociali più disagiate un alloggio degno di essere chiamato “casa”, testimoniano una volontà di riscatto dalla povertà e dalla discriminazione. Già a partire dai tempi della rivoluzione industriale si sviluppano visioni di città ideale concepite per ottimizzare la qualità della vita dei lavoratori (Villaggio Crespi) ma è soprattutto nel dopoguerra che le periferie assumono un ruolo “pilota” nella genesi di nuove politiche urbane.
Abitare ai margini: 11 luoghi simbolici della periferia italiana
Edifici situati in periferie spesso degradate e conflittuali, seppure originariamente ispirati ai valori di uguaglianza sociale e dignità abitativa, raccontano storie non sempre a lieto fine del nostro passato recente.
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- Chiara Testoni
- 22 aprile 2022
Tra le rovine, l’Italia si risveglia dall’incubo per ricostruire non solo lo spazio fisico ma anche le coscienze, partendo da un radicale ripensamento del tema della casa popolare e sviluppando un processo di revisione dei linguaggi e dei modelli urbani precedenti: tra il 1949 e il 1963 lo Stato avvia il piano Ina-Casa, un ampio progetto di edilizia residenziale pubblica promosso dall’allora Ministro del Lavoro Amintore Fanfani, funzionale alla strategia di contrasto alla crisi abitativa e all’incremento dell’occupazione della classe operaia.In bilico tra Neorealismo e Razionalismo, tra reinterpretazioni vernacolari intrise di approcci socio-psicologici da un lato e funzionalismo spinto dall’altro, diversi sono gli interventi che ridestano territori esanimi conferendo loro una nuova linfa vitale (Quartiere Tiburtino, Quartiere Mangiagalli II, Borgo La Martella).
A seguire negli anni, con il sempre più marcato perseverare della biforcazione tra i “sommersi” e i “salvati” della società (per parafrasare Primo Levi), l’esigenza mai sopita di offrire una opportunità di rinascita ai più bisognosi ha dato forma a interventi spesso ciclopici concepiti come un micro-cosmo urbano autosufficiente dove quello residenziale è solo uno degli aspetti della progettazione, paritetico al tema della valorizzazione dello spazio pubblico e della vita comunitaria (Vele di Scampia, Complesso Monte Amiata, Zen2, Complesso R-Nord, Quartiere Matteotti, Corviale, Quartiere Sant’Elia).
Purtroppo, molto spesso, i sogni riportati sulla carta nel corso del tempo si sono infranti sotto i colpi di composite dinamiche ambientali e socio-economiche che hanno esacerbato proprio la segregazione e l’ingiustizia sociale che le opere volevano contrastare: restano spesso le tracce di un’Utopia agonizzante, tra rigurgiti di cambiamento e sventolamenti di bandiera bianca, a farci riflettere ancora oggi sul ruolo dell’architettura nell’influenzare positivamente – o negativamente – i processi complessi di trasformazione del territorio e della società.
Primo quartiere Ina-Casa romano, definito da Manfredo Tafuri come il “manifesto del neorealismo architettonico e insieme dell’ideologia dell’Ina-Casa primo settennio”, il complesso prevalentemente residenziale è composto da diverse tipologie edilizie, tra cui case a torre (7 piani con 3 o 4 alloggi per piano), a schiera (2 o 3 piani) e in linea (prevalentemente di 4 piani) e da 4 edifici commerciali. Sulla scia dei sentimenti di entusiasmo per la ricostruzione post-bellica e di volontà di riscatto dagli errori del passato il quartiere contempla, come diceva Ridolfi, “composizioni urbanistiche varie, mosse, articolate, tali da creare ambienti accoglienti e riposanti, con vedute in ogni parte diverse…dove ciascun edificio abbia la sua fisionomia ed ogni uomo ritrovi senza fatica la sua casa, col sentire riflessa in essa la propria personalità”. Una prova che non sempre, o non completamente, i sogni in chiave populista diventano realtà.
Nel quartiere IACP Mangiagalli II, iconico complesso di edilizia economica popolare situato nella periferia storica a nord-ovest della città, gli edifici progettati da Albini e Gardella reinterpretano in chiave moderna il tema consolidato della casa di ringhiera, dove le scale inserite nelle facciate sono evidenziate da volumi in mattoni traforati e dove i pianerottoli sono concepiti per favorire socialità e vita di relazione.
Dopo lo sfollamento nel 1952 dai Sassi di Matera degli abitanti, che qui vivevano in condizioni di estrema povertà, la città ha dovuto fare fronte ad un imponente esodo, realizzando quartieri popolari idonei al trasferimento di circa 2/3 della popolazione. Tra questi luoghi, appositamente progettati con l’obiettivo di preservare i valori storici della vita di relazione e della prossimità su cui si basava la società popolare di allora, c’è il Borgo La Martella, fortemente voluto da Ludovico Quaroni e Adriano Olivetti. Si dice che ai primi abitanti che vi si insediarono furono donate una mucca e un carretto con le ruote gommate, forse per rendere più accettabile il passaggio dall’universo contadino ad una nuova dimensione urbana.
Inizialmente concepite come un’ opportunità per soddisfare la crescente domanda di abitazioni da parte di fasce economicamente svantaggiate, oggi le Vele sono il simbolo per antonomasia del degrado urbano. Il complesso era originariamente composto da 7 edifici distribuiti su un’area di 115 ettari, dei quali quattro di questi sono stati già demoliti, due saranno demoliti e uno riqualificato. Il progetto è stato ispirato ai principi dell’existenzminimum - che prefigurava l’abbattimento dei costi di costruzione e la riduzione delle superfici degli spazi privati a vantaggio di quelli comuni - e delle Unitès d’Habitation di Le Corbusier, ed è caratterizzato da tipologie a torre e “a tenda”: quest’ultima, connotata dall’accostamento di due corpi di fabbrica inclinati, separati da un grande vuoto centrale attraversato da ballatoi, definisce l’immagine più tristemente nota del complesso.
Il “dinosauro rosso”, così definito per la struttura ciclopica, la forma insolita e il colore delle facciate, è un complesso residenziale nel quartiere Gallaratese concepito come una micro-città utopica ispirata al modello dell’ Unité d'Habitation di Le Corbusier a Marsiglia. L’opera comprende cinque edifici di altezze differenti raggruppati attorno a spazi centrali comuni di aggregazione (un anfiteatro e due piazze più piccole) e numerosi percorsi pedonali che evidenziano la ricerca di un rapporto dialettico tra spazio abitativo e spazio pubblico.
Il quartiere Zona Espansione Nord, interamente costituito da fabbricati di edilizia popolare, si suddivide in due aree abitative comunemente definite come "Zen 1" e "Zen 2", quest’ultima connotata da strutture architettoniche cosiddette “insulae”. Il comparto urbano è afflitto da consolidate problematiche di degrado ambientale e sociale tanto che si sono levate voci autorevoli (Massimiliano Fuksas) in favore della sua demolizione. Di recente sono stati avviati percorsi partecipati tra Università, Comune e residenti per migliorare l’offerta di servizi e ridurre la criminalità.
Situato nella fascia a nord della ferrovia in una zona che dal dopoguerra è diventata l’area di espansione delle attività industriali e commerciali della città, il complesso polifunzionale nasce per ospitare, oltre ai servizi e alle attività commerciali, miniappartamenti destinati ai lavoratori del Mercato Bestiame. Il monolitico fabbricato, caratterizzato da una marcata orizzontalità accentuata dall’alternanza di piani in cemento armato con quelli ad intonaco di colore mattone scuro, è presto diventato un “buco nero” di degrado e criminalità. A partire dagli inizi del 2000, il complesso è stato oggetto di un intervento di rigenerazione finalizzato non solo a sanare il degrado fisico ma anche a far fronte alla radicata conflittualità sociale della zona: il progetto ha previsto la revisione dimensionale degli alloggi per garantirne una migliore fruibilità, l’insediamento di associazioni culturali, formative e di servizi, la riqualificazione degli spazi pubblici esterni.
Il quartiere, commissionato dalla società Terni Acciaierie in sostituzione del precedente villaggio operaio allo scopo di aumentare la densità abitativa del comparto, e solo in parte realizzato, è composto da quattro corpi di fabbrica in calcestruzzo a tre piani, con volumetrie articolate a gradoni che ospitano 240 alloggi, terrazze comuni e giardini pensili. L’intervento è stato oggetto di un percorso partecipativo di portata storica che ha visto coinvolti i progettisti, i committenti, gli abitanti chiamati ad esplicitare la propria voce, tra cui l’esigenza di spazi verdi pubblici e privati, di luoghi per la vita sociale e di separazione tra flussi di veicoli e pedoni.
Il Corviale è il quartiere-simbolo del degrado delle periferie della capitale. Il complesso, dalle dimensioni macroscopiche (è detto "il Serpentone"), accoglie circa 4500 abitanti ed è composto da tre edifici: la monumentale “stecca” principale, un unico corpo di 986 metri di lunghezza su nove piani; un secondo corpo più basso, parallelo al primo ed un terzo orientato di 45° rispetto ai primi due. Franco Purini diceva che “Fiorentino aveva una concezione dell’abitare come movimento eroico e che voleva che la sua mastodontica macchina abitativa fosse una specie di comunità che si sarebbe autoregolata facendo prevalere gli interessi collettivi su quelli individuali”. Purtroppo questa visione idealistica non è stata sostenuta dai fatti ma il Corviale – nonostante tutte le problematiche ancora in essere – resta ancora un luogo di vita e un interessante oggetto di studio a livello non solo architettonico ma anche socio-economico.
Un intrico di vicoli che si snodano tra vecchie case di pescatori, un ex Lazzaretto - oggi centro culturale - e una Chiesa attraversa il quartiere più meridionale della città, a ridosso di un'area paludosa vicino al faro. La posizione marginale rispetto al tessuto urbano ha contribuito a stigmatizzare l’area, popolata prevalentemente da assegnatari di alloggi di edilizia pubblica, come off-limits e socialmente pericolosa ma Sant’Elia è uno spazio complesso e difficilmente etichettabile, dove la brutale durezza degli edifici in cemento armato convive con il carattere caldo e vivace del borgo più antico.