A Parigi in rue de la Harpe, ogni due settimane l’Académie des Sciences metteva in mostra quattro modelli di macchine, che prefigurassero nuovi modi per produrre. Era il 1683 , ed è quello che Linda Aimone e Carlo Olmo, nel loro libro Le Esposizioni Universali 1851- 1900 , presentano come il primo esempio di esposizione industriale: prototipi, simboli vivi del progresso, mostrati e condivisi con tutti. Ed è, in buona sostanza, ciò che le Expo propongono da quasi sempre: le società, e il loro contributo all'innovazione.
La storia di Expo in 5 tappe fondamentali, dal 1851 a oggi
Mentre Expo Dubai 2020 supera i 4 milioni di visite in meno di due mesi, Domus torna su oltre un secolo e mezzo di Esposizioni Universali, tra cambiamenti epocali, architetture iconiche, conflitti, abbandoni e potere della meraviglia in un mondo globale.
Concepita da Henry Cole, entusiasta dopo la visita all’esposizione di Parigi del 1849, la Great Exhibition è la prima esposizione propriamente internazionale, dove convergono da un bacino globale i temi e le innovazioni più avanzati di un'epoca. Non è dato un tema, la vocazione è prettamente commerciale, e soprattutto, a rimarcare la distanza dalle esposizioni precedenti, arriva, ineditamente unica e forte, l'identificazione tra l'evento e un’architettura iconica:il Crystal Palace. La grande serra in ferro e vetro progettata da Joseph Paxton, alta 39 m, ospitava nei suoi 92.000 metri quadrati un potente dispositivo scenico nato dall'interazione dei decori di Owen Jones (che ne trarrà nel 1856 il libro The Grammar of ornament) con gli oltre 100.000 oggetti esposti, che spaziavano dalla prima toilette pubblica al leggendario diamante Koh-I-Noor. Dopo i tre mesi di esposizione che videro passare — riportano le cronache — 6 milioni di visitatori, il principe Alberto volle continuare lo spirito educativo del progetto, istituendo nel 1852 il Museum of Manufacturers, il futuro Victoria and Albert. ©Foto Josse/Scala, Firenze, 2017. In Domus 1014, giugno 2017
Con l'esposizione che celebra i 100 anni dalla presa della Bastiglia si ha la spettacolarizzazione del progresso (aerostati panoramici, villaggi ricostruiti, show), e di una storia principalmente coloniale. Si ha anche però l'affermazione dell'Expo come dispositivo di scala urbana. L'intero Campo di Marte infatti viene occupato da una distesa gli edifici di forma, funzione e temi molto diversi, nati sotto la supervisione di Charles Garnier (l'architetto dell’Opéra), collegati dalla novità di una rete elettrica e da una linea ferroviaria temporanea. Chiaramente il simbolo che l'evento lascerà alla storia è il traliccio di 325 metri, fatto di oltre 18.000 elementi metallici, noto come Tour Eiffel; ma la celebrazione dell' industria del ferro vedrà l'ingegnere Gustave Eiffel coinvolto anche nella collaborazione con Ferdinand Dutert e Victor Contamin per la grande Galerie des Machines, copertura dalla luce libera di 115 metri nella navata principale, smantellata in seguito nel 1909, che in vent'anni di servizio si mostrerà estremamente versatile, ospitando i temi più differenti.
La prima metà del Novecento passa via tra interruzioni forzate e contrasti sempre più acuti tra le retoriche delle esposizioni e le effettive tensioni internazionali. Dopo la guerra e la ripresa, Expo 67 rappresenta un ritorno alla grande scala e allo spirito di innovazione proprio delle Esposizioni Universali, applicato soprattutto ai mondi della città, della costruzione e dell'abitazione. Il tema è Terre des Hommes/Man and his world. L’uomo e le sue attività. Tutto parla futuro e ricerca, tutto il sito è tappezzato di proiezioni multischermo, ma il lascito alla città è quello che passa alla storia: il sito stesso è in gran parte creato ex novo, ampliando un'isola in mezzo al fiume Saint Laurent e aggiungendone una nuova. Gli edifici, poi: l'enorme tensostruttura di Frei Otto per la Germania, il cluster abitativo di Habitat 67 concepito da Moshe Safdie per aggregazione di volumi prefabbricati, e l'icona di un'intera epoca, la Biosphere, la cupola geodetica alta 60 m concepita da Richard Buckminster Fuller per il padiglione degli Stati Uniti, inizialmente isolata da una membrana acrilica (bruciata in un incendio nel 1976) e attualmente attiva come struttura permanente di un museo dell'ambiente.
Il cambio di millennio segue un cambio di passo: le World Expo diventano quinquennali, e lo studio della loro collocazione diventa una priorità, in modo che la legacy del grande evento venga riassorbita dalle città, evitando abbandoni come a Siviglia (1992) o ancora Lisbona (1998). il masterplan è pronto nel 1994, e su quello vengono sviluppate alcune architetture pronte a diventare molto famose, prima fra tutte il padiglione olandese di MVRDV ma anche la gridshell giapponese di Shigeru Ban; ed è questo a salvare l'evento dal disastro completo (comunicazione inefficace del tema, meno della metà dei visitatori previsti; la critica dell’epoca si interroga sulla fine di un'epoca se non dello stesso modello Expo). Molte strutture sono infatti riassorbite dal tessuto urbano: il padiglione messicano di Legorreta, ad esempio, diventa la biblioteca dell'università di arte Braunschweig, e di quello olandese, dopo che era finito in vendita anche su eBay, è stata annunciata la trasformazione in struttura di co-working. Nota: per l'occasione, i Kraftwerk realizzano il jingle Expo2000, successivamente esteso in un brano.
Impossibile non parlare di città quando si parla di Expo 2010. Il tema della prima grande Expo del millennio — la prima non strettamente inserita nel “blocco occidentale” — è Better City, Better Life. Il monumentale evento, riconosciuto come l'edizione più costosa fino ad allora, atterra su un’area che unisce le due rive del fiume Huangpu, causando espropri e la ricollocazione di migliaia di residenti — come sarà denunciato immediatamente — e per sei mesi ospiterà il più grande numero di paesi mai riunito, ironicamente, attorno ai temi del miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni urbane. Le architetture non risparmiano grandi numeri e grande scala, come annunciato dal monumentale padiglione cinese, così come consacrano una nuova generazione di archistar quale Thomas Heatherwick, autore del Padiglione britannico. L'eredità dell'evento è costituita dall' Expo Park, dove viene conservato il padiglione cinese e trova spazio un museo sulla storia delle Expo. foto: Cesarexpo, cc by-sa 3.0
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- Giovanni Comoglio
- 30 novembre 2021
Certo, è “solo” un secolo e mezzo o poco più che le Esposizioni sono anche Universali — dal 1851, quando 25 paesi riempirono il Crystal Palace di Londra per la Great Exhibition — ma con questa loro missione, le Expo sono state forse la prima rappresentazione plastica, e destinata alle masse, di una idea di mondo globalizzato che all'inizio era persino difficile da pensare. Lungo la loro storia hanno conosciuto diverse fasi e forme: le prime Expo erano portavoce della produzione, della rivoluzione industriale, ma molto presto sono diventate scacchiere di posizionamento internazionale, politico ed identitario (fino all’immagine sinistramente iconica di Parigi 1937, con la coppia lavoratrice staliniana e l’aquila nazista che si fronteggiano dai due angoli del Champ de Mars).
Quando la modernità, e la Seconda Guerra Mondiale, arrivano e rendono il mondo molto più piccolo, anche Expo evolve, e con lei i linguaggi e i problemi intrinseci. Certo, nel secondo dopoguerra arriva la guerra fredda a condizionare quasi tutto, ma sotto il coordinamento — tuttora attivo — del Bureau International des Expositions torna un certo entusiasmo per un futuro fatto di idee comunitarie e fino a poco prima ritenute fantascientifiche: tutto è connesso, tutto è progresso, ricerca. È l’atomo d’acciaio (l'Atomium) costruito a Bruxelles nel 1958, è Diana Ross che canta vicino a una geode di Buckminster Fuller da Montréal nel 1967.
Le Expo diventano un tutt'uno con le città che le ospitano. Forse, però, non lo diventano completamente: nei decenni si moltiplicano le Expo specializzate e si fa sempre più presente il problema dei siti espositivi di volta in volta dismessi e lasciati all'abbandono. Questo non impedisce in ogni caso la nascita di quello che potremmo chiamare uno “stile Expo” dell'architettura, temporanea e altamente tecnologizzata, che ancora ci accompagna oggi. Il nuovo millennio poi si mostra consapevole di tutte queste tematiche: si decide di ridurre il proliferare degli eventi portando le World Expo ad una cadenza quinquennale e si rinforza l'importanza della loro tematizzazione, così come l'attenzione alla loro legacy per le città (due aspetti che, ad esempio, nel 2015 hanno significato una autentica trasfigurazione per la città di Milano). Tutto questo avviene in sensi anche molto diversi, come potrà mostrare la cinquina secca di pietre miliari che abbiamo selezionato nella storia delle Esposizioni Universali.
Londra, 1851
Parigi, 1889
Montréal, 1967
Hannover, 2000
Shanghai, 2010