Ray Eames diceva che le cose che funzionano sono meglio di quelle belle perché le cose che funzionano rimangono. E sembra che, seppure in un diverso contesto culturale, sia in questa convinzione che abbia trovato radici il Brutalismo, corrente architettonica diffusasi in Europa e poi in tutto il mondo a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso, in un’epoca di disorientamento e transizione in cui l’umanità ferita dalla guerra si rialzava per rifondare la cultura del costruire: non più le linee pure del Movimento Moderno ma un approccio che privilegia l’etica all’estetica, che abbraccia la spontaneità e la rudezza intenzionale come manifesto di un funzionalismo schietto e antiretorico. Un’architettura estranea ad ogni intellettualismo, che parla alle masse dei cui bisogni si fa interprete, soprattutto nella concezione di architetture civiche e per la comunità. Comune denominatore compositivo è il beton brut: il cemento armato a vista che a partire della prima Unité d’Habitation di Le Corbusier a Marsiglia si pone come cifra espressiva del movimento, ad ogni latitudine. Nonostante i presupposti, dopo le glorie iniziali il brutalismo è stato tacciato ad emblema delle disfunzioni della città moderna anche per via del degrado materiale che ne ha spesso impedito la durevolezza, con buona pace di Eames. Tuttavia il bisogno di un’architettura pregna di responsabilità sociale, concreta, estranea ai riflettori delle mode e laconicamente autentica è un lascito dell’”architettura grigia” - se non a livello formale sicuramente concettuale - con cui confrontarsi, soprattutto oggi. Il brutalismo è morto, viva il brutalismo.
Brutalismo, 20 architetture iconiche nel mondo
Il movimento Brutalista racconta alle diverse latitudini dello spirito di rinascita del dopoguerra, della volontà di rifondare un’architettura funzionale e sfacciatamente antigraziosa in barba alle mode, pregna di responsabilità sociale.
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- Chiara Testoni
- 05 novembre 2021
L’intervento nasce per soddisfare il fabbisogno abitativo del dopoguerra della popolazione di Marsiglia. Il complesso di 18 piani ospita 1.600 alloggi articolati in 337 appartamenti duplex ed è caratterizzato dall’uso diffuso del calcestruzzo grezzo. Nonostante le dimensioni monumentali che suggeriscono l’idea di de-personalizzazione e smarrimento, l’intervento rivolge un’attenzione scrupolosa agli spazi di socializzazione e ai servizi pubblici: la scuola, la biblioteca, l’asilo, l’hotel, il tetto verde, la piscina, il supermercato, la lavanderia e i negozi animano un micro – mondo su pilotis autonomo e organizzato.
A Chandigarth, città ideale alla maniera delle utopie rinascimentali, l’impianto urbano segue la struttura di un corpo umano con gli edifici governativi e amministrativi situati nella “testa”: tra questi, il Palazzo delle Assemblee - che fa parte dell’insieme che comprende l'Assemblea legislativa, il Segretariato e l'Alta Corte – è caratterizzato da una scarna e plastica struttura in calcestruzzo a vista enfatizzata dalla copertura a iperboloide e dalle torri che evocano le strutture di raccolta dell’acqua di Ahmedabad.
Iconico simbolo dell’urbanitas milanese, la Torre Velasca rappresenta la voglia di rialzarsi di una città devastata dalla guerra che guarda al futuro con un forte rimando al passato. Realizzata completamente in cemento armato con finiture in graniglia di cotto e di marmi rosa veronesi - che conferiscono all’edificio una tonalità calda - ospita negozi, uffici e appartamenti; la sua morfologia caratteristica è un omaggio alla città verticale che si stava sviluppando negli anni ’50 con un riferimento allo skyline storico della città, costellato di torri e campanili, ed in particolare alla torre del cortile delle Armi del Castello Sforzesco
Nel quartiere berlinese di Hansaviertel, l’edificio del duo olandese si staglia nel paesaggio urbano come un monolite asciutto e compatto di 16 piani in cui si distribuiscono 73 appartamenti. Le superfici esterne, in pannelli di calcestruzzo a vista in cui si aprono finestre a ritmo regolare, sono debitrici dell’impronta figurativa di De Stijl nel riproporre i colori primari del rosso, blu e giallo, quasi nell’intento di addolcire il grigio involucro cementizio esterno.
Il museo sorge su Avenida Paulista nel cuore della città come un poderoso belvedere di 2.100 mq di esposizione sostenuto da mastodontici portali in cemento pigmentato di un rosso intenso: la semplicità quasi infantile dei volumi assemblati – il parallelepipedo vetrato, i telai strutturali, gli orizzontamenti di solaio e copertura – e i giochi cromatici richiamano un approccio espressivo ludico e primordiale proprio dell’art brut.
L’edificio si situa nelle dolci colline del sud della Francia tra cui si inserisce, nonostante il mastodontico volume, in modo rispettoso grazie alla scelta del progettista di sollevare la potente massa di due piani su pilotis che consentono la percezione senza soluzione di continuità del paesaggio circostante. Il materiale prescelto è il calcestruzzo, sia gettato in opera sia prefabbricato, che disegna rigorosamente la facciata in un ritmo serrato di alternanze tra nervature strutturali e vuoti.
Il complesso, progettato per tre aziende di media (una tipografia di giornali, una stazione radio e uno studio televisivo) è stato concepito come una megastruttura flessibile e ampliabile in funzione dell’evolversi delle esigenze degli occupanti. Il layout funzionale prevede la concentrazione delle funzioni di servizio (ascensori, servizi igienici, impianti) in 16 mastodontiche torri cilindriche in cemento armato di diametro di 5 m e la collocazione di uffici e attività ai diversi piani, secondo un sistema aggregativo che, sulla base delle teorizzazioni del gruppo Metabolista, avrebbe potuto riprodursi all’infinito alla scala urbana.
Il ciclopico edificio fatto di forme rettilinee alternate a sagome stondate e curve imponenti, rimasto incompiuto, è una delle costruzioni più controverse del downtown bostoniano. Le superfici esterne e interne sono caratterizzate da un uso diffuso di cemento bocciardato che conferisce al corpo monumentale un’aura di ruvidezza e gravità. Oggi soggetto a fenomeni di degrado urbano e criminalità, è stato paradossalmente la quinta di un set cinematografico (The Departed) nelle vesti di un imponente quartier generale della polizia.
Concepito come simbolo dell’architettura istituzionale e dell’anelito alla libertà di un paese resosi indipendente, il Parlamento si erge nel deserto come un massiccio monolite circondato da un lago artificiale, che agisce come sistema di raffrescamento e al contempo contribuisce ad esaltare l’aura di monumentalità e a-temporalità dell’edificio. Il complesso comprende otto sale allineate concentricamente intorno alla grande camera parlamentare ed è realizzato in calcestruzzo gettato in opera e marmo bianco intarsiato, in omaggio ai materiali e alle tradizioni costruttive locali.
Definito causticamente dall’erede al trono d’Inghilterra come un modo intelligente per costruire una centrale nucleare nel centro di Londra senza suscitare obiezioni, l’edificio è stato progettato come parte di un paesaggio urbano a cui si rapporta con un gioco di masse tra loro articolate che sgravano l’impatto visivo del monolitico volume, con un sistema di spazi aperti e relazioni visive con il contesto circostante. La composizione ruota attorno ad elementi spiccatamente verticali (le due torri del proscenio e dell’Open Theatre e le torri più piccole che ospitano la distribuzione verticale), raccordati da volumi orizzontali su cui si aprono terrazze con viste sulla città.
Robin Hood Gardens, manifesto della cultura progettuale degli Smithson e oggi demolito, era un intervento di edilizia sovvenzionata sviluppata su due ettari e consistente in due ciclopici edifici in cemento prefabbricato che ospitavano 210 alloggi per circa 700 abitanti. Nato per rispondere alla necessità funzionali di accoglienza delle fasce meno abbienti della popolazione, aveva l’obiettivo di favorire il rafforzamento del senso di comunità nell’ambito di una visione di abitare collettivo: così sono stati progettati lo spazio a centrale a verde con la collina artificiale generata dal terreno di riporto della costruzione, inteso come luogo focale di interazione, e i corridoi in quota ogni 3 piani delle strutture, affacciati sulla corte e concepiti come spazi di incontro e relazione.
Progettato e realizzato in occasione dell’Expo del ’67 a Montreal come un quartiere sperimentale, l’intervento esplora l’utilizzo di tecnologie di prefabbricazione per realizzare opere a basso costo, funzionali ma allo stesso tempo intriganti da un punto di vista della composizione spaziale. Il complesso, che ospita 158 appartamenti, è caratterizzato da un efficace gioco di assemblaggi che garantisce, grazie alla tecnologia di montaggio modulare, condizioni diverse per tutti gli alloggi in termini di orientamento, affacci e layout interno, nonostante il volume identico di ogni appartamento.
Riproponendo la consolidata tipologia inglese della casa a schiera con affaccio su strada, l’intervento consiste in tre blocchi orientati da est a ovest e disposti con andamento curvilineo in parallelo lungo due strade pedonali. Nonostante le dimensioni ciclopiche dei fabbricati, un’attenzione specifica è stata rivolta alla qualità della dimensione abitativa, sia sul fronte pubblico sia su quello privato: da un lato la strada non è solo lo spazio d’accesso ma anche luogo di relazione attorno a cui si articola la vita della comunità e dall’altro ogni casa dispone di uno spazio privato aperto, sotto forma di giardino pensile o terrazza.
Situata in pieno deserto, Be’er Sheva è stato un esperimento di pianificazione urbana fortemente influenzato delle suggestioni urbanistiche e dal linguaggio brutalista di Le Corbusier. Nei numerosi edifici realizzati a partire dagli anni ’60 - a destinazione residenziale, amministrativa, per la formazione, la cultura e l’intrattenimento - si coglie il comune denominatore di un’architettura dalle forme plastiche e dai volumi massicci in cemento armato: tra questi la biblioteca universitaria, un edificio dalle forme imponenti e dai volumi sfaccettati che accentuano la monoliticità della composizione.
Con i poderosi pilastri di cemento e i volumi sospesi, l’edificio oscilla tra il vigore massivo del brutalismo e la tensione alla levitazione del futurismo assumendo le parvenze di un’astronave atterrata in California. La costruzione è articolata in otto piani, due interrati e sei fuori terra: nei piani fuori terra, un dinamico gioco di ampliamento delle superfici, ad aumentare dal basso verso il centro e a scalare dal centro alla sommità, genera un effetto suggestivo di aggetti e riflessi sulle superfici vetrate.
Situato sul sito delle rovine del castello di Königsberg (capitale della Prussia), la costruzione avviata nel 1970 prevedeva un edificio multifunzionale di 28 piani ma, date le condizioni del terreno paludoso, problematiche strutturali hanno imposto la realizzazione di soli 21 piani. Nel 1985 furono finanziate opere per il completamento al grezzo del fabbricato e nel 2005 realizzati lavori di restauro e finitura anche se l’interno è rimasto inutilizzato. Come diceva Ernest Nathan Rogers, “i cadaveri di architettura rimangono insepolti”.
L’edificio ad uso misto residenziale e commerciale è un’espressione del linguaggio metabolista, movimento culturale che ha rappresentato la rinascita culturale del Giappone del dopoguerra, ed è un esempio del concetto di applicazione seriale del modello di capsula abitativa. Il complesso è stato concepito come residence per soddisfare le essenziali esigenze abitative dell’homo movens, come definito dallo stesso Kurokawa, il lavoratore pendolare o residente in città per brevi periodi, e consiste in due torri in cemento armato di quote differenti a cui sono “appese” le 140 capsule abitative sovrapposte.
Con una contaminazione di linguaggi figurativi persiani e islamici inclini ad una iper- decorazione, l’ architettura brutalista sovietica dell’Asia Centrale si caratterizza per una deviazione all’ornato che si associa ad un’architettura di rappresentanza, monumentale e propagandistica in coerenza con il programma politico dominante. In questo quadro rientra l’Hotel Uzbekistan con il suo volume poderoso, leggermente inflesso al centro per alleggerirne l’impatto visivo e rivestito in facciata da una trama di elementi decorativi che ricordano i ricami di un tessuto.
Nato come un ambizioso progetto dell’Istituto Case Popolari alla fine degli anni ’70, il complesso rappresenta l’utopia del Falansterio ovvero di una città racchiusa dentro ad un edificio, come rapresentata anche dal Karl Marx Hof e dall’Unité d’Habitation. Il complesso è formato da tre edifici: il corpo principale lungo quasi un chilometro che si estende su nove piani, uno più basso parallelo al primo ed un terzo orientato di 45° rispetto ai primi due. Stigmatizzato come emblema del degrado delle periferie, evoca ancora oggi riflessioni diffuse sui temi della partecipazione e della comunità.
La ciclopica e curiosa struttura in cemento a vista a forma di cono rovesciato che sovrasta il paesaggio urbano del sobborgo di Midrand a Johannesburg è un impianto gestito da Johannesburg water che contiene quasi 2 milioni di galloni di acqua per la comunità circostante. Se nella parte superiore l’edificio ospita i serbatoi, nella parte inferiore è concepito per contenere spazi commerciali. Non una scultura urbana o esperimento di land art ma un’opera per la comunità visivamente riconoscibile e funzionalmente caratterizzata.