Milano Design Week

Salone del Mobile e Fuorisalone 2025


Il Salone del Mobile che immaginiamo tra attese, desideri e utopie

Una riflessione sul Salone del Mobile 2025 e su ciò che desidereremmo vedere: tra attese sospese, utopie possibili e uno sguardo critico sul ruolo del design oggi. È questa la Design Week che ci serve, oppure bisogna ripensarla?

C’è un sentimento che, più di ogni altro, definisce l’arrivo del Salone del Mobile: l’attesa. Quella trepidante eccitazione, quella febbre che sale nei giorni precedenti, quel desiderio che mescola curiosità e aspettative. L’attesa del Salone è un rito, un’illusione collettiva, una scommessa sul futuro del design che, a ogni edizione, si rinnova.

Ma un po’ come accade nella celebre pièce di Samuel Beckett Aspettando Godot – che non a caso qualche anno fa fu messa in scena da alcuni designer fra cui Italo Rota, Fabio Novembre e Sandro Mendini proprio durante i giorni del Salone – è come se il mondo del progetto si ritrovasse ogni anno, da qualche tempo a questa parte, ad aspettare qualcuno o qualcosa che forse è già arrivato senza che nessuno se ne sia accorto, o che forse non arriverà mai. L’attesa in ogni caso rimane lì, protagonista indiscussa nel suo essere tempo sospeso che ambisce a essere riempito di senso. 

Paolo Sorrentino partecipa al Salone del Mobile 2025 con La Dolce Attesa. Courtesy Fuorisalone

Anche Paolo Sorrentino, chiamato a interpretare il Salone 2025 con una sua installazione, un po’ come lo scorso anno aveva fatto David Lynch con la sua Thinking Room, fa dell’attesa la grande protagonista e con una scelta che potrebbe avere il sapore dell’ironia involontaria costruisce con l’aiuto di Margherita Palli una sala d’aspetto davanti a un ambulatorio di cardiologia.

Immagine perfetta, a pensarci bene: il Salone come un’attesa interminabile, fatta di sguardi ansiosi, di speranze incerte, di corse affannose, di gente che aspetta qualcosa che potrebbe non arrivare mai. Il cuore che batte, ma più per stress che per emozione.

Un design dove tutto è possibile ma dove tutto sembra inutile.

Andrea Branzi

David Lynch, Thinking Rooms, Salone del Mobile 2024, Fiera Milano, Rho. Foto Daniele Ratti

Io, forse, avrei preferito un altro Sorrentino. Una “Grande Bellezza 2” ambientata al Salone del Mobile.Una terrazza milanese – quella della Triennale, o magari la Torre Velasca o Terrazza Martini – da cui osservare l’umanità variopinta che popola il design system: creativi a tutti i costi, designer-star con occhiali più grandi delle loro idee, imprenditori che annuiscono con aria ispirata davanti a pezzi che non capiscono, giornalisti che fanno domande preconfezionate mentre sorseggiano l’ennesimo spritz, influencer che si fotografano con oggetti che non useranno mai. Tutti mossi da un’eccitazione febbrile, tutti affamati di novità, tutti contagiati da una bulimia presenzialistica che ondeggia tra il sublime e il ridicolo. 

La Torre Velasca rappresentata da Marco Petrus. Torre 2009, olio su tela, 250x 170 cm. Courtesy of Italian Factory. Da Domus 935, aprile 2010

Ma mentre Sorrentino filma, immagino che la città attorno si trasformi. E che nell’attesa prenda forma un altro possibile Salone: navette elettriche e silenziose che ti trasportano da un punto all’altro della città, fra Salone e Fuorisalone, senza dover consultare mappe che sembrano test di Rorschach, senza dover camminare chilometri tra quartieri connessi solo dall’entusiasmo iniziale e dalla disperazione finale; una maggiore razionalizzazione all’ormai dilagante overbooking di eventi (1600 quelli stimati quest’anno); un freno alla continua e sempre più frenetica corsa al “di più”. 

Vorrei bere un drink di buon augurio allo Stork Club senza dover sgomitare tra finti concept bar dalle liste d’attesa infinite, dove non c’è più nemmeno l’illusione di stare ad aspettare Godot.
Stefano Andreani, (In)tangible impact, Milano Design Week 2019. In Domus 1034, aprile 2019

Perché il design si deve trasformare sempre più in un luna park che ti lascia con il mal di testa invece che con una visione chiara del futuro? Una selezione più curata, una sinergia più intelligente tra Salone e Fuorisalone potrebbe evitare quella leggera sensazione di saturazione e di rigetto che, ogni anno, si insinua dopo la terza giornata.

Vorrei un padiglione interattivo che ospita un dibattito senza censure, né autocensure, in cui imprenditori, designer, architetti e filosofi discutono apertamente dei limiti e delle prospettive del settore, senza sudditanza alle logiche del mercato e senza supini adeguamenti al conformismo per cui tutto è tutto è bellissimo, e le cose più belle sono sempre quelle che non sei andato a vedere.

Sogno un parco di sedie che parlano tra loro e si ribellano ai designer che le rendono impossibili da usare. Sedie che abbiano il coraggio di dire: “Non voglio essere un’opera d’arte, voglio solo che qualcuno mi si sieda sopra senza dover andare in fisioterapia”.

L’intelligenza artificiale è ovunque, ma spesso si traduce in oggetti invadenti, inutili e fastidiosi. [...] E’ possibile sognare un’interazione più sottile, quasi impercettibile?
Milano Design Week 2024, fotoreportage per Domus. Foto Gabriele Micalizzi

Negli anni ’60 e ’70 il design era un laboratorio di utopie, di esperimenti radicali. Oggi tutto è troppo prevedibile, troppo studiato solo per essere venduto. Come diceva con il suo lucido scetticismo Andrea Branzi: “Un design dove tutto è possibile ma dove tutto sembra inutile”.

Dove sono finiti i sogni? Che il Godot che tutti aspettiamo invano sia il ritorno della capacità di sognare? Io sogno un Salone che sappia essere un’occasione per il design di riflettere su se stesso e sulla propria collocazione nell’incerto paesaggio della cultura contemporanea invece che una celebrazione autocompiaciuta e spesso autoreferenziale. 

Sogno un design che invece di proporre l’ennesima sedia con nome altisonante sappia risolvere problemi reali: mobili che rispondono ai bisogni delle persone, pensati per ambienti in continua evoluzione.

Un tavolo che capisce quando hai bisogno di più spazio e si allunga da solo? Una poltrona che adatta la sua ergonomia in base al tuo umore? Un tappeto che cambia colore in base alla temperatura della stanza? Un sistema che abbia il coraggio di riconoscere che certa plastica “eco-friendly” è meno riciclabile di un chewing gum sull’asfalto, e che il vero futuro è nei materiali che si rigenerano, che invecchiano bene, che magari scompaiono quando non servono più?

Milano Design Week 2024, fotoreportage per Domus. Foto Gabriele Micalizzi

Tra Salone e Fuorisalone, l’intelligenza artificiale è ovunque, ma spesso si traduce in oggetti invadenti, inutili e fastidiosi. Chi vuole davvero una sedia che ti parla o un frigo che ti giudica perché hai comprato troppi dolci? E’ possibile sognare un’interazione più sottile, quasi impercettibile? Un comodino che spegne la luce quando capisce che ti stai addormentando. Una cucina che suggerisce ricette in base agli ingredienti che hai, senza trattarti come un incompetente o un idiota. Tecnologia sì, ma con tatto. E senza stress.  

Gianfranco Frattini Sudio, Stork Club Restaurant, Milano, 1959. Da Domus 378, maggio 1961

Ma soprattutto io vorrei sentire Reyner Banham risorgere per una lezione magistrale sul futuro sostenibile, lui che già negli anni ’70 aveva capito tutto, lui che smonterebbe in tre minuti il greenwashing di troppi brand, riazzerando con parole affilate quelli che si ammantano di sostenibilità per vendere plastica verniciata di verde.

E, infine, vorrei bere un drink di buon augurio allo Stork Club, quel capolavoro disegnato da Gianfranco Frattini a fine anni 50, tra luci soffuse e un’eleganza senza tempo, senza dover sgomitare tra finti concept bar dalle liste d’attesa infinite, dove non c’è più nemmeno l’illusione di stare ad aspettare Godot. 

Immagine di apertura: Tortona Design Week. Courtesy Fuorisalone

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