Non è un caso se la struttura di un videogioco si chiama “architettura” e il suo creatore si chiama “designer”. Fin dall’inizio, fin da Pong e Asteroids, costruire un videogioco equivale a far interagire forme negli spazi digitali. Non c’è voluto molto perché lo stesso processo creativo diventasse un gioco in sé, cioè prima che qualcuno capisse che quell’attività lì, creare in uno spazio digitale costretti da regole e obiettivi, fosse divertente se semplificato e reso visivo.
11 celebri videogiochi che in realtà parlano di architettura
Fin dall’inizio, creare un videogioco ha significato anche progettare uno spazio. Dalle origini con Pong e Asteroids a oggi, ecco i capitoli fondamentali della convergenza tra architettura e gaming.
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- Gabriele Niola
- 10 dicembre 2020
Era la prima forma di contaminazione tra i principi dell’architettura e del videogioco, almeno prima che arrivassero i mondi tridimensionali a metà anni ‘90. Da quel momento lo spazio non era solo bidimensionale, ma poteva essere esplorato con minore o maggiore libertà. Creare una mappa equivaleva a creare uno spazio con cui interagire. Se Grand Theft Auto ne ha fatto cartoline da cinema sempre più giganti, altri hanno provato ad immaginare che nei mondi virtuali come in quelli reali forse gli ambienti e loro spazi potevano creare senso, raccontare storie, portare chi li abita altrove.
Abbiamo messo insieme 10 giochi che in modi molto diversi e con tecnologie diverse ragionano tutti sugli spazi e obbligano anche i giocatori a farlo, diffondendo le idee base dell’architettura e del design in modi più o meno didascalici.
Non c’è mai stato niente come Sim City e probabilmente non ci sarà più. Non sarà più possibile una simile rivoluzione del pensiero videoludico. In un’era di giochi d’avventura e puzzle game Will Wright inventava il gestionale per antonomasia, forse il singolo gioco più influente di sempre. Da Sim City hanno attinto tutti, anche i designer di titoli d’azione. Il sistema con il quale consentiva la costruzione di una città e le dinamiche ludiche che trovava nell’urbanistica hanno fatto scuola. A Sim City, come in tutte le simulazioni, non si vinceva essendo un bravo architetto ma seguendo le regole del gioco, tuttavia in tutte le successive iterazioni (e poi nel cardinale life simulator The Sims) Wright ha realizzato il primo spazio libero di creazione e design videoludico. Per la prima volta si poteva, anche, creare in libertà dentro una rigida struttura.
Con crescente impegno ad ogni titolo dal primo al terzo (Bioshock Infinite) il designer Ken Levine ha creato un’avventura di ambienti. Nel 2007 i giochi d’esplorazione tridimensionale esistevano da più di dieci anni ma Bioshock era il primo a creare le sue mappe immaginando che fosse l’architettura dei posti a raccontare una storia. I consueti misteri che guidano il protagonista sono svelati e suggeriti dal design dei palazzi e anche l’inquietudine erano una questione di design. A differenza di Resident Evil, che lavorava molto di gameplay e illuminazione, Bioshock è sempre stato una questione di architetture. E in Bioshock Infinite questo arriva alla massima punta, la stessa città in cui tutto è ambientato è un’utopia americana che racconta lo spirito del paese negli anni ‘20 con le sue contraddizioni quando si apprende la storia del leader della città dove tutto è ambientato esplorando un museo e guardando le grandi statue che lo tempestano. Nessuna parola, solo le immagini e gli spazi degli ambienti come quando appena arrivato in un mondo utopico e bellissimo ti viene chiesto di prendere a pallate degli afroamericani.
Ci sono due cose che interessano a Jonathan Blow: enigmi e ambienti. Se il suo primo gioco, Braid, fu una vera bomba narrativa fondata sulla parola e su un’idea di gioco con il tempo, il secondo The Witness è una costruzione pazzesca. È un’isola intera che ingaggia un rapporto con il giocatore. Teoricamente è piena di enigmi su dei pannelli elettronici da risolvere in sequenza, enigmi visivi da settimana enigmistica. Solo che ad un certo punto diventa chiaro che è possibile risolvere tutta l’isola, cioè interagire con rocce ed elementi della natura che è possibile vedere come gli enigmi che sono solo una volta abituati all’idea di enigma che ha Blow. Una volta alfabetizzato il giocatore da solo scopre che tutto nell’isola è un possibile enigma e accede ad un’altra consapevolezza dell’ambiente in cui si muove. E forse The Witness è l’unico gioco in cui il premio finale è l’apertura di una casa, di spazi nuovi, fino ad una paradossale ripresa dal vero domestica finale. Incontrare il creatore.
A prima vista è un gioco disegnato da Escher. Ad un livello più profondo è una meditazione sulla solitudine. Ma agli occhi di qualunque designer è la mente di un architetto che cerca di trovare un senso negli spazi moderni. Basato sul decostruzionismo, Monument Valley è una vera educazione agli spazi intricati. Tra influenze arabe, prospettive impossibili e scale continue che non è mai chiaro dove finiscano, Monument Valley non ha un colore fuori posto, un suono che non riveli la consistenza di un materiale ed un’ode alla solitudine di una principessa stilizzata in un mondo di architetture che ne affermano l’unicità e quindi l’incomunicabilità.
Se Sim City era il primo passo per un’idea di creazione in libertà all’interno di regole, Minecraft fa una geniale operazione di sottrazione. Invece che progredire nella definizione e nella grafica sceglie di regredire allo stadio dei Lego. Diminuendo le regole aumentano le possibilità in un mondo tridimensionale e primitivo ma in cui tutto è possibile. È la riduzione di tutto fino all’idea base del giocatore-Dio, in un mondo sociale, blandamente popolato, in cui creare e difendere. Il survival game dell’architettura che ha portato quei princìpi a tutto il mondo, vendendo, appassionando e creando una comunità di creatori che altrimenti non avrebbero mai nemmeno pensato di poter costruire qualcosa. Anche solo digitale.
Se Bioshock ha iniziato a ragionare sulla creazione di ambienti non solo per intrattenere o spaventare, ma anche per raccontare qualcosa o accrescere il senso della narrazione, Last Of Us II ha portato avanti quell’idea. Ci sono intere parti della narrazione di cui nessuno parla o quasi, e che noi giocatori capiamo tramite gli indizi nei palazzi, i murales, la disposizione dei carro armati in città e le icone sacre scolpite in legno. Il conflitto politico/religioso che ha infuriato a Seattle è un racconto vago ma gli indizi negli spazi da esplorare parlano chiaro. E poi c’è la sequenza del regalo di compleanno in cui esplorare un museo della scienza e poi uno di storia naturale pieno di predatori impagliati e scritte spaventose sui muri dice tutto quel che c’è da dire sull’uomo: la scienza e la bestialità, il progresso e l’omicidio.
In teoria il gioco si svolge in un altro universo che segue leggi della fisica diverse, nella pratica l’impressione è che sia un gioco ambientato dentro AutoCAD, in cui i puzzle hanno a che vedere con la creazione di spazi attraverso la manipolazione di forme geometriche. The Witness + Monument Valley con una gestione modernissima di toni, temperature del colore e pulizia delle forme, con una strana ossessione per la ripetizione ad infinito.
Era originariamente un gestionale dei soli sistemi di trasporto di una città, uno dei molti che erano nati intorno alla fine degli anni ‘00, poi un passo falso di Sim City ha indotto lo studio Colossal Order a tentare l’impresa e allargarsi alla progettazione di un’intera città. Il risultato è che Cities: Skyline è diventato una versione graficamente meno potente ma più maniacale di Sim City, un gioco con l’ambizione assurda di essere quasi didattico e insegnare ai giocatori non tanto come vincere nel videogame ma proprio come funzioni la pianificazione urbana.
Non stupisce che esista un gestionale di prigioni, ne esistono di tutti i tipi e sono solitamente sempre lo stesso gioco con vestiti e skin diverse. Prison Architect però ha un’altra idea dietro. Non solo è molto divertente ma va così in profondità nelle possibilità di gestione (fino all’assunzione delle guardie) da diventare un trattato politico. Come la creazione di spazi influisce sugli esseri umani, come giochi con le loro sensazioni e susciti sentimenti, reazioni e dinamiche originali e uniche. Non è solo questione di trattare i detenuti ma di regolare i loro rapporti umani (e con le guardie) attraverso l’architettura.
Creare una città, già lo consente Sim City. Gestirne l’efficienza, già lo consente Cities: Skyline. Allora Block’hood introduce un’altra variabile. L’idea è di ragionare un isolato alla volta, procedere di palazzo in palazzo, potendoli progettare singolarmente. La missione non è solo far funzionare tutto e creare quell’equilibrio di funzionalità, stile e vivibilità che fa una città, ma anche crearlo sostenibile. Block’hood chiede al giocatore di creare una città che possa esistere in armonia con la natura e che preveda accessibilità ai disabili e tutto quello che rende il giocatore consapevole che il mondo è di tutti ed è progettato per tutti.
Il gioco-architetto definitivo in cui tutto si fonde. Il principio per il quale costruire qualcosa come un videogioco è divertente qui è portato alle estreme conseguenze. I giocatori costruiscono schemi di Super Mario che poi possono giocare, di fatto sostituendosi ai designer e scoprendo molti dei princìpi che stanno dietro ai giochi che giocano. Come mai alcuni funzionano di più e altri funzionano di meno, come il divertimento stia tutto nella disposizione degli oggetti e qualche pixel in più di distanza possa fare tutta la differenza del mondo. È la rottura del mistero e la rivelazione che ogni forma di gioco è una forma di creazione.