Lina Ghotmeh è nata a Beirut, all’indomani della guerra civile libanese. Il suo lavoro si caratterizza per un approccio umanistico, unito alle suggestioni che provengono dalla sua geografia personale: dagli studi all’American University, nel cuore di Beirut – con le sue piante mediterranee rigogliose che intrappolano le rovine del vecchio campus – al paesaggio urbano dinamico di Londra.
In questa intervista parliamo di Stone Garden, primo progetto che sta realizzando nella sua città natale: una torre residenziale dove la storia della città e i suoi ricordi si fondono in una “scultura abitata”.
L’edificio è l’occasione per discutere della metodologia che chiama “Archeologia del futuro”, e che conferisce ai suoi edifici una chiara impronta espressiva, unita a una tensione umanistica che determina un’attenzione non retorica verso la sostenibilità.
Lina Ghotmeh, l’intervista: “Non sarebbe assurdo costruire un grattacielo di vetro a Beirut?”
L’architetta franco-libanese racconta Stone Garden, il primo progetto nella sua città natale, oggi quasi ultimato. Le abbiamo chiesto come la sua geografia ha plasmato la sua metodologia, che chiama “Archeologia del futuro”.
View Article details
- Giulia Ricci
- 11 novembre 2019
- Beirut, Libano
- Lina Ghotmeh Architecture
- Torre residenziale
Cittadina libanese e francese, Ghotmeh ha lasciato il Libano nel 2003 per collaborare con Ateliers Jean Nouvel a Parigi con Norman Foster a Londra. La combinazione tra l’educazione anglosassone e quella franco-europea l’hanno sostenuta quando ha lavorato sul progetto per Walbrook Square di Foster e Nouvel, edificio per uffici e commercio retail a Londra, poi bloccato nel 2009. Quando ha vinto il concorso internazionale per l’Estonian National Museum nel 2006, ha fondato lo studio di architettura DGT Architects, assieme a Dan Dorell e Tsuyoshi Tane.
Una nuova fase del suo percorso è iniziata nel 2016, quando l’“archeologa -architetta” ha fondato lo studio che porta il suo nome, a Parigi: LGA ha recentemente vinto il concorso per la riabilitazione urbana di Maine-Montparnasse a Parigi, assieme a Rogers Stirk Harbour + Partners e Michel Desvignes. Al di là della professione, Ghotmeh è un’educatrice: ha insegnato all’Ecole Spéciale d’Architecture di Parigi e ha tenuto un workshop al Domaine de BoisBuchet.
All’inizio volevi diventare archeologa, come ti è capitato di diventare architetto?
Crescendo a Beirut, ho cercato di costruire la mia identità attraverso la sua archeologia. Questo implicava uno stretto contatto con la storia, la scoperta, l’identità, la narrazione e la terra, cioè con cosa e chi siamo. È emozionante capire noi stessi attraverso ciò che è nascosto sotto terra e che finiamo per ritrovare: questo suscita un senso di appartenenza soprattutto per chi vive in un contesto in cui i conflitti e la ricerca d’identità sono stati la ragione principale delle divisioni fra le persone.
L’ambizione di diventare archeologa era per me un modo per avvicinarmi alle narrazioni che invece legano le persone, comprendendo il nostro essere umani e il rapporto con l’ambiente. Mancava ancora però una dimensione attiva che ho finito per ritrovare nell’architettura: l’atto di costruire fisicamente nuove narrazioni spaziali, nuovi ambienti. Ho sentito il bisogno di assemblare, costruire e comprendere me stessa attraverso il progetto; disegnare un rifugio, un tetto per le persone, che trovo sia un bisogno intrinsecamente umano. Questa necessità può essere realizzata in tanti modi, ma per me deve essere fatta in modo che le persone si identifichino semanticamente, sublimando il concetto nel processo costruttivo e in simbiosi espressiva con l’ambiente naturale. L’architettura deve mettere al riparo i ricordi, l’incanto e nuovi desideri.
Ho sentito il bisogno di assemblare, costruire e comprendere me stessa attraverso il progetto; disegnare un rifugio, un tetto per le persone, è un bisogno intrinsecamente umano
Come descriveresti la tua metodologia progettuale, quella che chiami “Archeologia del futuro”?
L’architettura è divisa tra il processo della sua realizzazione e ciò che la sua fisicità dovrebbe rappresentare. Per me l’architettura è scavare nel passato proiettando verso il futuro. L’“Archeologia del futuro” è una metodologia orientata alla ricerca che nasce dal mio vissuto, dall’essere cresciuta in una città all’indomani della guerra. Sicuramente è legata alla Beirut dei primi anni ’90: un’archeologia che aveva esposte le sue viscere, in attesa di essere ricostruita, mostrando tutta la sua storia sepolta. In questa città, bisogna scavare in profondità prima di costruire.
Ogni atto di costruzione rivela inevitabilmente il passato e l’architettura è strettamente legata al suolo e a ciò che vi è sotto. Sono cresciuta con questo desiderio di scoprire, rivelare e riconciliare la città attraverso l’architettura. L’“Archeologia del futuro” è la ricerca di un’architettura profondamente ancorata al suolo, in profondo dialogo con la natura. Un’architettura umana che attinge dal passato, da forme ancestrali che sollecitano ricordi, proiettandoli nel futuro. In questo modo l’architettura diventa una scoperta, si rivela e non si impone al suo contesto. Il risultato di questo processo è una ‘inedito’, una forma ‘originale’ che emerge dal futuro con un senso di ‘déjà-là’.
Quale ruolo hanno avuto i luoghi in cui hai vissuto nella formazione della tua metodologia?
Ho studiato architettura all’American University, un bellissimo campus nel cuore di Beirut, un’oasi di natura con un’architettura storica antica. Questo luogo ospita diverse facoltà, ho avuto la possibilità di seguire anche corsi di altre discipline che mi affascinavano. Questo luogo è stato per me un centro di ricerca creativa. Indubbiamente, i miei studi a Beirut, e la città stessa, hanno forgiato la mia struttura di pensiero. Qui ho preso coscienza dell’importanza dell’architettura, del suo impatto sull’ambiente; sempre qui ho scoperto che lo spazio per me è uno strumento in grado non solo di materializzare relazioni invisibili, ma anche di sfidarle stabilendone di nuove, e che l’architettura ha il potere di unire le persone.
Stone Garden sarà un ricordo perpetuo di ciò che Beirut ha vissuto, è un invito a non ripetere la storia, a coltivare la vita e la coesione
Sarà completato presto il tuo primo progetto a Beirut, la torre residenziale Stone Garden. Qual è la sua storia?
Ho incontrato il fotografo Fouad El Khoury, attraverso amici e abbiamo subito condiviso valori e passioni comuni. Successivamente mi ha chiesto di progettare un edificio su un terreno che lui e la sua famiglia avevano ereditato da suo padre, il noto architetto modernista Pierre el-Khoury. L’incarico era quello di progettare un edificio residenziale dove avrebbe potuto trovare sede anche una fondazione artistica. Per me è stata una ricerca speciale: il terreno ospitava l’ufficio del padre di Fouad e la prima fabbrica di cemento di Beirut. L’area si trova tra il porto e il centro città, una zona che è stata completamente ricostruita dopo la guerra. L’ambizione era quella di trasmettere tutte queste storie, poi ho inevitabilmente attinto anche alla mia percezione della città. Non volevo progettare un edificio, in realtà non mi piacciono gli edifici, edifices per se. Ho pensato a questo progetto come a una “scultura abitata”, guidata dalle leggi edilizie della città: una massa che si innalza verso il cielo, le cui finestre sono come aperture scavate, scalpellate dalla massa. L’architettura dovrebbe vivere in completa sinergia con la natura, e questa torre echeggia le facciate di Beirut danneggiate dai proiettili. Ho preso in prestito questa materialità, che ha segnato la mia memoria, e ho cercato di trasformarla in un volto nuovo per la città. Ogni apertura di Stone Garden ospita la vita, la natura, ogni finestra ha una vista unica.
Qual è il significato della facciata di Stone Garden nel paesaggio urbano di Beirut?
La facciata si ispira al paesaggio edilizio e naturale della città. Per me è una critica alla perdita della natura all’interno della città, echeggia le rovine di Beirut invase dalla natura, portando i giardini lungo tutta la sua altezza. Delle vasche profonde sono incorporate all’interno di ogni apertura, intagliata per accogliere il verde. La torre si erge organicamente e con “morbidezza” in questa città di cemento. Le aperture mettono a nudo il potenziale creativo che genera una città devastata dalla guerra, poiché i proiettili dei cecchini sono riprodotti come simboli di vita. Stone Garden sarà un ricordo perpetuo di ciò che Beirut ha vissuto, è un invito a non ripetere la storia, a coltivare la vita e la coesione. Dal punto di vista ambientale, le aperture di questo progetto fanno da cornice al mare e sono misurate rispetto al clima mediterraneo. Non sarebbe assurdo costruire un grattacielo di vetro in un contesto come quello di Beirut?
Ho voluto evitare qualsiasi processo industriale per la realizzazione della facciata: aveva senso lasciare le impronte degli operai che hanno realizzato questo progetto con le loro mani
Com’è stato concepito il rivestimento di Stone Garden, sia dal punto di vista tecnico che concettuale?
La spessa pelle dell’edificio è una miscela di terra e cemento, proiettata sulla struttura dell’edificio e lavorata con uno strumento metallico, uno scalpello. Volevo che esprimesse questo forte legame con la materia, con il sottosuolo. È un’archeologia verticale, un’“Archeologia del futuro”, un futuro che porteranno dalle persone che lo abiteranno.
È un terreno verticale lavorato. Le striature orizzontali esprimono l’accumularsi di tempo. Ho voluto evitare qualsiasi processo industriale per la realizzazione della facciata: aveva senso lasciare le impronte dei tanti operai che hanno realizzato questo progetto con le loro mani di artigiani. Ho concepito questa facciata attraverso la ricerca e la perseveranza della squadra locale: abbiamo lavorato sulla materialità di Stone Garden attraverso mock-up, test delle tecniche di realizzazione e di durevolezza, e poi lo abbiamo realizzato a grande scala.