Norman Foster: Ci siamo incontrati alcuni anni fa al Media Lab del Mit. Ricordo il lavoro straordinario che avevi già intrapreso. Potresti parlarci di quello che facevi allora e di come si è evoluta la tua ricerca?
Neri Oxman: Ho fatto parte del Media Lab dal 2010 al 2020. Da allora, io e il mio team abbiamo creato una nuova azienda che, per molti versi, è la continuazione di quel decennio di formazione. La sfida e l’opportunità di questo nuovo capitolo sono state tradurre nella pratica i principi, i metodi e le tecnologie della ricerca accademica, nonché generare nuove idee che possano essere adattate e applicate nel mondo reale. Sono sempre stata attratta da un approccio alla progettazione e alla costruzione architettonica incentrato sulla natura.
Norman Foster intervista Neri Oxman: come tradurre in spazio un modo di pensare
Il guest editor di Domus a tu per tu con la pioniera del biodesign sul nuovo laboratorio interdisciplinare che integra architettura, ingegneria e biologia.
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- Norman Foster
- 26 ottobre 2024
Nel Mediated Matter Group al Media Lab, per esempio, abbiamo creato una serie di protocolli – il Manuale per l’astronave natura – per ‘aumentare’ l’ambiente naturale attraverso gli strumenti e le tecnologie che abbiamo inventato, alcune ispirate e altre informate dal mondo naturale, altre ancora generate da esso. Ora stiamo spostando la nostra attenzione dalla diffusione della conoscenza e dei principi a quella dei prodotti e dell’impatto pratico. Ciò si declina in tre settori: design del prodotto, architettonico e urbano, molecolare. Si tratta di campi distinti che sono tutti sostenuti dal principio fondamentale della ricerca come base della pratica progettuale.
Quello che mi ha colpito quando ho visitato il vostro nuovo laboratorio era la sua straordinaria multivalenza. Ricordo di aver detto che il mix di ambienti avrebbe potuto essere lo scenario perfetto per un film di fantascienza. Parlaci di questi spazi e del tipo di funzioni o esplorazioni a cui si prestano.
È stato un piacere e un onore lavorare con te e il tuo team. Nell’ambito di un linguaggio di design minimalista, che riflette la filosofia più ampia dell’azienda, abbiamo trasformato uno scheletro strutturale degli anni Venti del secolo scorso in uno studio – ispirato al Bell Lab – che ora supporta una serie di funzioni altamente tecniche come le stanze di coltivazione e i laboratori di coltura dei tessuti. Al Mit presentavamo il nostro lavoro nel contesto di una struttura che chiamavamo Ciclo di Krebs della creatività, nome ispirato a quello biologico di Krebs, che è alla base di tutti i processi metabolici in natura.
Nel progetto del nostro nuovo laboratorio, abbiamo cercato di preservare la capacità di impollinazione incrociata tra diverse discipline, creando uno spazio vivo di interrelazioni tra ricercatori, robot e organismi, dove l'architettura sostiene la generazione di novità.
Neri Oxman
Questo ciclo è diventato una metafora per spiegare come – prima al Mit e ora a Oxman – ci muoviamo in un circolo che comprende arte, scienza, ingegneria e design, nel quale l’output di un settore diventa l’input di un altro: la scienza converte l’informazione in conoscenza, l’ingegneria prende questa conoscenza e la trasforma in utilità, che viene presa dal design e collocata in un contesto culturale e ambientale, poi l’arte considera questi cambiamenti di contesto e li reimmagina. In questo momento, quando l’arte incontra la scienza, le unità di percezione si uniscono a quelle di informazione, l’arte informa la scienza e il ciclo si chiude a mezzanotte: l’attimo di Cenerentola.
Nel progetto del nostro nuovo laboratorio, l’obiettivo è stato tradurre questo modo di pensare in forma costruita. La sfida è stata preservare la capacità di impollinazione incrociata tra domini, consentendo al contempo ai ricercatori di occupare questo spazio e di generare novità all’interno e all’esterno delle loro discipline attraverso il design. In effetti, al primo incontro con lo spazio, quel diagramma si può quasi abitare. È, come speravamo, un sistema vivo di interrelazioni tra ricercatori, robot e organismi. Al nono piano c’è un atelier di progettazione.
Lo spazio principale si apre al decimo piano, dove un laboratorio umido sul lato ovest si collega a una ‘cella’ robotica a est. Dall’altra parte del corridoio, a sud, c’è un’officina meccanica che si affaccia sul fiume Hudson. Entrando nello spazio, si accede a uno schema interdisciplinare in cui un singolo individuo, in qualsiasi momento, può occupare quasi contemporaneamente spazio architettonico, biologico-ingegneristico e robotico. Piuttosto che attraversare edifici distinti come officine meccaniche o laboratori umidi, è possibile fluttuare tra diversi ambienti.
Nel 2019, quando abbiamo iniziato a progettare il laboratorio umido, pensai che avremmo dovuto perseguire l’obiettivo audace di aprirci alla possibilità di coltivare più ceppi batterici contemporaneamente all’interno di un unico spazio: uno converte la luce in zucchero, l’altro converte lo zucchero in materia. Come forse sai, un laboratorio umido spesso ospita e si concentra su un singolo ceppo, come l’Escherichia coli o i cianobatteri.
Noi volevamo occuparci di un’ampia varietà di organismi e dei prodotti che avremmo poi progettato a partire da e con essi. A un certo punto, ricordo di aver collocato sulla planimetria il modello di una Ferrari 250 Gt Swb: abbiamo quindi cominciato a pensare allo spazio del laboratorio umido in modo flessibile. Da lì è iniziata la conversazione sull’adattamento e la mobilità degli elementi funzionali rispetto al rigore, alla nitidezza e alla natura monastica degli spazi. Siamo una delle poche organizzazioni nel centro di New York ad avere un laboratorio umido di livello di biosicurezza 2+ (Bl2+), che può essere aggiornato al livello 3 o 4.
L’edificio originale è stato progettato nel 1927 per un’azienda automobilistica: con i suoi soffitti alti e la pianta aperta, poteva essere adattato al nostro modo di pensare, un’opportunità rara ed entusiasmante dal punto di vista architettonico. L’edificio supporta 25 diversi tipi di servizi per i laboratori. Ha 109 km di cavi dati, 420 kw di potenza di riserva, 40.000 Cfm di trattamento dell’aria e 400.000 Btu di riscaldamento e raffreddamento. È una macchina, ma è anche molto curato. Le dimensioni degli arredi in rovere, per esempio, sono correlate a quelle dei tavoli da laboratorio: ogni unità dialoga con le altre per materiale e impiego. Tutto funziona insieme.
Mentre lo visitavo, mi sembrava di muovermi nelle viscere di un transatlantico o dentro l’involucro di un aereo. Quali progetti nascono in questa struttura?
Il nostro flusso di lavoro è guidato dai tre ambiti interconnessi – la scala architettonica-urbana, la scala del prodotto e quella molecolare – ognuno con un proprio spazio all’interno del laboratorio. Per esempio, la scala architettonica è legata all’atelier di progettazione, quella molecolare al laboratorio umido e quella del prodotto alla cellula robotica. Questa struttura tripartita si ricollega anche ai tre meccanismi di progettazione incentrati sulla natura: la coabitazione, cioè la scala architettonica-urbana; la coproduzione, cioè quella del prodotto; la comunicazione, ovvero la scala molecolare. In ognuna di queste scale e di queste ‘coabitazioni’ con la natura cerchiamo di reinventare sia i processi sia le tecnologie che vengono progettate, costruite e utilizzate proprio su quelle scale.
Abbiamo preso in considerazione l’industria tessile, che è del tutto insostenibile a causa dello sfruttamento del suolo e delle emissioni di carbonio, testando materiali alternativi in grado di biodegradarsi programmaticamente, o ‘su richiesta’, e di crescere da batteri.
Neri Oxman
Qualche esempio. Per quanto riguarda i prodotti, abbiamo preso in considerazione l’industria tessile, del tutto insostenibile a causa dello sfruttamento del suolo, delle emissioni di carbonio, dei rifiuti e delle microplastiche. Abbiamo quindi testato materiali alternativi in grado di biodegradarsi programmaticamente, o “su richiesta”, e di crescere da batteri. Abbiamo infine completato un sistema di fabbricazione e produzione biodigitale automatizzato e integrato verticalmente per consentire la progettazione del ciclo di vita end-to-end di tessuti e prodotti che utilizzano questi materiali. I tessuti ottenuti in questo modo non contengono microplastiche. Nascono e muoiono con i batteri e, quindi, ci spingono oltre il regno del riciclaggio per esprimere il concetto di reincarnazione all’interno del mondo del design del prodotto: una scarpa si biodegrada in un albero che dà frutti, un albero diventa una scarpa.
C’è poi la scala architettonica-urbana. In relazione a questa, stiamo sviluppando una serie di strumenti computazionali, basati sull’Ia, sull’ottimizzazione generativa e sull’apprendimento automatico, che ci permettono di riprogrammare un sito edificato come un’ecologia fiorente. Al momento, stiamo applicando la lente del deep learning ambientale per ripensare la progettazione di torri e centri dati, che consumano da dieci a 50 volte l’energia per superficie di un tipico edificio commerciale per uffici. Queste due tipologie sono tra le più energivore nelle città e generano notevoli tensioni tra la comunità, gli urbanisti e le grandi aziende che possiedono o affittano i terreni. Quindi ci chiediamo, per esempio, se il calore derivato da un centro dati può essere utile al sistema ecologico su cui è costruito e aumentare il tasso di sequestro del carbonio, oppure se esiste un mondo in cui la presenza di un centro dati o di una torre ci permette di sequestrare più carbonio di quanto faremmo in assenza di questa tipologia di edificio. Potrebbero volerci decenni per realizzarlo, ma siamo entusiasti di poter operare a tale scala, intersecando pianificazione territoriale, progettazione computazionale e ingegneria ecologica.
I nostri strumenti computazionali possono essere applicati anche alla scala molecolare, in modo da esaminare la metagenomica di un cantiere, la microecologia del suolo, l’indice di biodiversità e l’impronta di carbonio. Ricerchiamo anche la storia e la cultura del sito nel contesto delle comunità antiche e indigene, resistendo all’idea ristretta che un sito sia un’entità vuota, priva di quella storia ambientale e culturale che oggi – con l’aiuto di tecnologie che vanno dai droni all’analisi metagenomica del sito – può essere scoperta, quantificata ed esaminata ad alta risoluzione. Sappiamo, infatti, che uno spazio è sempre vitale in tema di informazioni, cioè della presenza o dell’assenza di molecole specifiche. Ciò significa che un progetto che inizia alla scala architettonica-urbana porta con sé anche un profilo molecolare.
Combiniamo questi elementi in un algoritmo o in un insieme di algoritmi che ci permette di analizzare il sito e, quindi, di sviluppare quello che chiamiamo un “programma ecologico”. Al suo cuore c’è l’idea che un edificio non può essere esclusivamente incentrato sull’uomo, che deve accogliere più specie in tutti i regni e le scale. Testiamo i nostri programmi ecologici al piano superiore del laboratorio umido, in una serie di stanze personalizzate ad ambiente controllato che chiamiamo capsule spazio-temporali, se preferisci. Qui possiamo coltivare micro-ecologie su scala locale, rispecchiando antiche ecologie e progettando quelle future, lavorando in miniatura verso un obiettivo macroscopico.
Stiamo sviluppando una serie di strumenti computazionali, basati sull’intelligenza artificiale e sull’ottimizzazione generativa, che ci permettono di riprogrammare un sito edificato come un’ecologia fiorente, affrontando così le sfide energetiche e ambientali delle città.
Neri Oxman
L’algoritmo determina quale pianta dovrebbe essere collocata accanto a quale altra per aumentare i servizi ecologici, per esempio, o incrementare il sequestro di carbonio, il tamponamento termico, il fitorisanamento, qualunque sia la funzione posta come obiettivo. Studiamo le relazioni tra questi organismi e la salute, la stabilità e l’attività dei loro ecosistemi, ripetendo la composizione e le condizioni del microambiente per ottenere il massimo impatto ambientale positivo. In una capsula stiamo coltivando piante che sono residui dell’ecologia forestale che esisteva a New York nel 1609, quando Henry Hudson mise piede sull’isola, e molto prima, quando era abitata dal popolo Lenape. Era un’ambiente fiorente e incredibilmente ricca di biodiversità. Quello che stiamo facendo è ridare vita a quell’ecologia, risvegliare alcuni di questi ambienti a New York e recuperare la biodiversità e la resilienza che essi conoscevano un tempo. In un certo senso, le capsule possono essere considerate “risolutori di biodiversità”. Ci permettono di impegnarci come progettisti con elementi dell’ambiente che richiedono una serie diversa di strumenti e sensibilità, oltre a una visione del mondo interdisciplinare.
Affascinante. Mi chiedo come funzioni a livello di squadra. Quando ci siamo conosciuti, ricordo te e i tuoi colleghi intorno a un pianoforte. Quando ho visitato il laboratorio, ti ho trovata a un immenso tavolo con tutti raggruppati intorno. Come lavorate come unità creativa?
Il pianoforte c’è ancora! È come quello che hai visto anni fa, ma più vecchio, costruito con cura nel 1929 dalla Steinway di Amburgo e ristrutturato da un artista-ingegnere che vive a Hell’s Kitchen, dall’altra parte della strada rispetto al nostro laboratorio. Ci riuniamo come comunità per ascoltare, imparare e far festa insieme attraverso la musica, la danza e il design. Questo tocca il cuore di ciò che stiamo cercando di realizzare qui. Non si tratta solo di un cambiamento a lungo termine e di una visione dei sistemi, ma anche di creare un gruppo e una cultura: pensa al Bauhaus nell’era della biologia sintetica. Per noi il laboratorio è una casa, un istituto di ricerca, uno studio, un centro di progettazione, uno spazio per il movimento e il gioco e uno spazio comunitario. La struttura dell’azienda e la struttura dello spazio sono strettamente allineate.
Anche la struttura del pensiero è in continua evoluzione attraverso lo spazio. Ho sempre ammirato le collaborazioni tra te e Buckminster Fuller, e quella famosa frase: “Quanto pesa il suo edificio, signor Foster?”. In un’epoca di biodesign, forse dovremmo chiedere: “Quanto affonda il suo edificio?”. È in atto un enorme cambiamento di paradigma in tutti i settori, ed è emozionante collocarsi all’intersezione di tutto questo. Lavorare insieme ci permette di affrontare queste domande con un alto grado di versatilità. Questa è una splendida nota. Mi piace la natura interattiva dell’ambiente, dell’organizzazione, dei progetti e il modo in cui l’uno alimenta l’altro. La collaborazione è fondamentale per affrontare questa interdipendenza, che nel mondo accelerato e interconnesso di oggi diventa sempre più importante.
Immagine di apertura: Il nuovo laboratorio di Neri Oxman. Foto Nicholas Calcott. Courtesy Oxman