La guida di Domus ai film e alle serie tv

Dal ruolo dell’architettura nel cinema di Wes Anderson o Miyazaki, all’atlante del design nelle serie tv, alle selezioni di film suggerite dagli architetti: una raccolta che celebra l’imprescindibile legame tra l’immagine in movimento e il mondo di Domus.

Una quindicina d’anni prima che Il Sorpasso gli desse fama globale, un giovane e ancora sconosciuto Dino Risi, che nel 1946 era appena trentenne, firma per Domus 215 una recensione del capolavoro disneyano Fantasia. Resta a testimonianza di un lungo flirt tra la rivista fondata da Gio Ponti e il mondo del cinema, delle sue mitologie e delle sue ambientazioni. Del resto, la settima arte ha l’architettura e il design tra i suoi compagni di viaggio essenziali fin dalla nascita, con un’eco lunga che arriva a oggi e trova spazio sulle nostre pagine digitali. Trovate qui raccolti alcuni dei tanti articoli e guide che sono stati recentemente dedicati al cinema e a quella versione molto contemporanea del cinema che sono le serie tv. Si spazia dall’opera di grandi registi come Wes Anderson e Hayao Miyazaki al world-building dei mondi fantastici ma credibilissimi di Avatar e Star Wars, fino all’atlante degli oggetti di design che vediamo nelle serie tv, un progetto tutt’ora in corso in cui i lettori sono invitati a mandare segnalazioni.

Cinque film cult da rivedere questa estate, scelti da Domus

Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988) Non c’è niente di vero nel film che ha reso noto Almodóvar. È tutto ricostruito in studio, il che significa che è tutto scelto e posizionato appositamente. L’appartamento di Carmen Maura è un gioiello di design almodovariano. Ancora di più: è l’atto di nascita del design almodovariano, quella fusione di colori accesi, superfici lucide, oggetti pop e spazi che sono lì tanto per raccontare la personalità dei personaggi (si veda come rappresenta la sua casa in Dolor y Gloria) quanto per citare il grande design delle commedie americane degli anni ‘60. 

Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988) Qui poi lo contamina con un senso del proprio tempo eccezionale, in un trionfo di superfici tonde anni ‘80. In molti hanno provato a fare cinema in linea con la pop art, Almodovar ha inserito la pop art nel suo cinema attraverso gli arredi così tanto che si può dire che le sue storie avvengono nel mondo della pop art. Addirittura anche il taxi che i personaggi prendono più volte nel film è arredato come una casa. Come noto Almodovar stesso ha dichiarato: “Se avessi il coraggio e i soldi avrei chiesto direttamente a David Hockney di arredarmi i set”.

Suspiria (1977) Il gotico in Italia non è tra gli stili architettonici dominanti. Quindi per le sue storie dell’orrore Dario Argento non poteva imitare gli inglesi e gli americani che fino a quel momento molto si appoggiavano ai racconti gotici e quindi agli scenari gotici. Allora va altrove e crea uno specifico italiano della paura con il liberty. I motivi floreali, i colori accesi, le vetrate e gli edifici pieni di aggetti non rimandano in sé alla paura, è Argento che li trasforma in qualcosa di pauroso, fonda da zero un immaginario di paura intorno ad uno stile. 

Suspiria (1977) Suspiria è la vetta massima di tutto questo, un film completamente folle considerato un’opera d’arte a sé, anche slegato da una trama pretestuosa (una ballerina va a studiare in una scuola di danza che è piena di streghe) e in realtà frutto delle briglie sciolte di Luciano Tovoli (direttore della fotografia) e dei deliri di Argento arrivato al massimo degli incassi e del potere. Forse l’unico vero film liberty mai girato.

Io sono l’amore (2009) Tutto il film che racconta della famiglia Recchi è ambientato a villa Necchi (l’assonanza non è casuale), un gioiello di edilizia razionalista voluta dall’alta borghesia colta industriale italiana degli anni ‘30 e progettata da Piero Portaluppi. Una dimora costruita senza limiti di spesa che contiene la seconda piscina mai scavata a Milano dopo quella comunale. La famiglia protagonista ha un elemento fuori posto, una donna (Tilda Swinton) che sembra non incastrarsi bene nel mosaico e comincia a sfaldarsi. 

Io sono l’amore (2009) Il fatto che questo avvenga in quegli ambienti, davanti a quelle scale in marmo, in quelle stanze, è una magnificenza e benché la storia si svolga in tempi moderni grazie al razionalismo sembra comunque raccontare una trama che parla di costrizioni, violenza e sopraffazione dal passato italiano.

Rosemary’s Baby (1968) Polanski riesce a creare la piantina dell’appartamento della coppia nella nostra testa, ci fa capire dove è ogni stanza, perché questo poi tornerà utile, e quando passiamo dall’arredamento di quella casa a quello dei vicini, beh allora è tutto chiaro.

Rosemary’s Baby (1968) È un piccolo trionfo di interior design sottile questo primo film americano di Roman Polanski, tutto o quasi ambientato nel Dakota Building di Manhattan, edificio così importante per la storia che il film si apre proprio con una veduta dall’esterno della struttura. Già da sé il suo stile neogotico annuncia quello che vedremo: una storia neogotica. Sembra un racconto di Poe questo di una coppia giovane in cui il marito, per una convenienza nel lavoro (è attore) forse ha fatto qualcosa alla moglie incinta, forse con la complicità dei vicini. 

Down with Love (2003) Un viaggio indietro nel tempo. Questa commedia con Renée Zellweger e Ewan McGregor si ispira apertamente ai film con Doris Day e Rock Hudson, storie leggerissime in contesti alto borghesi, schermaglie d’amore e battaglia tra i sessi nei più sofisticati dei contesti. E proprio perché si ispira a quei film è un trionfo di interior design americano anni ‘60, anche più dei film a cui guarda. 

Down with Love (2003) Concentrando in un film solo riferimenti, stimoli, stili e trovate di tanti film diversi, si crea un frullato di colori, forme tonde e perfetti abbinamenti di abiti e mobili come raramente quegli stessi film riuscivano a fare.

Arriva la sera, tira un po’ di brezza. Il caldo scende. È il momento di un film: ne abbiamo scelti 5, dagli anni Sessanta a oggi, tra cult e classici che spaziano dall’horror alla commedia, da rivedere o scoprire per la prima volta. Continua a leggere

L’architettura di Star Wars

Un tuffo nel design dell’universo di fantasia forse più ambizioso di sempre, indistricabilmente legato alla nostra realtà, con molte ispirazioni brutaliste, un po’ di spaghetti western e una figura chiave, quella di Ralph McQuarrie. Continua a leggere

Il mondo di Avatar, un’incredibile opera di design applicato alla natura

Nella costruzione di Pandora, il pianeta fantastico dei due film di James Cameron, nulla è lasciato al caso e tutto è disegnato in modo da risultare coerente: è il capolavoro di uno dei più visionari designer del cinema contemporaneo. Continua a leggere

Le architetture di Harry Potter

Le architetture di Harry Potter: Hogwarts Pochi luoghi figli della narrativa fantastica degli ultimi decenni sono iconici come il castello di Hogwarts e la sua caratteristica silhouette. Oltre a rappresentare nell’immaginario collettivo un luogo in cui chiunque è messo nelle condizioni di trovare il riscatto rispetto all’ordinario mondo babbano, la sua architettura (che pesca a piene mani dal gotico e, ancor di più, dal neogotico) rappresenta per molti la definizione di “castello impenetrabile”. 

Screenshot dalla riduzione cinematografica di Harry Potter, Warner Bros, 2001-11.

Hogwarts Prima di Harry Potter, la scena fantasy era dominata da Il Signore degli Anelli e dal suo modello “high fantasy”, con castelli medioevali dotati di bastioni, merli, feritoie, fossati e torri, nessuno avrebbe immaginato un tale sconvolgimento visivo. La saga di Harry Potter, attraverso i testi dell’autrice (prima) e i film della saga (poi) giocano invece elementi di fantasy urbano con fortissime influenze ottocentesche: da qui, la grande vicinanza al Neogotico.

Screenshot dalla riduzione cinematografica di Harry Potter, Warner Bros, 2001-11.

Hogwarts La struttura lapidea costituita da alte torri, soffitti voltati e archi a sesto acuto in molti casi conferisce allo spessore della materia architettonica un peso tutt’altro che massivo, anzi: a Hogwarts le strutture architettoniche basate sui “vuoti” creati dalla pietra sembrano essere leggere come il vento che sostiene il volo delle scope, senza nulla togliere alla sicura concretezza delle spesse mura dai mattoni dalle tinte calde. 

Screenshot dalla riduzione cinematografica di Harry Potter, Warner Bros, 2001-11.

Hogwarts Ogni pietra è ricca di storia e ogni individuo che passeggia all’interno dei corridoi è pronto a scrivere, tra le tante, anche la sua. Per questo, l’intero edificio trasuda memoria, rispetto e sogni realizzati. Se si volesse fare un parallelo con il mondo reale, l’atmosfera che si respira ricorda i più antichi college inglesi, oltre che gli scorci di Edimburgo. Ma, pescando a piene mani da uno stile che ha forgiato l’aspetto della Gran Bretagna (e non solo) per diversi secoli, si potrebbero fare moltissimi altri esempi.

Screenshot dalla riduzione cinematografica di Harry Potter, Warner Bros, 2001-11.

Lo stadio del Quidditch Parlando di leggerezza e di scope volanti… è doveroso fare almeno un accenno al Quidditch e allo stadio a esso dedicato, visibile da molti punti della scuola di stregoneria e magia. Simbolo nel simbolo, lo stadio di Hogwarts ha un posto particolare nei cuori di tutti gli appassionati della saga, un po’ perché lì Harry ottiene uno dei suoi primi successi, conquistando il boccino d’oro, un po’ perché la sua architettura è davvero irresistibile. Il Quidditch è uno sport tridimensionale nel vero e proprio senso del termine, frenetico e affascinante. Per questo, il campo da gioco è delineato da confini lungo le tre dimensioni dello spazio, e da pochi segni sul terreno e da oggetti estrusi dallo stesso. Pur non seguendo tutta l’altezza raggiungibile dalle scope, le tribune garantiscono una buona visuale nei confronti di ogni punto raggiungibile in volo, slanciate ancor di più dalle torri delle case poste alle loro spalle, che lambiscono il cielo proprio come le strutture più basse (ma comunque imponenti) della scuola.

Screenshot dalla riduzione cinematografica di Harry Potter, Warner Bros, 2001-11.

Lo stadio del Quidditch L’impatto in termini visivi è straordinario, perché il vuoto del campo da gioco è delimitato unicamente dai pieni degli spalti, delle torri e da pochissime righe bianche sul manto erboso. Mentre sfrecciano ad altissima velocità da un lato all’altro del campo, i componenti delle due squadre hanno l’obiettivo di segnare il maggior numero di punti possibile, facendo passare il pallone all’interno di uno dei tre cerchi posti alle spalle del portiere avversario. Oltre agli scontri di gioco, che in parte sembrano ricordare il Calcio Fiorentino, gli occhi degli spettatori schizzano ancor di più tra i (pochi) punti di riferimento in cerca di due giocatori speciali: i cercatori di entrambe le squadre, ovvero gli incaricati di raccogliere il boccino d’oro, gesto che in pratica porta la squadra ad aggiudicarsi la vittoria. 

Screenshot dalla riduzione cinematografica di Harry Potter, Warner Bros, 2001-11.

Lo stadio del Quidditch Se è vero che gli stadi per molto tempo hanno costituito il centro nevralgico della cultura di un popolo, quello del Quidditch non è da meno: racconta le vite degli studenti oltre la cultura accademica, mostrando come lo svago venga portato avanti a Hogwarts con impegno (se possibile) anche maggiore rispetto al resto.

Screenshot dalla riduzione cinematografica di Harry Potter, Warner Bros, 2001-11.

Diagon Alley Il mondo della magia concepito da J.K. Rowling non è costituito unicamente da Hogwarts. Sono molti gli ambienti caratteristici, e sicuramente un posto di rilievo è occupato da Diagon Alley, dove si trova il commerciante Olivander, uno dei primi incontri tra Harry e il mondo di maghi e streghe. Qui acquisterà la sua bacchetta. Stiamo parlando di un quartiere di Londra, accessibile segretamente unicamente a chi è in grado di passare dal mondo “babbano” a quello magico. 

Screenshot dalla riduzione cinematografica di Harry Potter, Warner Bros, 2001-11.

Diagon Alley Ciò che rende inconfondibile questo luogo, oltre alla coesione di luci, suoni e colori, è la caratteristica architettonica/urbana del set del film. Costruito nel Leadenhall Market di Londra, l’intero set (utilizzato successivamente anche per il film/musical Les Miserables) ricostruisce un ambiente che fonde il borgo medievale, costituito da edifici bassi e molto ravvicinati tra loro con dei piani aggettanti, all’ornamento tipico dell'art Deco, passando per i tipici “brick” scuri londinesi in contrasto con l’imponente struttura marmorea della Banca Gringott, sullo sfondo. 

Screenshot dalla riduzione cinematografica di Harry Potter, Warner Bros, 2001-11.

Banca Gringott Ed è proprio la banca più celebre (o celeberrima, a seconda dei punti di vista) a meritare una citazione a sé in questo approfondimento. L’imponente facciata di marmo chiaro e bronzo spicca fin dalla prima inquadratura della strada ne La Pietra Filosofale, dal punto di vista dei personaggi Harry e Hagrid, e lascia intendere fin da subito che si tratta di un luogo difficilmente accessibile e decisamente ben protetto. Più volte questo edificio viene citato o visitato nel corso della serie, ma la sequenza più memorabile è sicuramente il furto della Coppa di Tassorosso. 

Screenshot dalla riduzione cinematografica di Harry Potter, Warner Bros, 2001-11.

Banca Gringott Nel film I Doni della Morte Parte 2, il trio protagonista attraversa prima gli immensi saloni dove sono al lavoro gli impiegati della banca, e poi le suggestive caverne che conducono alle camere blindate. La luce che spiove dall’alto nell’imponente ingresso, lo fa percepire come una cattedrale gotica, e aggiunge un sentore di sacralità agli elegantissimi spazi interni. Nel corso della pellicola, però, è la folle corsa dei ragazzi sui binari sospesi a mezz’aria con Unci-Unci come ostaggio a rivelare la peculiare bellezza della parte meno esposta della banca: le stalattiti e le stalagmiti enormi costellanti l’immensa caverna permettono agli spettatori di rapportare in scala ai protagonisti la grandezza di tale spazio, lasciando tutti ancor di più con il fiato sospeso nel corso di tutta la sequenza.

Screenshot dalla riduzione cinematografica di Harry Potter, Warner Bros, 2001-11.

Ministero della Magia Per la sua imponenza architettonica, è doveroso citare il Ministero della Magia. Come nel caso della Gringott, anche questo edificio che ha a che fare con la componente “adulta" della saga ha un aspetto severo, meno colorato e gioviale rispetto al resto. Le pareti in legno scuro, i fuochi da cui emergono i maghi in entrata e scompaiono quelli in uscita e il simbolo d’oro del ministero sono gli unici colori visibilmente riconoscibili, mentre dalle finestre non c’è modo di percepire realmente l’ambiente esterno. Tutto l’ambiente conferisce un’idea di burocrazia imperante sulle vite umane. Ovviamente, anche nel corso della storia è palese che la permanenza dei malcapitati protagonisti tra quelle mura non sia mai piacevole, in linea con l’aspetto severo del luogo.

Screenshot dalla riduzione cinematografica di Harry Potter, Warner Bros, 2001-11.

Azkaban Harry non entra mai fisicamente nell’inespugnabile prigione, ma quest’ultima viene mostrata brevemente in tutta la sua tremenda imponenza. Di proprietà del Ministero della Magia e circondata dalle onde, la descrizione più celebre dell’edificio spiega che le onde e le alte mura siano, in realtà, delle contromisure inutili, dato che è la follia a impedire la fuga ai reclusi. Il suo alone di mistero contribuisce a rendere ancora più temibile questo luogo, e nel corso della saga non cesserà mai di essere percepito come inferno sulla terra. 

Screenshot dalla riduzione cinematografica di Harry Potter, Warner Bros, 2001-11.

Azkaban In una recente edizione dei sette volumi, Salani ha commissionato al Guest Editor 2018 di Domus Michele De Lucchi le nuove copertine, tra cui spicca sicuramente quella del terzo tomo, Il Prigioniero di Azkaban, dedicata proprio all’omonima prigione. La struttura di triangolo estruso con pareti lisce lascia il posto in quest’immagine a un’imponente ziqqurat squadrata, senza finestre e apparentemente senza alcun accesso. Eppure, nonostante queste pochissime apparizioni, ogni fan di Harry Potter sarà in grado di raccontare la sensazione di terrore e raccapriccio trasmessa da Azkaban.

J. K. Rowling, Harry potter e il prigioniero di Azkaban, Salani Editore, 2021

Le case dei protagonisti: Harry ed Hermione Le case dei protagonisti sono in grado di raccontare tanto di Harry, Hermione, Ron (e Luna). Non se ne vedono molte, ma il loro aspetto ha sempre qualcosa di importante. La storia si apre con Harry a casa dei suoi zii. La famiglia non manca occasione di definirsi “normalissima” e tale è anche la loro dimora. 

Screenshot dalla riduzione cinematografica di Harry Potter, Warner Bros, 2001-11.

Le case dei protagonisti: Harry ed Hermione Ma la stanza di Harry non lo è affatto: situata in un sottoscala senza finestre, minuscolo e scarsamente illuminato anche dalla luce artificiale, è un luogo decisamente angusto e inospitale. 

Screenshot dalla riduzione cinematografica di Harry Potter, Warner Bros, 2001-11.

Le case dei protagonisti: Harry ed Hermione Il ragazzo viene raccontato fin da subito nella sfortunata vita quotidiana all’inizio delle sue avventure e non è difficile comprendere che anch’essa abbia collaborato a formarne il carattere. In parallelo, l'abitazione babbana di Hermione non è nulla di particolarmente eccezionale, ma la sua eleganza tipicamente Hampstead è in linea con il suo carattere. 

Screenshot dalla riduzione cinematografica di Harry Potter, Warner Bros, 2001-11.

La casa di Ron Quella di Ron è una delle case più peculiari delle famiglie legate al mondo della magia. La sua struttura architettonica è stranissima: con l'ampliarsi della famiglia, sono state aggiunte stanze a una struttura già di per sé asimmetrica e, vista dall’esterno, quasi pericolante. Eppure, il calore famigliare è indiscutibile. La confusione testimoniata dallo stato in cui verte il giardino esterno rispecchia pienamente la personalità del giovane Weasley e dei suoi parenti. 

Screenshot dalla riduzione cinematografica di Harry Potter, Warner Bros, 2001-11.

Casa Lovegood La casa più assurda di tutte è quella dei Lovegood. Luna e suo padre Xenophilius abitano in un edificio dalla forma vagamente cilindrica, costellato di piante peculiari, sentieri storti e decorazioni esterne di ogni tipo. 

Screenshot dalla riduzione cinematografica di Harry Potter, Warner Bros, 2001-11.

Casa Lovegood Purtroppo, nel corso della saga cinematografica viene mostrata in una circostanza infelice, e parte della magia sembra essere andata perduta, ma resta un luogo incredibile fin nella sua essenza. Se almeno una volta vi sarà capitato di innamorarvi dell’unicità di Luna e del suo costante essere con la testa oltre le nuvole, è davvero impossibile non restare incantati davanti alla più “fatata” delle case magiche del mondo di Harry Potter. 

Screenshot dalla riduzione cinematografica di Harry Potter, Warner Bros, 2001-11.

Hogwarts nasce sulla carta, trova la sua consacrazione al cinema, risorge in teatro. Un recente videogioco la rende finalmente esplorabile. Ma sono tante le architetture della saga: ne raccontiamo quasi trent’anni di evoluzione. Continua a leggere

Barbie, il design del sogno Americano

Ogni tre secondi nel mondo viene venduta una Barbie. Basterebbe questo dato per comprendere la portata non soltanto economica, ma soprattutto culturale che la bambola americana esercita da oltre sessant’anni con le sue oltre 50 professioni e i centinaia di look che l'hanno elevata a icona atemporale. Continua a leggere

L’architettura in equilibrio tra uomo e natura di Hayao Miyazaki


Il mondo della narrazione animata giapponese è estremamente vasto. Al di là delle molteplici tematiche trattate, anche dal punto di vista visivo ogni prodotto tende a presentarsi in modo differente, e molti hanno un’identità forte che li rende memorabili. Oltre che al design dei personaggi e alle storie, questo discorso può essere applicato anche alla rappresentazione degli ambienti, delle architetture e dei paesaggi che fanno da sfondo (o, talvolta, da protagonisti) delle vicende raccontate nella tradizione pluridecennale degli anime. Continua a leggere

Il segreto di The Last Of Us è la maniacale ricostruzione delle architetture dell’ansia

The Last of Us Sky

2022

The Last of Us Sky

2022

The Last of Us Sky

2022

The Last of Us Sky

2022

TLOU è diventato un videogioco di culto grazie a una narrazione profonda in cui gli ambienti post-apocalittici giovano un ruolo chiave. Lo hanno anche nella serie tv, in cui sono stati riprodotti con incredibile accuratezza e fedeltà agli originali digitali. Continua a leggere

Il mito della casa di villeggiatura in Italia, visto attraverso i film e le serie tv

Villa Tasca, Palermo in The White Lotus 2 Foto courtesy Villa Tasca

Villa Tasca, Palermo in The White Lotus 2 Foto courtesy Villa Tasca

Villa Tasca, Palermo in The White Lotus 2 Foto courtesy Villa Tasca

Villa Tasca, Palermo in The White Lotus 2 Foto courtesy Villa Tasca

Villa Tasca, Palermo in The White Lotus 2 Foto courtesy Villa Tasca

Villa Tasca, Palermo in The White Lotus 2 Foto courtesy Villa Tasca

Villa Tasca, Palermo in The White Lotus 2 Foto courtesy Villa Tasca

Villa Tasca, Palermo in The White Lotus 2 Foto courtesy Villa Tasca

Villa Tasca, Palermo in The White Lotus 2 Foto courtesy Villa Tasca

Dall’indimenticabile Casa Malaparte dove Godard ambientò Il disprezzo ai recenti sconfinamenti in Italia delle serie americane Succession e White Lotus, una raccolta di abitazioni oramai parte del nostro paesaggio emozionale. Continua a leggere

Un film “dimenticato” del 1962 che può insegnarci molto sul modernismo

Sessant’anni fa, il film Smog di Franco Rossi apriva la Mostra del Cinema di Venezia con una visione del tutto scettica verso l’architettura moderna di L.A. Continua a leggere

Il ponte sullo Stretto e le altre architetture immaginarie di The Bad Guy

La serie Amazon non racconta una storia di mafia vera, ma una verosimile, e lo fa anche attraverso le architetture, come il ponte di cui si parla da decenni e uno strano parco acquatico, che esiste davvero, ma non in Sicilia. Continua a leggere

Il segreto dei film di Wes Anderson in 5 ambienti

I Tenenbaum, Wes Anderson, 2001. È stato I Tenenbaum il primo dei suoi film a lavorare in maniera così precisa su costumi e ambienti per raccontare una famiglia particolare. L’obiettivo era dire a tutti che questi protagonisti sono eccezionali e ognuno è stato un’eccellenza nel suo campo. Per far capire subito che non sono come gli altri, Anderson li inserisce in una casa o un set di case arredate maniacamente. È esattamente il modo in cui funzionano i cartoni animati, nei quali gli oggetti dei personaggi somigliano ai personaggi e sono una maniera per raccontarli.
Ci sono anticaglie eleganti, artefatti africani e colori smaccatamente anni ‘70. L’ambiente migliore di tutti è però la sala da ballo con carta da parati Scalamandre decorata con zebre rampanti.

Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Wes Anderson, 2004. È stato invece costruito in Italia, a Cinecittà, la sezione del Belafonte, il sottomarino di Le avventure acquatiche di Steve Zissou. Anche l’arredamento di un’imbarcazione diventa un tutto coerente, con una palette cromatica precisa e dettagli (ovviamente anni ‘70) come tappeti rossi o pannelli di legno. È un mix incredibile tra design industriale e un giocattolo in cui a tutti i personaggi è richiesto un abbigliamento preciso, tutti uguali. È un’esigenza del film che viene dichiarata nella trama quando Steve Zissou si assicura che al nuovo venuto sia fornito un costume Speedo come a tutti.

Moonrise Kingdom, Wes Anderson, 2012. L’unico dei film di Wes Anderson a fare questo lavoro per gli esterni è invece Moonrise Kingdom. La fuga di due bambini amanti verso una specie di Eden lontano assume contorni grotteschi e paradossali perché il mondo in cui si muovono sembra arredato come una casa o meglio come un paesaggio di bambole e pupazzi giocattoli. Di nuovo come in un cartone animato ogni personaggio di questo melodramma stranissimo è caratterizzato da una divisa, come fosse character design, come un personaggio di I Flinstones, ognuno è definito da ciò che indossa e non si cambia mai. La divisa è il personaggio.

Il treno per il Darjeeling, Wes Anderson, 2007. Il lavoro più godurioso però forse è quello fatto per Il treno per il Darjeeling, in cui gli anni ‘70 rievocati sono quelli indiani, in cui in particolare gli interni di impossibili treni sono disegnati come un’illustrazione, al tempo stesso verosimili e impossibili. Per realizzarlo è stato preso un vero treno indiano e riarredato con colori molto forti, ogni vagone con una dominante cromatica precisa e in diversi casi addirittura agghindato con ritratti delle icone dell’epoca.
Ed è interessantissimo vedere come Wes Anderson ha poi riciclato questa esperienza per il cortometraggio Come Together creato per H&M, tutto ambientato su un treno ma chiaramente con costumi H&M

Grand Budapest Hotel, Wes Anderson, 2014. Infine quando Wes Anderson ha approcciato Grand Budapest Hotel, il suo ultimo film con attori in carne ed ossa, ha azzardato una delle produzioni più ambiziose e rischiose della sua carriera. Il protagonista del film è un attore sconosciuto, Tony Revolori, ma tutto il resto del cast, tutti i comprimari e anche chi compare solo per pochissimi minuti, è formato da attori famosi. L’esatto contrario di quel che accade di solito. In più il film è ambientato in due tempi diversi con due stili di arredamento diversi ma in ogni caso magnifici, grandiosi e dalle dimensioni eccezionali. Le vedute dell’interno del Grand Budapest Hotel sono tra le composizioni più complesse mai messe a segno (e gli sono valse un Oscar alla scenografia), Art Nouveau dagli interni rossi ricreato in un ex magazzino tedesco. E dopo aver effettivamente realizzato un cartone animato (Fantastic Mr. Fox) ha imparato anche a muovere gli attori come personaggi animati, fargli fare capolino solo con la testa da una porta o farli schizzare velocemente come fossero in un episodio di Looney Tunes.

Ci sono registi che diventano aggettivi, dopo di loro cioè un certo modo di essere o di fare assume il loro nome o quello dei loro personaggi (fantozziano, felliniano…), Wes Anderson invece è il primo che è riuscito a modificare gli ambienti e l’arredamento che gli preesisteva. Così chiaro e così preciso è il suo stile visivo, così maniacale è la maniera in cui arreda ispirandosi a veri arredi d’epoca (solitamente anni ‘70 ma spesso sconfina nei ‘60 o negli ‘80), che adesso quei veri arredi sono diventati wesandersoniani. Continua a leggere

5 film suggeriti da 5 architetti

1. Nausicaä della Valle del Vento, Hayao Miyazaki, 1984 Ippolito Pestellini Laparelli per 2050+  “Quasi quarant’anni fa, questo film trattava in modo poetico e visionario temi attualissimi: la relazione con l’altro, la necessità di coesistere e stabilire alleanze con il non-umano, di promuovere forme di inclusività interspecie e intergenerazionali, di accettare, lavorare e teatralizzare la tossicità. Di fronte al collasso climatico che stiamo sperimentando, Nausicaä è quasi un manifesto, tanto quanto gli scritti di Donna Haraway da cui trae ispirazione”.   

1. Nausicaä della Valle del Vento, Hayao Miyazaki, 1984 Ippolito Pestellini Laparelli per 2050+ 

2. Cube, Vincenzo Natali, 1997 Dirk Somers per Bovenbouw Architectuur “Ciò che mi colpisce dell’architettura e del film è come il male sia situato in modo dominante nell’architettura moderna e altamente astratta. Che si tratti di Agente 007 - Licenza di uccidere, Intrigo internazionale, L’uomo nell’ombra o A letto con il nemico, lucida architettura ospita i cattivi che si sono disconnessi dalla società e dai suoi valori. Ancora più esplicitamente, nel film Cube il male è incarnato dalla griglia astratta in cui i personaggi sono intrappolati. La storiografia architettonica equipara ancora l’astrazione modernista ai valori del mondo libero e moderno del tardo illuminismo. Il cinema rappresenta l’architettura modernista come il suo opposto”.

2. Cube, Vincenzo Natali, 1997 Dirk Somers per Bovenbouw Architectuur

3. Paolo Soleri. Beyond Form, Aimee Madsen, 2013 Carmelo Rodríguez per ENORME Studio “Consigliamo il documentario su Paolo Soleri perché la figura dell’architetto italiano è fondamentale per l’architettura in particolare e per la vita in generale. Uno degli ultimi utopisti in anticipo sui tempi di oltre cinquant’anni, fondatore di una città e di un modo di vivere, quello di Arcosanti, che ancora oggi sono simbolo di ecologia e benessere”.

3. Paolo Soleri. Beyond Form, Aimee Madsen, 2013 Carmelo Rodríguez per ENORME Studio

4. La città delle donne, Federico Fellini, 1980 Jean-Benoît Vétillard “Più si esplora questo film, più ci si perde. Bisogna amare lo slittamento, le vertigini e il vagabondaggio. Bisogna accettare i deliri di Fellini per quello che sono: fantasticherie. In questo film l’architettura è gigantesca, la sua estetica è fatta di frammenti, il vagabondaggio è uno squisito cadavere attraverso spazi senza transizione. La strana proprietà del dottor Xavier Katzone – le cui mogli ne esigono la demolizione – è un ambiente dall’accento virile. Strette gallerie di ritratti di donne, alte pareti di marmo bianco evidenziate da neon verdi, un’enorme sala da pranzo o palestra, una camera da letto inondata di palme, una notte di tempesta, un lungo scivolo pieno di ricordi d’infanzia, un circo, una gabbia, una cantina, un’aula di tribunale, dietro un muro uno stretto corridoio, una scala... per uscire infine all’aria aperta e volare via in una mongolfiera, una enorme bambola gonfiabile”.

4. La città delle donne, Federico Fellini, 1980 Jean-Benoît Vétillard

5. Gattaca. La porta dell’universo, Andrew Niccol, 1998 Yena Young per Plastique Fantastique “Ho visto Gattaca in un cinema più di 20 anni fa, e ne sono ancora impressionato per la sua ambientazione. Il film parla di una società dispotica dove il Potere del Controllo ha travolto tutti i confini. Uno scenario futuristico è riprodotto utilizzando una squisita selezione di elementi degli anni ’60. L’uso brillante e unico della vivida luce verde artificiale trasforma il modo in cui percepiamo questo scenario retrò in un ambiente senza tempo. Il regista usa la saturazione della luce e la dislocazione architettonica per aumentare la nostra percezione e disturbare il nostro equilibrio”.

5. Gattaca. La porta dell’universo, Andrew Niccol, 1998 Yena Young per Plastique Fantastique

Abbiamo chiesto quali sono le opere cinematografiche che ne hanno più ispirato la pratica professionale. Qui i consigli di 2050+, Bovenbouw Architectuur, Enorme Studio, Jean-Benoît Vétillard e Plastique Fantastique. Continua a leggere

Quando il design italiano era una cosa da fantascienza

Elda (1963, 1965) Design di Joe Colombo per Comfort

Foto su gentile cocnessione di Fratelli Longhi

Rodica (1968) Design di Mario Brunu per Comfort

Foto via italian Vintage Sofas

Rodica (1968) Design di Mario Brunu per Comfort

Foto: frame da film

Mezzatessera (1966) Design di Vico Magistretti per Artemide

Foto su gentile concessione di Artemide

Mezzatessera (1966) Design di Vico Magistretti per Artemide

Foto: frame da film

Carrello-tavolino in ABS (1968) Design di Alberto Rosselli per Kartell

Foto su gentile cocnessione di Kartell

Carrello-tavolino in ABS (1968) Design di Alberto Rosselli per Kartell

Foto: frame da film

Stadio (1966) Design di Vico Magistretti per Artemide

Foto su gentile concessione di Artemide

Stadio (1966) Design di Vico Magistretti per Artemide

Foto: frame da film

Stadio (1966) Design di Vico Magistretti per Artemide. Nell'immagine è anche visible il separè Ergastolo di Walter Eichenberger, sempre per Artemide.

Foto: frame da film

Demetrio 45 (1965) Design di Vico Magistretti per Artemide

Foto su gentile cocnessione di Artemide

Demetrio 45 (1965) Design di Vico Magistretti per Artemide

Foto: frame da film

Selene (1968, 1970) Design di Vico Magistretti per Artemide

Foto su gentile cocnessione di Artemide

Selene (1968, 1970) Design di Vico Magistretti per Artemide

Foto: frame from film

Throw-Away (1965) Design di Willie Landels per Zanotta

Foto su gentile concessione di Zanotta

Throw-Away (1965) Design di Willie Landels per Zanotta

Foto: frame da film

Cosa ci fanno Joe Colombo e Vico Magistretti in Spazio: 1999? Negli anni Sessanta e Settanta, i set sci-fi, dalle serie più costose all’ultimo dei B-movie, erano arredati con icone del design italiano, che all’epoca sembravano provenire da una civiltà aliena o dal futuro. Continua a leggere

Un atlante degli oggetti di design nelle serie tv

Le serie tv trasformano il design in un elemento fondamentale della narrazione, rendendolo parte dell'immaginario globale. Un elenco in aggiornamento, con il contributo dei lettori di Domus. Continua a leggere

8 serie tv che ogni architetto o designer dovrebbe vedere

Snowpiercer Ideatore: Graeme Manson, USA, 2020, Netflix

Riprende i contenuti del film diretto da Bon Joon-ho, regista del pluripremiato Parasite che[1] , a sua volta ha rielaborato la graphic novel Le Transperceneige di Jacques Lob e Jean-Michel Charlier. Ambientata in un futuro distopico in cui il mondo è inabitabile a causa di una nuova era glaciale, la serie vede gli ultimi sopravvissuti dell’umanità costretti dentro un treno ad alta tecnologia, lo Snowpiercer. Nel treno vige il più feroce classismo. È un regno del terrore. Una continua tensione tra i giusti e coraggiosi che vogliono sovvertire la dittatura instaurata dal perfido signore e inventore del treno, il Signor Wilford.

Snowpiercer Ideatore: Graeme Manson, USA, 2020, Netflix

The Deuce Ideatori: David Simon e George Pelecanos, USA, 2019, HBO

Il quartiere newyorkese del Deuce è il set di una straordinaria successione di affreschi metropolitani tra droga e prostituzione. Scritta da quel genio di David Simon vede come protagonisti James Franco e Maggie Gyllenhaal con alcune chicche del rapper Method Man. La nascente industria del porno diventa per gli sbandati del quartiere una possibilità per sbarcare il lunario, economicamente e artisticamente ma lo spettro dell’Aids inizia a impossessarsi della vita notturna newyorkese. Il numero dei contagiati dall’HIV è in continuo aumento e la diffusione della cocaina genera frequenti ondate di violenza. Un alternarsi senza fine di emozioni tra outfit e location super cool con rimbalzi incredibili sull’oggi pandemico.

The Deuce Ideatori: David Simon e George Pelecanos, USA, 2019, HBO

Top Boy Ideatore: Ronan Bennett, UK, 2019, Netflix

Top boy è la messa in scena cupa e necessaria di un dramma potente su ”come le persone si comportano quando falliscono le istituzioni”, così descrive la serie l’Independent. Protagonista assoluta di questa serie è la criminalità londinese, figlia del disagio delle periferie e dell’esclusione sociale. A sceneggiarla è Ronan Bennett, ex militante dell’IRA e oggi autore di successo. Grazie a un superfan, il rapper Drake, Netflix ha riportato in vita questo dramma dei gruppi di spacciatori londinesi sotto la forma di un’accusa bruciante dei nostri tempi. Molte delle scene viste in Top Boy sono ispirate a fatti di cronaca che hanno la strada e i cortili di Summerhouse – un condominio-ghetto londinese – come scenari privilegiati e una colonna sonora a tutta trap. In maniera originale Top Boy si inserisce nel solco tracciato da altre serie tv di cui Gomorra è forse la più nota.

I may destroy you Ideatrice: Michaela Coel, UK ,2019, BBC ONE HBO

Un corpo violato quello di Michaela Coel, straordinaria autrice e interprete di una delle serie più toste degli ultimi anni. Tutto comincia a Ostia. Luogo scelto per le sue derive pasoliniane ma anche più di recente set privilegiato del film cult di Claudio Caligari, Non essere cattivo. Èqui che si avvia il racconto della protagonista Arabella Essiedu/Coel, scrittrice londinese di origini ghanesi che nel pieno di una crisi creativa va in vacanza sul litorale romano in cerca d’ispirazione. Al ritorno a Londra, durante i festeggiamenti per la consegna di un nuovo lavoro qualcosa va storto. Arabella si ritrova con ricordi dai contorni annebbiati, comincia così una drammatica e avvincente ricostruzione di una violenza traumatica. Michaela Coel vive questo processo come una catarsi personale e soprattutto come denuncia del pinkwashing.

I may destroy you Ideatrice Michaela Coel, UK ,2019, BBC ONE HBO

We are who we are Ideatori: Luca Guadagnino, Paolo Giordano, Francesca Manieri e Sean Conway, Italia/USA, 2020, HBO Sky Atlantic

Luca Guadagnino disegna un mondo sospeso, uno spaccato generazionale che si concentra nella base militare americana di Chioggia. La nomina del nuovo comandante sconvolge gli equilibri patriarcali che sostengono ogni dimensione militare. Il comandante Sarah Wilson/Chloë Sevigny è una donna con una moglie, Maggie/Alice Braga e con un figlio, Fraser/Jack Dylan Grazer. Proprio Fraser con le sue inquietudini adolescenziali diviene colui che ci guida in un’America in miniatura con tutte le sue sfumature e i suoi paradossi. Il dramma è il conflitto che ruota attorno allo scontro tra la superficiale calma dell’omologazione della vita militare e il vibrante senso di diversità che ribolle nelle singole soggettività. In questo girovagare, esplorare, con le cuffie fisse sulle orecchie e la musica (straordinaria) a tutto volume, Fraser incontra una ragazza della sua stessa età, Caitlin/Jordan Kristine Seamón. Una creatura senza genere definito, fluida alla ricerca della propria identità, così come Fraser. Questa ricerca di sé stessi si fa poesia e dramma, ma così è la vita.

We are who we are Ideatori: Luca Guadagnino, Paolo Giordano, Francesca Manieri e Sean Conway, Italia/USA, 2020, HBO Sky Atlantic

Ethos Ideatore: Berkun Oya, Turchia/USA, 2020, Netflix

Ethos indaga il concetto freudiano di perturbante, di unheimlich. La casa dove non ci si sente a casa propria. Istanbul, metropoli dalle mille contraddizioni è lo sfondo di una storia dove i ponti non leniscono le diseguaglianze fra la sponda europea e quella asiatica semi-rurale. L’unheimlich investe le donne velate anatoliche, le famiglie curde espiantate e la borghesia occidentalizzata. La protagonista è Meryem, una domestica religiosa, velata, afflitta da svenimenti di origine psicosomatica che avvia un tormentato rapporto terapeutico con un’analista laica, Peri. Nasce così una sequenza di vicende relazionali che rivelano complessità umane da una parte e dall’altra del Bosforo al di là delle differenze degli stili di vita.

P-Valley Ideatrice: Katori Hall, USA 2020, Starz / Prime Video

Creata dall’artista e attivista Katori Hall, P-Valley è ambientata nel paese immaginario Chucalissa, situato nel delta del Mississippi, zona depressa e soggetta a continue esondazioni. Lo strip club The Pynk è l’epicentro di una drammatica operazione di speculazione edilizia. La gentrification arriva anche nei paesi immaginari.  La vita delle spogliarelliste e dell* straordinari* protagonista Uncle Clifford/Nicco Annan viene sconvolta. Ecco che il club si trasforma in uno spazio politico dove al centro vi è il corpo delle donne e dello zio Clifford. Corpi liberati, glitterati, parruccati che a ritmo di un rap profondo e contaminato dal blues vengono inquadrati e raccontati con una prospettiva diversa, dal punto di vista delle donne stesse. Tutto è femminile, la scrittura, la regia, le straordinarie coreografie non si limitano a mostrare i personaggi semplicemente come corpi da volere o su cui lucrare, ma come universi con le loro sfumature e debolezze, con una storia da raccontare.

Euphoria Ideatore: Sam Levinson, USA, 2019, HBO

Una delle serie più acclamate e commentate da critica e pubblico per i contenuti e soprattutto per la presenza della superstar social e teen Zendaya. Si tratta di un affresco generazionale sospeso tra redenzione e caduta, in breve lo svelamento delle fragilità dell’essere giovani. Creata e diretta da Sam Levinson, figlio di Barry, regista tra gli altri di Good Morning, Vietnam e Rain Man, Euphoria sembra un viaggio lisergico tra amicizie ed esperienze che scottano con un’estetica fatta di colori fluo, forti contrasti, notti al neon, al glitter. Tutto è psichedelico, anche la musica sospesa tra accelerazioni tecno e sonorità vaporwave. Le due giovanissime danno vita a un susseguirsi doloroso e intenso di fallimenti e rinascite. Perdere e rifare tutto. Non è forse così che si scopre la propria verità e il mondo? 

Euphoria Ideatore: Sam Levinson, USA, 2019, HBO

Da Snowpiercer a Top Boy, una selezione di produzioni che non possono mancare nella playlist di un progettista. Continua a leggere

Cinema, 10 capolavori in cui architettura e design hanno un ruolo fondamentale

The Architect, Matt Tauber, 2006. È l’unica commedia nella lista, un film leggerissimo ma anche puntualissimo che mette in scena la relazione tra cliente e architetto in un caso estremo. Ad essere presi in giro sono sia i sogni di grandezza presto ridimensionati dei clienti che la boria dell’architetto che si percepisce come artista, assieme ai luoghi comuni sull’architettura modernissima. È un resoconto sia scemo che affidabile che sembra tratto dai peggiori resoconti di veri architetti e clienti.

La fonte meravigliosa, King Vidor, 1949. Al contrario del precedente questo di King Vidor (tratto da un romanzo di Ayn Rand) è un film precisissimo e molto ambizioso, in cui Gary Cooper è un architetto che cerca di imporre una visione di rottura in un mondo invece molto più convenzionale di lui. Oltre a questo il film riesce anche a raccontare la tensione che esiste tra costruzione e distruzione, il desiderio di vedere un disegno diventare realtà e poi il suo opposto.

La fonte meravigliosa, King Vidor, 1949.

Agente 007 - Missione Goldfinger, Guy Hamilton, 1964. In uno dei film più centrati della serie si può notare più che in altri come i film classici di James Bond (quelli con Sean Connery) facessero un uso molto particolare degli ambienti. Dovendo presentare ogni volta un villain diverso, utilizzavano i posti, gli interni ma anche gli esterni per descriverli. Non solo la sede della Spectre è un luogo dal design molto preciso e coerente, in cui il male è parte dell’architettura (come le sedie elettrificate) ma anche Goldfinger (il personaggio) è introdotto grazie all’interno della sua residenza che fu disegnata da Ken Adams. Tutto l’ambiente richiama la provenienza americana del personaggio ma si trasforma dopo poco in uno strumento di morte, è cioè prolungamento delle sue intenzioni. E quando deve illustrare il piano, farà emergere un plastico attorno al quale si radunano i suoi alleati, plastico in cui è nascosto James Bond che a quel punto è simbolicamente accerchiato dal nemico.

L’uomo nell’ombra, Roman Polański, 2010. C’è una sceneggiatura formidabile dietro questo film ed è una parte sostanziosa di quel che un buon thriller deve avere. A questa però Polanski aggiunge un lavoro pazzesco sulla location in cui si svolge gran parte della storia, una villa sulla spiaggia (letteralmente), tutta legno e tecnologia, realizzata con un design audace e piena di anfratti, vuoti e pieni in cui il protagonista si perde ma anche in cui scopre dettagli fondamentali. C’è un enigma nella sua testa che non riesce a risolvere mentre si muove in una casa che sembra fatta per essere essa stessa un enigma.

L’uomo nell’ombra, Roman Polański, 2010.

Dogville, Lars von Trier, 2003. La scenografia non c’è, è la scelta più estrema di tutte. Sembra essere puro teatro filmato Dogville ma non è così. Perché rinunciando alla scenografia e soprattutto alle pareti che delimitano gli ambienti, sono allora sequenze, zone e personaggi a creare spazi definiti. Lars Von Trier si apre così ad una dimensione di racconto molto più complicata, in cui tutto è in scena e non può sfruttare la gran parte degli elementi solitamente usati per aiutare la comprensione dello spettatore.
Less is more e in questo caso l’assenza di delimitazioni allo spazio diventa occasione non per negarlo ma per crearne di impossibili sfruttando la percezione dello spettatore.

Il conformista, Bernardo Bertolucci, 1970. Il fascismo è la sua architettura. Da questo parte il film di Bertolucci che racconta di un professore universitario di filosofia che segretamente è una spia del regime. Non c’è inquadratura che non lavori di fino su costumi e ambienti, che non utilizzi il design razionalista e l’ampiezza dei saloni o le lisce pareti bianche della sua architettura per incastrare il personaggio in un mondo che sembra un manifesto di propaganda, in cui l’abiezione delle sue azioni e della sua piccineria è perfettamente messa a contrasto con le aspirazioni di grandezza e solennità del regime a cui è soggetto.

Minority Report, Steven Spielberg, 2002. Da Blade Runner in poi la fantascienza è soprattutto le sue città. La maniera in cui viviamo nel futuro determina il nostro stato d’animo e più in grande il mood del film (si veda la strana unione del paesaggio di Shanghai e San Francisco fatta per Lei). Nessuno però ha lavorato come Minority Report per creare e immaginare a partire da piani, idee e suggestioni reali. La città futura ha un’anima fortissima, non è un esperimento di design ma uno di funzionalità che lancia un po’ più in avanti tantissime tendenze già attive quando il film era girato. Non possiamo dire di esserci arrivati e forse non ci arriveremo mai, ma le idee del presente sono ancora quelle.
E alla fine, quando tutto termina, siamo in un cottage nel bosco. Cambia il paesaggio, cambiano i materiali, cambia il design, cambia l’organizzazione degli interni e in questo modo il film ci dice che è cambiato tutto. Finalmente.

2001: Odissea nello spazio, Stanley Kubrick, 1968. Il trionfo del design al cinema. Non c’è dettaglio che non fosse stato curato da Kubrick, non c’è struttura che non fosse stata costruita apposta, soprattutto quelle spaziali che simulano una gravità diversa dalla nostra. Effetti speciali che si fondono con quello che nel 1968 era il design del futuro e un uso spregiudicato del bianco per creare un senso ovattato. In 2001: Odissea nello spazio il design, semplicemente, è tutto. Il contrasto creato dalla tecnologia e da come regoli la vita nello spazio è determinante per il grande viaggio finale oltre la fisica, quando elementi d’arredo d’epoche diverse convivono nella stanza assieme al monolito.
Ciò che era assieme a ciò che è e a ciò che è sempre stato.

Tron: Legacy, Joseph Kosinski, 2010. È stato un insuccesso e di certo lanciava il cuore oltre troppi ostacoli. Il sequel di Tron aveva sulle spalle il peso di rendere onore al mutato scenario tecnologico ed essere di nuovo capace di utilizzare la computer grafica e la tecnologia oltre i suoi limiti. Non l’ha fatto. Ma quel che ha fatto è stato portare nelle sale un’esperienza ai limiti della videoarte in cui il nero era il colore dominante assieme a linee fluo arancione, azzurre e rosse, in cui ogni elemento rispondeva ad un design molto preciso fatto di forme morbide e tondeggianti e infine la musica era un tappeto dei Daft Punk. Pura sinestesia in cui la trama diventa un orpello e tutto quel che c’era da sapere sul mondo creato da Joseph Kosinski stava nel delirio visivo delle forme.

I misteri del giardino di Compton House, Peter Greenaway, 1983. Il cinema di Peter Greenaway è l’esaltazione pura della forma e nessuno dei suoi film ha lavorato così tanto sulle geometrie esatte come questo. Un gigantesco studio sul punto di fuga e sui paesaggi architettonici in cui vedute di giardini e case nascondono dettagli e misteri, in cui vedere è un gioco e quasi una sfida e guardare un obbligo. Un uomo deve disegnare una serie di vedute di una villa, una maniera di fissare la realtà come fotografie. Quelle vedute sveleranno ciò che a occhio nudo non si vede. Il paesaggio, le sue forme e l’ordine dei giardini come delle case è tutto ciò che conta.

Film che parlano di architetti e architetture, ma anche pellicole in cui la progettazione ha un ruolo da protagonista assoluta. Da Bertolucci a Greenaway a Minority Report di Spielberg. Continua a leggere 

L’ufficio in 12 esempi celebri al cinema e serie tv

1. Ufficio di Eldon Tyrell – Tyrell corporation headquarters (Blade Runner) All’interno di una costruzione monolitica che ricorda un tempio incaico calato nelle periferie di Los Angeles, l’ufficio del dottor Eldon Tyrell - capo della corporation che produce replicanti dalle fatture e dal pensiero umani - è uno spazio solenne e grandioso inondato dalla luce dorata del tramonto che si diffonde sulle pareti e sui pavimenti lucidi, e costellato da statue di uccelli in ottone e busti in bronzo, piedistalli e obelischi in marmo. Un ambiente oscuro e dall’essenzialità quasi mortifera che ricorda un mausoleo, forse a sigillare l’ascesa della vita androide in sostituzione di quella umana.

2. Sala riunioni e Divisione Scienze Applicate della Wayne Enterprises (Il Cavaliere oscuro) Spazi tanto impeccabili quanto plumbei (del resto siamo a Gotham City) sono la sala riunioni e la Divisione Scienze Applicate della Wayne Enterprises, multinazionale di proprietà del magnate Bruce Wayne quando non veste i panni di Batman. La sala riunioni è un algido ambiente dalle superfici vetrate da cui sembra difficilmente filtrare la luce e dove serpeggia, dalla batteria serrata di sedie attorno al tavolo presidenziale e dalle fredde luci al neon, un disarmante senso di vuoto. La Divisione Scienze Applicate è uno spazio altrettanto tetro e quasi fuori scala in cui la dimensione umana sembra annichilire in un mondo spietato e ostile. Gli ambienti reali che hanno prestato la scena si trovano a Chicago: la sala riunioni è all’IBM Building al 330 North Wabash Avenue e la Divisione Scienze Applicate alla Convention Hall of the West Building al McCormick Place.

2. Sala riunioni e Divisione Scienze Applicate della Wayne Enterprises (Il Cavaliere oscuro)

3. Ufficio di Albus Dumbledore (Harry Potter) L’ufficio di Albus Dumbledore (noto anche come Albus Silente), Preside della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts e mago più potente di tutti i tempi nel mondo fantastico della saga, è un ambiente cavernoso e avvolgente che evoca l’immagine di una “cattedrale del sapere” all’insegna dell’horror vacui, tra migliaia di libri polverosi affastellati su scaffali in legno, una scrivania che sembra un altare e arcate in pietra a sesto acuto come nel migliore gotico fiorito. Gli oggetti magici e i quadri parlanti aggiungono un plus che nessun elemento di design potrebbe fornire.

immagine di Scott Smith (SRisonS) CC BY-NC-ND 2.0

4. Metropolis (Fritz Lang) Film cult della fantascienza, Metropolis ritrae uno scenario non certo così inverosimile, perché come diceva Ray Bradbury “la fantascienza finge di guardare dentro il futuro ma in realtà guarda il riflesso della verità che è davanti a noi”. In un futuro distopico, una metropoli dalle geometrie espressioniste è scenario di  esacerbate lotte di classe tra i pochi privilegiati che vivono in grattacieli lussuosi e la moltitudine di proletari “divorati” dalle macchine della disumanizzazione produttiva nel sottosuolo della città. I luoghi di lavoro sono fucine che sbuffano vapori, fumi e olii di scarico in cui l’identità individuale scompare negli ingranaggi dell’economia del profitto (di pochi). Sono passati un po’ meno di cent’anni dalla prima proiezione ma la prefigurazione del futuro di allora non è poi così diversa dalla realtà attuale.

5. Uffici della Sterling Cooper Advertising (Mad Men) Nonostante la misoginia dilagante nella serie e il fatto che lavorarci è l’inferno per una donna, gli uffici dell’agenzia pubblicitaria Sterling Cooper di Madison Avenue a New York sono un emblema di stile impeccabile. Dalle palette cromatiche, ai mobili modernisti, alle opere d’arte, alle luci a sfera, alle tappezzerie, gli ambienti ricalcano le atmosfere retro, eleganti ma accessibili, delle case di Joseph Eichler e del linguaggio architettonico del Mid-Century Modern.

6. Ufficio di M (007 No time to die) L’ufficio di “M”, nome in codice che Ian Fleming attribuisce al direttore del Secret Intelligence Service, sprigiona composta autorevolezza. La scrivania in massello è epicentro fisico e decisionale dell’ambiente interamente rivestito da boiserie e scaffalature in legno dalle tonalità profonde e calde. Poltrone in pelle, quadri, oggetti antichi e mobili vintage completano un ambiente dall’aura intellettuale e dal gusto retro in cui però forse non conviene rilassarsi troppo.

7. Ufficio di Mr Burns (The Simpsons) L’ufficio di Mr Burns, miliardario proprietario dell’impianto nucleare di Springfield e dispotico capo di Homer Simpson, è un luogo algido e respingente a scala sovrumana, tappezzato da velluti, ritratti e blasoni che enfatizzano una volontà di magniloquenza e prestigio. Un orso imbalsamato e messo in un angolo – per non rubare la scena all’unico vero protagonista dello spazio, il tavolo presidenziale – sembra urlare in silenzio il suo disappunto. Al di fuori di questo spazio dalle tinte cupe e dominate dai rossi, verdi e viola, si apre l’azzurro del cielo (solcato dai fumi tossici delle ciminiere, però).

8. Ufficio di Saul Goodman (Breaking Bad) Lo sgangherato penalista dalla dubbia morale Saul Goodman spicca per caratterizzazione tra i personaggi secondari della serie “Breaking Bad” e come protagonista assoluto dello spin-off “Better call Saul”. Il suo ufficio è un manifesto del trash: una Statua della Libertà gommosa e instabile, che oscilla a seconda delle correnti d’aria sul tetto di un fabbricato anonimo in un anonimo parcheggio, dà il benvenuto all’ufficio in chiave postmoderna dell’esilarante avvocato. Colonne, oculi, decori e capitelli ionici stilizzati in finto marmo conferiscono una presunta aura di aulicità all’ambiente. Scritte murarie tratte dalla costituzione esaltano le competenze del leguleio mentre un controsoffitto prefabbricato e una moquette blu elettrico da motel di terz’ordine denunciano il carattere “a buon mercato” del locale.

9. Sala riunioni dell’ Enterprise (Star Trek) Lavorare dentro l’astronave Enterprise sarebbe decisamente un’esperienza cool: colleghi (anche alieni) talentuosi, azione continua, viste mozzafiato sullo spazio “dove nessun uomo si è mai spinto prima”, ambienti confortevoli e accoglienti. La sala riunioni in particolare è un locale a metà strada tra il Mid-Century Modern – coerentemente con il periodo di uscita della serie originale negli anni ‘60 – e il futuristico, con tavolini rotondi con piano in legno, sedie a tulipano e la palette cromatica in tinte acide che conferiscono un’aura retro e un pò psichedelica alla stanza.

10. MIB Headquarters (Men in Black) Il quartier generale della società incaricata di gestire affari interstellari è uno luogo dove, tra vermi alieni che sorseggiano un cappuccino e personale affacendato in questioni di interesse planetario, si respira un fermento operativo pulsante e dinamico. Gli spazi che ospitano le attività sono visibilmente in linea con scenari aerospaziali, tra ambienti a tutto volume dove fluttuano le “cellule” sospese che ospitano gli uffici individuali e passerelle in quota. Materiali high tech (acciaio per strutture e finiture e vetro) dialogano con arredi morbidi ed organici dai toni chiari che accentuano la luminosità diffusa dei locali.

11. Ufficio megadirettore galattico (Fantozzi) Nella serie di film e racconti incentrati sulla figura del ragioniere Ugo Fantozzi si legge tutta la complessità tragicomica di un antieroe inerte di fronte al destino avverso. Inesorabilmente sopraffatto dagli eventi, Fantozzi si muove goffamente in un contesto lavorativo che esaspera la spaccatura tra i sottomessi (come lui), gli zelanti di successo e le “divinità” - come il direttore - che siedono ai vertici dell’azienda e che incarnano entità quasi ultraterrene alimentate dal servilismo dei subordinati. L’ufficio del megadirettore galattico, a cui Fantozzi accede strisciando e nella prospettiva di fare da pesce decorativo nell’”acquario umano” a parete, è un ambiente ascetico che ricorda le architetture di Dom Hans Van Der Laan. Caratterizzato da un vuoto e da un’assenza cromatica spiazzanti, i pochi elementi d’arredo come le panche, la scrivania in legno e le sedie in pelle umana (a memoria dei dipendenti dell’azienda sopraffatti dal meccanismo gerarchico) non contribuiscono a restituire neanche l’idea di uno spazio “quasi” umano.

12. Torretta baywatchers (Baywatch) Se andare in ufficio significa respirare l’aria dell’Oceano e farsi scaldare dal sole delle spiagge del Sud della California, vale bene la pena affrontare quotidiane storie di salvataggio e problematiche socio-esistenziali anche in una serie di non così alto profilo come Baywatch. Le torrette di avvistamento dei baywatchers, situate a seconda delle puntate in California, Florida o Hawaii, sono piccole cabine su palafitte in legno che hanno la leggerezza e l’informalità di una vita vissuta in costume da bagno, dove molto di più non serve per essere in pace con sè stessi e con il mondo.

I luoghi di lavoro visti al cinema e in televisione sono manifesti di una creatività visionaria, ironica, raffinata e quasi sempre implacabile strumento di condanna di costumi e società. Continua a leggere

8 grandi serie tv raccontate attraverso I loro interni

La casa di Bojack Horseman. Bojack Horseman (2014-2020) Bojack Horseman vive in una casa che non lo rispecchia davvero ma rispecchia semmai l’immagine che ha di se stesso. Classica villa losangelina da attore, arroccata sul pendio con affaccio ampio e piscina, è tutta arredata in stile moderno senza impegno o fantasia, un passo più in su (nel prezzo) di Ikea.. Ci sono foto sue, quadri grotteschi che lo rappresentano (quando non sono di finta pop art) e spazi molto ampi per feste. Ma non c’è niente che ci parli di lui. E questo ci parla di lui.
Tutta la serie mira a scavare dentro Bojack per vedere, sotto gli strati di cinismo, cattiveria, meschinità e alcol, cosa ci sia in quest’uomo terribile, frustrato e pieno di traumi, vessato dal culto di sé e dall’aver perso la fama. La casa rispecchia moltissimo il mistero Bojack.
Come detto non somiglia a lui ma all’immagine di successo che ha di sé. È scarna ed essenziale là dove lui è un maniaco dell’accumulo, ha addirittura una zona ufficio con scrivania che non gli serve assolutamente. È una perfetta casa d’apparenza, che non ha né l’accoglienza di una villa personale, né il gusto di una residenza arredata con passione. È solo un oggetto dal prezzo elevato.

La casa di Bojack Horseman. Bojack Horseman (2014-2020)

La casa di Bojack Horseman. Bojack Horseman (2014-2020)

Il salotto di Joyce. Stranger Things (2016-in corso) Poche cose sono più amare e tristi del salotto di Joyce in Stranger Things. Utilissimo nella prima stagione come stazione di comunicazione, ha tutta l’aria dimessa della sua proprietaria.
Sono gli anni ‘80 ma sembrano i primi anni ‘70, sembra la casa con cui viveva con sua madre, con le coperte sulle poltrone, una carta da parati omicida e quasi niente alle pareti.
Ovunque regna la moquette. Ha la disposizione classica del cinema di Spielberg, quella da casetta del centro sub-urbano, con il tavolino tondo in mezzo alla cucina e ambienti stretti riempiti d’oggetti per farli sembrare ancora più stretti. Oggetti ammassati senza un particolare stile, dalle lampade simil art-deco agli oggetti di elettronica di consumo esibiti come elementi d’arredo. I dettagli più fantasiosi sono quelli che non dovrebbero esserlo come i cuscini. Una mestizia infinita in una casa che è un mezzo di comunicazione con il Sottosopra.

Il salotto di Joyce. Stranger Things (2016-in corso)

Il salotto di Joyce. Stranger Things (2016-in corso)

La casa di House Hill. The haunting of Hill House (2018) Se non ci fossero stati decenni e decenni di cinema dell’orrore questo maniero in stile Tudor eserciterebbe un fascino incredibile. Invece fin dagli anni ‘50 questo stile architettonico è stato associato ai racconti del gotico e quindi al cinema di paura.
Chi la abita non è il proprietario ma una numerosa famiglia i cui genitori stanno ristrutturando tutta la grande villa.
In un certo senso però la casa parla benissimo della serie, racconta cosa ci troveremo e già fin dai primi episodi si fa portatrice di quel che accadrà. Le statue, gli intarsi, gli abbellimenti, le colonne, il legno e anche i pesantissimi corrimano della grande scalinata che sembra quella di Via col vento o i ballatoi massicci (l’unico dettaglio sottile e leggero sembra la scala a chiocciola in ferro battuto protagonista del finale) infondono un senso incombente di tradizione e legame con un mondo ancestrale.
Contrariamente agli appartamenti delle serie tv, la casa di Hill House non fa niente per essere mondana e di tutto per essere eccezionale, non fa niente per sembrare davvero vissuta da qualcuno ma anzi rigetta ogni intromissione, è arredata in maniera coerente al 100% come fosse un dipinto ed è ferma in un tempo che non è quello della storia. E chi ha visto la serie sa che questo dettaglio temporale è cruciale nel racconto.

La casa di House Hill. The haunting of Hill House (2018)

La casa di House Hill. The haunting of Hill House (2018)

La casa di Spadino. Suburra – la serie (2017-2020) L’arredamento della grande famiglia Anacleti è imbattibile e una delle invenzioni migliori di Suburra. Contrariamente ai soliti ambienti delle serie tv, questa villetta in periferia ha una personalità pazzesca che unisce opulenza e povertà in modi nuovi per la tv ma familiari per gli spettatori.
Abbondanza e soprattutto pesantezza, siamo oltre il barocco, nel territorio delle zanne d’oro come dettaglio della spalliera di un divano. L’oro è ovunque e sempre su un mobilio d’altri tempi che non sembra davvero d’altri tempi. È semplicemente tutto sbagliato ma si sposa benissimo con i costumi e gli usi della famiglia Anacleti.
Specchi, croci, intarsi, arazzi… Già è incredibile che l’ampia zona in cui si riceve, il grande salotto da cui si vedono la sala da pranzo e la cucina, sembri un piano sotterraneo. Il soffitto bassissimo aiuta a dare quest’impressione e la scarsa presenza di finestre unita all’abbondanza di colonne quasi lo confermano.
Alle pareti una collezione di quadri improbabili e coloratissimi, per terra tappeti a sfare. Spadino con i suoi abbigliamenti sgargianti poi sembra perfettamente integrato alla tappezzeria e in linea con le leggi di riverbero delle luci che imperano.
La mafia zingara è ricchissima e totalmente a disagio con questa ricchezza, piena di soldi che vengono dallo strozzinaggio ma non sa che farci, non sa nemmeno come spenderli, sa solo che può farlo e quindi lo fa. Vorrebbe vivere in un luogo che racconti la propria ascesa ma riesce solo ad accumulare materiali preziosi più che arredamenti preziosi.

La casa di Spadino. Suburra – la serie (2017-2020)

La casa di Spadino. Suburra – la serie (2017-2020)

Gli uffici di Don Draper. Mad Men (2007-2015) Una volta finite le sette stagioni di Mad Men tutti gli oggetti di scena (rigorosamente provenienti dagli anni ‘60) sono stati venduti su internet. E non a poco. Mad Men è stato un trionfo televisivo e di costume, non ha rievocato o riportato di moda gli anni ‘60, li ha celebrati da lontano.
Non c’è un solo ufficio di Don Draper, si passa da quello molto scarno ed essenziale (ma di gran gusto) delle primissime stagioni, al cambio d’agenzia e poi al salto di qualità con uno studio arredato in maniera più modaiola e con dei colori che lo avvicinano alle stanze degli altri. Don Draper era unico, ora è diventato come gli altri.
Se all’inizio tutto era all’insegna dell’essenziale, delle camicie pulite e stirate tenute nel cassetto della scrivania e del carrello degli alcolici, alla fine ci sono disegni dei figli alle pareti (assieme agli alcolici sia chiaro), un salottino molto più fornito, oggetti regalatigli e il marchio di una vita vissuta là dove, all’inzio, c’era solo un uomo che aveva rubato la vita ad un altro e non ne aveva una sua.
Applauso per la lampada da tavolo però.

Gli uffici di Don Draper. Mad Men (2007-2015)

Gli uffici di Don Draper. Mad Men (2007-2015)

La casa di Walter White. Breaking Bad (2008-2013) Walter White è uno dei più grandi personaggi in trasformazione della serialità. Viene progressivamente assalito dal crimine e dalla violenza ma la sua casa non cambia. La residenza White del resto sembra più che altro la casa della moglie, di suo non c’è niente ed è pensata in aperto contrasto con la personalità che sviluppa, è il simbolo più evidente di ciò che era prima di intraprendere l’attività criminale. Lungo la serie è infatti un ambiente sempre più stonato in un mondo di ambienti stonati, lo stesso nel quale il più grosso boss del crimine gestisce un fast food. In quella casa che gli va sempre più stretta ed è sempre più ridicola con le sue papere sul tavolo e le poltrone lise, con il suo bancone che dà sulla cucina e le tende plaid, Walter è un alieno. Le fonti di luce sembrano sempre scarse e non è mai davvero luminosa nonostante vivano in un luogo che scoppia di sole.
La casa verrà usata come cassaforte, come teatro di minacce e come facciata. Quello che per Gus è Los Pollos Hermanos, per lui è un villino a misura di mogliettina e vita umile.

La casa di Walter White. Breaking Bad (2008-2013)

La casa di Walter White. Breaking Bad (2008-2013)

L’ufficio di Claire Underwood. House of Cards – gli intrighi del potere (2013-2018) Non parliamo degli ambienti in cui lavorano Claire e Frank Underwood quando arrivano alla Casa Bianca né degli uffici di Frank quando è senatore, quelli sono arredati ricostruendo i veri arredamenti di quel tipo di strutture governative. Parliamo dell’ufficio della CWI (Clean Water Initiave) la società no-profit che gestisce Claire e i cui piani sono rovinati subito, all’inizio della prima stagione, dalla mancata nomina del marito Frank a segretario di stato.
L’ufficio di Claire è il trionfo del gelo. La scrivania sembra una di quelle che si trovano in una suite di lusso di un hotel a 4 stelle, con gli stessi elementi di arredo dozzinali ma di gusto, con una presenza ingombrante dell’acciaio e di tutti i toni più freddi. In armonia con la fotografia plumbea della serie, che bandisce qualsiasi colore acceso, anche l’arredamento della CWI è concepito per raccontare un personaggio che non ha nessun interesse per il superfluo. Un posto concepito da una burocrate di lusso, qualcuno con più interesse a conoscere le regole per sfruttarle a proprio vantaggio che a concepire qualcosa di gentile.
Probabilmente è l’arredamento meno divertente di sempre, anche le showroom Ikea per uffici riescono ad essere un minimo più spiritose.

L’ufficio di Claire Underwood. House of Cards – gli intrighi del potere (2013-2018)

La casa di Rachel e Monica. Friends (1994-2004) Nelle sit-com gli ambienti sono pochi e ripetitivi, inoltre vengono inquadrati quasi sempre da 2-3 angolature. In buona sostanza li conosciamo solo da pochi punti di vista. In Friends poi gli appartamenti sono fondamentali, più che nelle altre serie, perché sono il luogo che crea la serie: gli amici del titolo sono tali perché vivono vicini.
La casa di Monica e Rachel è un accrocco pieno di elementi eterogenei, ha una bellissima parete finestra che infatti la serie sfrutta per la gag ricorrente del vicino nudo ma poi ha divani scompagnati dalle poltrone, pareti viola e una porta verde, tavolini in uno stile e poltrone in un altro, piccoli lumi di decorazione… Tutto sembra impersonale e non ci parla direttamente di quelle due ragazze ma la densità con cui l’arredo è accumulato e la disposizione comunicano la confusione comica che serve. Lo spiega bene la cucina, che sembra stipata oltre il pensabile (per una serie in cui non si cucina quasi mai), un delirio di utensili, ingredienti e scaffalature senza sportelli.
Ma oltre a questo Friends ha nell’arredamento la sua anima più tradizionalista. Tutti i dettagli gridano mid-west statunitense eppure siamo a New York. L’America tradizionale è conservata nell’arredamento di uno show che puntava a raccontare i nuovi giovani.

La casa di Rachel e Monica. Friends (1994-2004)

Ancora più che nei film, le ambientazioni e soprattutto gli interni acquisiscono una importanza centrale nel racconto televisivo e seriale. Soprattutto qunando si tratta di pietre miliari come Mad Men, Breaking Bad o... BoJack Horseman. Continua a leggere