Abbiamo visitato con Oma la nuova Galleria dei Re, al Museo Egizio di Torino

Il primo spazio ridefinito da Oma con Ata, in concomitanza coi 200 anni del museo, è aperto: un percorso dal buio alla luce, dove le monumentali statue di Karnak si sono avvicinate alle persone.

Il primo tassello nella trasformazione del Museo Egizio a Torino – in pieno festeggiamento dei suoi 200 anni – curata da David Gianotten e Andreas Karavanas di Oma in collaborazione con Andrea Tabocchini Architecture – è finalmente entrato in funzione.

Sostituendo l’allestimento di taglio “black box” concepito nel 2006 da Dante Ferretti in occasione delle Olimpiadi invernali, la nuova Galleria dei Re ridispone le statue monumentali dell’antica Tebe secondo tutta un’altra idea di esperienza: evocare il contesto storico è il punto cruciale, assieme alla libertà per chi visita di organizzare la propria esperienza museale, e ad una continuità visuale degli spazi che vuole fare del nuovo Egizio uno spazio pubblico, un complesso di “stanze urbane” in comunicazione tra loro e soprattutto con la città.

Il progetto per la Galleria, infatti, pur arrivando per primo a vedere la luce, è il frutto di un secondo concorso vinto da Oma con Ata per il Museo, dopo il primo per lo spazio pubblico della Piazza Egizia, con differente programma e committenza, annunciata a inizio 2023 e attualmente in cantiere.

La nuova immersione comincia dal concept curatoriale dell’intero progetto: una transizione graduale dall’oscurità alla luce, “un simbolo di creazione associato nell’antico Egitto a re e divinità”, attraverso un ingresso buio verso due grandi aperture che incorniciano le vere sale, questa volta luminosissime: “Per noi, riportare la luce all’interno è stato fondamentale”, ci ha raccontato Gianotten.

Lo spazio, poi, conferma il concept: lo snodo tra ingresso e sale è segnato dalla colonna con capitello a fiore di loto, che introduce allo spirito evocativo della nuova Galleria. La prima sala evoca infatti l’esterno del tempio di Karnak, annunciato da una coppia di sfingi che si guardano, e sviluppato in una processione di statue della dea Sekhmet fino a culminare con la statua di Seti II. La sala successiva invece evoca l’interno del tempio, in una parata di re e divinità che al centro ha la celebre statua di Ramesse II e come conclusione le immagini degli dei Ptah e Amun.

Gli elementi con cui l’architettura ha dato materialità a questa esperienza sono, come ormai tradizione dei progettisti, pochi e semplicissimi. Le statue sono adesso più vicine al suolo – “scese dal piedistallo”, ha detto il direttore del Museo Christian Greco – come avevamo visto anche in alcuni allestimenti di Oma per Fondazione Prada; l’illuminazione passa dalla black box a una inondazione di luce naturale; il soffitto seicentesco viene “rivelato”, con la sua struttura voltata e le sue aperture; le pareti, poi, sono riflettenti, in modo da invitare ad un apprezzamento più concentrato dei dettagli, delle sequenze visuali, e della continuità degli spazi, dalla Galleria alla città.

Il linguaggio delle forme, poi, nasce da un discorso di programma e di processo, come da sempre accade con Oma.
La disposizione delle statue è il risultato di un confronto continuo con il gruppo curatoriale del museo, ad esempio, e qui i piedistalli – perché saranno pur bassi, ma ci sono – hanno un ruolo cruciale: sono in realtà sostegni in acciaio, con un dorso in vetro strutturale dove necessario, abbracciati alla base da elementi in graniglia – terrazzo, in inglese rimarrà sempre più eufonico – removibili per facilitare lo spostamento delle statue con un carrello elevatore.
Le pareti riflettenti in alluminio, poi, hanno una doppia missione: riunire persone e artefatti “in un’unica massa, un’unica esperienza”, e consentire il passaggio di una importante rete d’impianti, diventata necessaria dopo la riapertura delle finestre sulle sale, di cui va garantito l’equilibrio igrotermico.

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