Caro David, mi chiedi cosa dovremmo fare noi architetti riguardo alla catastrofe ambientale che indubbiamente è ormai prossima. Alle disuguaglianze sociali. Alla povertà. All’esaurimento delle risorse di questo pianeta. Riguardo alla pandemia, che ci ha posti in una condizione quasi surreale, difficile da descrivere. Quando tutto ciò è gestito da leader politici, il cui cinismo e le cui azioni insensate farebbero impallidire i fratelli Marx. Caro David, la risposta è: niente. Sai indicare un momento della storia dell’architettura in cui un architetto abbia contribuito alle questioni fondamentali della società? Gli architetti hanno sempre tenuto compagnia ai potenti del mondo. Hanno costruito palazzi, templi, stadi, intere città. La maggior parte, assecondando lo spirito dei tempi e raramente come espressione di progresso e cambiamento.
Jacques Herzog: lettera a David Chipperfield
Il guest editor 2020 riceve una lettera dall'illustre collega, che gli scrive in merito alla difficoltà, da parte degli architetti, di agire attivamente sulle catastrofi ambientali.
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- 13 ottobre 2020
L’architettura può davvero cambiare qualcosa? O anticipare qualcosa? Nel mondo dell’arte, per esempio? Nella mia esperienza, la Turbine Hall della Tate Modern di Londra ha rappresentato un’innovazione che ha richiamato non solo un pubblico diverso, ma anche un nuovo tipo di produzione e presentazione artistica, capace di trascendere il formato tradizionale di uno spazio espositivo. Gli artisti hanno ideato un universo completo e totalmente coinvolgente. Non erano più soltanto dei visionari: hanno saputo inventare interi universi. L’architettura aveva fornito loro la piattaforma e i parametri per farlo. Forse è stata una scelta audace, perché nessuno sapeva se avrebbe funzionato o se gli artisti avrebbero voluto utilizzare quello spazio. In un certo senso, era una risposta a ciò che il pubblico chiedeva in quel momento, almeno rispetto al mondo dell’arte: cos’ha in serbo il futuro? La Turbine Hall ha risposto a questa domanda e ha offerto il potenziale di un’esperienza museale spettacolare e senza precedenti. Ha rappresentato, però, anche la piattaforma ideale per l’emergere di un’evoluzione drammatica nell’arte: la sua radicale commercializzazione. La scena artistica londinese non aveva mai sperimentato nulla di così intensamente internazionale e contemporaneo. Sulla scia della Tate Modern, il mercato dell’arte ha conosciuto un boom senza precedenti che ha interessato anche il settore immobiliare, trasformando lo skyline di Londra, in soli due decenni, in uno tsunami di grattacieli collocati alla rinfusa, senza alcun concetto di urbanistica. I grattacieli si stanno affollando intorno alla Tate Modern come se cercassero di sbirciare negli spazi espositivi e prendere parte alla loro vita artistica, anche se la maggior parte dei proprietari non vive nemmeno lì e osserva da lontano – ammesso che lo faccia.
Insomma, noi architetti non possiamo impedire la commercializzazione dell’arte e ancor meno un boom immobiliare. Ciò ha a che fare con altre questioni: la politica monetaria internazionale e le strategie d’investimento. Quale architetto si asterrebbe dal costruire una graziosa piccola torre che accrescerebbe il proprio profilo, ma sosterrebbe anche attivamente la bolla immobiliare, generando chilometri quadrati di edifici residenziali e uffici disabitati? Noi architetti abbiamo bisogno di committenti. Più famoso è lo studio, più attirerà potenziali clienti e investitori, non solo privati ma anche Governi. Soprattutto quando si tratta d’importanti edifici pubblici, come gli stadi. Progetti di questo tipo sono spesso commissionati da Governi che non hanno gli stessi standard democratici che abbiamo in Europa, come la Cina. Eppure accettiamo ancora progetti l ì, perché spesso sono stimolanti e crediamo che, attraverso il modo in cui progettiamo, possiamo dare un contributo a una società libera. Nel caso del nostro Bird’s Nest, non eravamo semplicemente interessati alle Olimpiadi, ma anche e soprattutto alla vita quotidiana degli abitanti dopo la loro conclusione. Il reticolo piranesiano che circonda le tribune è stato concepito come una grande scultura pubblica, progettata per attirare in massa gli abitanti della capitale cinese: come un parco, un’area ricreativa dove le persone possono riunirsi e interagire; un modo di stare insieme che si ricollega alle consuetudini sociali della Cina stessa. Il Bird’s Nest è un luogo popolare che richiama moltissimi visitatori, anche senza un evento sportivo. Lo sfondo perfetto per un selfie. Un’icona dell’ascesa della Cina nel XXI secolo.
Sai indicare un momento della storia dell’architettura in cui un architetto abbia contribuito alle questioni fondamentali della società? Gli architetti hanno sempre tenuto compagnia ai potenti del mondo
Questo nuovo polo d’attrazione ha avuto qualche effetto sulla vita politica di Pechino? L’architettura dello stadio funge anche da scultura sociale e ha un impatto politico? Potrebbe essersi trattato di un’ipotesi ingenua: per inciso, l’abbiamo condivisa con Ai Weiwei, che, ovviamente, ne era più consapevole. Ma, ancora una volta: l’architettura è mai riuscita a cambiare la società? No. Non possiamo cambiare la società, ma possiamo dare un contributo tangibile. Dove e come? Diamo uno sguardo alle maggiori problematiche odierne: clima, paesaggio, migrazione, assistenza sanitaria, digitalizzazione. Prendiamo, per esempio, il paesaggio. Abbiamo fondato l’ETH Studio a Basilea vent’anni anni fa. Da allora, si dedica esclusivamente alla ricerca sui temi del paesaggio e dell’urbanizzazione. Inizialmente solo in Svizzera, poi anche altrove: Valle del Nilo, Isole Canarie, Hong Kong, Kenya, Sahara. Noi che lavoriamo a questi temi, sia docenti sia studenti, abbiamo imparato molto. Ma è servito ad altro? Abbiamo pubblicato diversi volumi, per un pubblico ristretto: si godranno l’oblio negli archivi delle università. Ma due libri hanno avuto un’influenza notevole e duratura sulla politica svizzera e sulle linee guida della pianificazione del territorio nazionale: Switzerland: An Urban Portrait (2006) e Achtung: die Landschaft (2015). Quest’ultimo è quasi un manifesto, il suo messaggio centrale recita: “costruire sul costruito”. Questo approccio è particolarmente urgente in un paese così densamente edificato come la Svizzera. Viviamo qui; è difficile ignorare ciò che sta accadendo intorno a noi. Essere sul posto, viverci, è un prerequisito importante per gli architetti quando sviluppano un’idea per un progetto. La Svizzera è un Paese piccolo, con una quantità di terra limitata, motivo per cui la nostra ricerca non può servire da modello in scala 1:1 per il Kenya, gli Stati Uniti o la Russia, ma può essere chiaramente applicata, per esempio, a Hong Kong o Tenerife.
Ma né lì né altrove c’è alcuna idea, alcun piano e certamente nessun controllo su dove, cosa e come si potrebbe costruire sul paesaggio disabitato che ancora rimane su questo pianeta. Chi possiede la terra? Chi prende le decisioni. Chi dà il permesso di sgombrarla e sfruttarla? Chi concede i permessi per costruire in mezzo al nulla? Lo status del paesaggio dovrebbe essere uguale a quello delle città, ugualmente indipendenti e importanti. Non siamo certo allarmati dal fatto che, secondo Countryside, uno studio di Rem Koolhaas, le città siano concentrate solo sul 2% del territorio. Al contrario: è il paesaggio a doversi estendere fino alla città, e non viceversa! Non possiamo cambiare la società, ma singoli progetti, come la nostra ricerca sul paesaggio svizzero, possono almeno riuscire a inserirsi nella politica reale. Il che significa che il nostro lavoro può effettivamente essere politico ma, paradossalmente, solo se lavoriamo e pensiamo come architetti affinché l’’utopia‘ prenda forma fisica, diventi tangibile.
Chi possiede la terra? Chi prende le decisioni. Chi dà il permesso di sgombrarla e sfruttarla? Chi concede i permessi per costruire in mezzo al nulla?
A volte, come architetto, t’imbatti in qualcosa per puro caso; raramente hai occasione di decidere in quale campo lavorare. Quando 20 anni fa abbiamo vinto la gara per la costruzione della clinica REHAB a Basilea, non avevamo idea che la nostra ricerca sulla riabilitazione dei pazienti avrebbe avuto un impatto tale da portare a tanti altri progetti nel campo dell’edilizia sanitaria. Abbiamo ideato una nuova tipologia ospedaliera, in gran parte definita da volumi piatti, come i paesaggi con tanti cortili. Ognuno è diverso per disegno, materiale, dettagli, vegetazione, illuminazione. Un edificio con spazi così diversi e distinti crea un’intensità e una varietà percettiva per i pazienti costretti a rinunciare a quella mobilità che un tempo davano per scontata. Non c’è praticamente nessun altro edificio di Herzog & de Meuron che incarni una combinazione così olistica di paesaggio, città e interni, che fornisca un’esperienza ugualmente accessibile a tutti coloro che vivono e lavorano in quegli spazi. Pazienti, medici, operatori sanitari, visitatori. La clinica REHAB ci ha insegnato tanto sull’esperienza del ricovero. Siamo stati in grado di applicare quelle conoscenze a progetti in Danimarca, Svizzera e ora anche a San Francisco. Gli architetti dicono sempre che imparano dai loro progetti, ma in questo caso non si tratta semplicemente di un’espressione verbale. L’edilizia sanitaria è un campo totalmente trascurato in cui i progettisti potevano essere coinvolti solo raramente e, se lo facevano, non erano in grado di trasformare l’ospedale in un luogo degno e vivibile. Riesci a pensare a un ospedale costruito dopo il 1945 che lo possa fare? Un luogo che offra sia al personale sanitario sia ai pazienti un ambiente che può aiutare a rendere più sopportabili i momenti difficili? In effetti, il più delle volte è esattamente l’opposto. Anche alcune delle cliniche meglio attrezzate al mondo dal punto di vista medico sono spesso scatole noiose, mostri orribili resi ancora più brutti da un proliferare di ampliamenti. Nell’attuale pandemia, quei posti orribili, l’incuria e l’incapacità globale della politica, della medicina e della società sono diventati dolorosamente visibili nelle notizie in TV. L’assistenza sanitaria e la sua architettura saranno una delle principali preoccupazioni negli anni a venire – e penso che molti architetti scopriranno che si tratta di un nuovo campo di attività.
Quindi possiamo fare qualcosa, dopotutto! Gli architetti vogliono fare, vogliono agire. Pochissimi di noi sono intellettuali, sebbene molti si considerino tali. Ancora meno sono quelli che sanno scrivere, e se scrivono e le loro parole si trasformano in libri, attireranno nel migliore dei casi l’attenzione delle riviste di architettura e delle università. Più hanno la capacità di generare frasi accattivanti, quasi come PR di se stessi, più hanno successo nel guidare il nostro modo di pensare. Pubblicità per l’autore, ma per quanto riguarda la sostanza, l’intuizione? L’architettura della città di Aldo Rossi ci ha conquistati, pensavamo che Complexity and Contradiction in Architecture di Robert Venturi fosse l’opera più grande mai scritta, gli architetti dopo la Seconda guerra mondiale tremavano di venerazione davanti agli arroganti Trois rappels à Messieurs les architectes di Le Corbusier. Cosa è sopravvissuto? Niente! Non un solo impulso è sopravvissuto fino a oggi! Solo un mucchio di concetti per esami di teoria dell’architettura. Non provo soddisfazione nel dirlo, solo una certa malinconia, anche riguardo ai miei testi, studi e saggi. O lettere, come questa scritta a te, David, che possono arrivare anche ad altri architetti che si pongono domande sulla nostra professione. In altre parole, un altro mucchio di parole con portata limitata. I testi sopravvivono solo se sono indipendenti, se stanno in piedi da soli. Solo se creano i propri mondi autosufficienti. Solo la letteratura può farlo o, cosa ancora più impressionante, la poesia. Essa continua a parlarci a lungo dopo che è stata scritta. Ciò che scrivono gli architetti non è letteratura: al massimo è Zeitgeist o, più probabilmente, solo giornalismo o aneddotica.
Non tutti sarebbero d’accordo. Sono molti quelli che infondono nella loro scrittura una grande passione architettonica. Di recente ne ho discusso con Peter Eisenman, che è tra coloro che ripongono molta fiducia nello scrivere. Ma è un pio desiderio presumere che le parole di un architetto – come quelle di un profeta – siano più forti di possenti muri di pietra. Tutto ciò che ci resta è l’architettura stessa. Almeno questo, perché richiede un’azione fisica. Che osservazione da fare proprio quest’anno, l’anno del coronavirus, quando siamo dovuti restare a casa per settimane intere! Un dramma a porte chiuse per molte persone, come un brano di Beckett recitato sul piccolo palcoscenico di un teatro di provincia. Ma ce ne siamo accorti: fa differenza quando la finestra è nel posto giusto, in modo che la luce e il sole possano illuminare lo spazio angusto di un appartamento. Forse c’è una terrazza con vista esterna. E un albero vicino. Non sono prospettive spettacolari per noi architetti viziati, eppure sono questioni innegabilmente cruciali e tuttavia trascurate.
A volte, come architetto, t’imbatti in qualcosa per puro caso; raramente hai occasione di decidere in quale campo lavorare
Quindi possiamo fare la differenza lavorando su progetti che rispondano alle esigenze degli utenti. Fare un uso intelligente dello spazio, in realtà un compito tradizionale dell’architetto, è ancora di fondamentale importanza. Non solo lo spazio, ma anche il modo in cui lo plasmiamo e i materiali che utilizziamo. Non puoi produrre architettura senza materiali da costruzione che devono pur provenire da qualche parte e che, a seconda dei casi, sono o non sono sostenibili. Possiamo non usare il cemento, per esempio, a meno che non sia destinato a svolgere un ruolo estetico esplicito. O dove è indispensabile come in edifici estremamente alti o che scendono in profondità nel terreno. Ciò ridurrebbe sostanzialmente le emissioni di CO2 in tutto il mondo e proteggerebbe risorse preziose e non rinnovabili, come ghiaia e sabbia, lasciandole dove sono.
Dobbiamo infatti ripensare radicalmente l’uso del calcestruzzo, e non semplicemente perché vogliamo essere rispettosi dell’ambiente. Il cemento è diventato un luogo comune, è onnipresente nei cantieri di oggi perché ci si può fare praticamente tutto. Noi architetti abusiamo dei materiali sfruttandoli sconsideratamente o interessandoci solo al loro fascino superficiale, cosa che risulta a nostro svantaggio, poiché in tal modo limitiamo anche il nostro raggio d’azione. L’architettura come disposizione o produzione di idee non è architettura, è mera decorazione e, come tale, non è solo brutta ma anche dannosa per l’intero mondo dell’architettura. L’architettura ha un potenziale così immenso proprio perché la sua varietà sensoriale, materiale e spaziale è così simile a noi esseri umani, così fragile e vulnerabile. Possiamo sentirla, può amplificare e smorzare i suoni, può immagazzinare odori nelle trombe delle scale e nei soggiorni: ha un odore. Ogni stanza, ogni appartamento ha un odore diverso. Come le persone che ci vivono.
Quindi, caro David, chiudo qui. Ho divagato. Se continuo, la mia lettera si trasformerà in un saggio, e tu sai fin troppo bene cosa pensiamo al riguardo. Ci sono naturalmente molti altri temi, ma ne parleremo magari un’altra volta.
Con affetto, Jacques
Basilea, agosto 2020