Kulapat Yantrasast, nato a Bangkok, ha studiato architettura a Tokyo e ha lavorato per sette anni accanto a Tadao Ando, su progetti come il Modern Art Museum di Fort Worth (2002) e il Clark Center del Clark Art Institute di Williamstown, nel Massachusetts (inaugurato nel 2014). Nel 2003 si è trasferito negli Stati Uniti e ha fondato wHY, studio interdisciplinare con sede a Los Angeles e poi anche a New York. “È stato il mio tentativo di sfuggire al dover parlare un unico linguaggio progettuale per il resto della vita”, mi spiega davanti a una tazza di caffè nella sua casa di Venice Beach, che ha progettato nel 2012 come rifugio personale e come spazio destinato a frequenti riunioni.
Kulapat Yantrasast
“Se odi gli essere umani non potrai mai essere un buon cuoco!” Tre nuovi progetti di Kulapat Yantrasast dello studio wHY e le idee che li hanno costruiti.
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- Katya Tylevich
- 27 febbraio 2017
- Los Angeles
Nel pomeriggio che trascorriamo insieme Yantrasast mi illustra nei particolari i numerosi progetti che sono nati dalla sua condizione di poliglotta dell’architettura: tra i più recenti la ristrutturazione di un tempio massonico di Los Angeles, di quasi 9.300 metri quadrati, trasformato in un centro d’arte su incarico della Maurice and Paul Marciano Art Foundation (sarà inaugurato il prossimo autunno); il completamento della galleria Gagosian di San Francisco; lo Speed Art Museum di Louisville, nel Kentucky; e una quantità di progetti residenziali in tutto il mondo, tre dei quali (qui illustrati) si sono appena trasformati da progetti in case vive e vitali. Con Yantrasast abbiamo parlato di come la passione delle sue idee si rifletta nelle loro finestre.
Katya Tylevich: Perché voluto sottrarti al sistema del progetto “monolingue”? Kulapat Yantrasast: Mi sono formato sotto Ando, il cui insegnamento è stato assolutamente decisivo. Parecchi architetti e artisti della sua generazione condividono il suo modus operandi: parlare un unico linguaggio progettuale, forte e chiaro. La poesia e la lucidità di persone come Ando, Gehry e Richard Serra sono ammirevoli, ma io ritengo che in questo momento – nel 2017, così come stanno le cose – non possiamo parlare un unico linguaggio. Dobbiamo creare continuamente forme di espressione nuove e diverse. Per questo motivo accetto volentieri la collaborazione e sono attratto dalla curiosità, che scorre in tutti i nostri progetti, dal più elementare al più grandioso. Se il progetto è un linguaggio credo che al wHY si parlino più lingue.
Katya Tylevich: I committenti, per lo più, condividono il tuo entusiasmo per il plurilinguismo oppure preferiscono l’idea di un “capo”? Kulapat Yantrasast: Una delle discriminanti principali che ci spinge a intraprendere un nuovo progetto è quanto siano speciali e interessanti i committenti. Certe volte è molto difficile lavorare con le persone speciali, eccentriche [risate]. Ma in generale le persone che amano l’architettura sono eccentriche e speciali. Se ci facciamo caso, i nostri clienti hanno sempre la possibilità di andarsene ad acquistare un’altra casa. Quindi trascurare la scelta più semplice in favore di qualcosa di veramente su misura rispecchia davvero chi uno sia. I nostri committenti cercano un architetto che crei una specie di loro autoritratto personale.
Katya Tylevich: Non un autoritratto dell’architetto? Kulapat Yantrasast: Quando un architetto porta un progetto troppo lontano dal committente, quest’ultimo forse entrerà nello spazio e scoprirà che non ci può assolutamente vivere. Katya Tylevich: La realtà soddisfa le attese… Kulapat Yantrasast: Sì, la vita è così. E l’architettura non la si conosce mai veramente fino a quando non ci si vive dentro. Il cliente in questione dirà: “Oh, non sapevo che sarebbe stata così”. Lo scenario migliore è quando è meglio di quanto immaginassero.
Katya Tylevich: Tu lavori a una varietà di scale impressionante. Sei capace di conservare l’intimità del lavoro sui progetti di abitazione quando lavori con le grandi istituzioni? Kulapat Yantrasast: Credo che il mio caso sia unico, perché ho iniziato molto tempo fa con i grandi progetti e quelli più piccoli mi sono capitati solo dopo qualche tempo. Grazie al mio lavoro con Ando, e alla stima e alle referenze che comportava, il mio primo progetto con wHY è stato il Grand Rapids Art Museum, nel Michigan, a soli due mesi dall’apertura dello studio. Ma quei progetti non facevano che sottolineare quanto sia importante la comunicazione nel mondo dell’architettura. Oggi come oggi abbiamo la fortuna di lavorare in venti o trenta città. Il che vuol dire che non ci possiamo permettere il lusso di affidarci a un ingegnere o a un tecnico del calcestruzzo di fiducia. Ogni volta questi rapporti partono da zero. E se non si hanno l’amicizia, il sostegno e la collaborazione di tutti, dall’ingegnere al cliente, si è totalmente disarmati. Non ho mai considerato l’architettura una cosa mia.
Katya Tylevich: Il tuo studio ha sede a Los Angeles e New York: i trampolini per due differenti parti del mondo. Quanto conta per la tua professione? Kulapat Yantrasast: Credo davvero nel futuro di Los Angeles. Credo che Los Angeles sarà la capitale del resto del mondo: ha forti legami con le Americhe, ha forti legami con l’Asia, e queste due parti del mondo da sole contano tre quarti della popolazione mondiale. Ma non si può capire il nuovo senza comprendere il vecchio. Così, per mantenere l’equilibrio, mi ricollego con l’Europa attraverso New York.
Katya Tylevich: Che cosa significa il futuro di Los Angeles per il futuro del progetto? Kulapat Yantrasast: Ecco quello che il futuro del progetto non è: una singola persona, seduta in una stanza oscura, che disegna avvolta in un mantello. Non è una singola persona a poter risolvere i problemi del mondo. Questo era il modello di Frank Lloyd Wright e di Le Corbusier. Il futuro è l’essenziale miracolo della collaborazione tra molte persone differenti. In fin dei conti architettura significa mettersi al servizio degli altri: la comunità, la città, il paese, il mondo. Se non si glorifica un oligarca o un tiranno occorre glorificare la molteplicità di ciascuno.
Katya Tylevich: In questa riflessione non posso fare a meno di leggere una metafora politica. Kulapat Yantrasast: Io credo che un ecosistema sano sia composto da specie differenti di piante, Se si piantano 400.000 frassini, basterà una malattia ad abbatterli tutti. E allora forse i conflitti e il disaccordo che viviamo oggi in realtà sono segni di un ecosistema forte che combatte decisioni malsane di breve portata in favore di una lunga portata più sana. Credo che, in seguito, troveremo il punto giusto. Stiamo cavalcando l’ultima ondata di paura.
Katya Tylevich: Il tuo metodo di lavoro si ispira a questa convinzione? Kulapat Yantrasast: Spesso ripenso a questo concetto del filosofo Krishnamurti: a uno studente che gli chiedeva un consiglio per diventare un buon medico Krishnamurti rispose che per essere un bravo medico doveva essere prima di tutto una brava persona. Oggi più che mai credo che non si possa essere un buon architetto – né qualunque altra cosa – se si è incompleti come esseri umani, in fatto di empatia, cultura e volontà di comprendere il prossimo. Se non ci si sforza di raggiungere le qualità fondamentali di un buon essere umano allora non si sta facendo il proprio mestiere, quale che sia.
Katya Tylevich: Quindi la buona architettura è necessariamente una questione di empatia? Kulapat Yantrasast: Vedi, se odi gli essere umani non potrai mai essere un buon cuoco! Dai da mangiare alle persone! Sesso a parte, quale altro rapporto è più intimo di questo? Le persone introducono il tuo lavoro nel proprio corpo, e hanno fiducia che tu non li avveleni. Con l’architettura succede la stessa cosa: le persone hanno fiducia in te, mettono se stesse dentro il tuo lavoro. Se usi materiali tossici, se lo spazio per una qualunque ragione dà una brutta sensazione, questo fatto determinerà il modo di vivere di una persona, il modo in cui si metterà in rapporto con gli altri, il suo modo di guardare alla vita. Tutto. L’architettura ha questo potere.
Katya Tylevich: Come si esprimono le tue convinzioni nella realtà fisica? Come si rispecchiano per esempio nella Casa Beverly di Santa Monica, in California? Kulapat Yantrasast: Be’, ecco un esempio del tentativo di comprendere davvero la particolare prospettiva del committente nei confronti della vita. Si tratta di una ristrutturazione a basso costo: per lo studio non era un grande progetto, ma era l’occasione di lavorare con una persona affascinante. Il committente è vicino alla terra come una lucertola: gli piace stare al sole senza camicia, essere tutt’uno con gli elementi; fa surf e lavori di meccanica su auto d’epoca. Quando parlava di che cosa era importante per lui nella vita io dovevo fare uno sforzo per continuare ad ascoltarlo. Ho avuto la sensazione sempre più forte che sarebbe stato più felice se fosse andato a vivere in un albero. Perciò il risultato è un’abitazione il cui esterno sembra corteccia grezza, ma dentro si vede il contrasto della raffinatezza del legno: l’interno dell’albero. Le scale, che hanno anche la funzione di libreria, collegano al centro della casa il suo lavoro con la sua vita.
Katya Tylevich: Più o meno nello stesso periodo hai completato la Casa Chiang Mai, in Tailandia: ma questa suggerisce un modello di vita completamente diverso. Kulapat Yantrasast: Sì, completamente diverso, che rispecchia l’unione della cultura britannica e di quella tailandese nei committenti, oltre che il loro amore per l’arte. A questi committenti interessava poter vivere in un ambiente moderno pur conservando la sensibilità per la cultura e i valori della tradizione, e mitigando la forte umidità del clima. Una scatola di vetro non avrebbe funzionato. In questo caso volevo proprio rispecchiare la ricchezza della vita intellettuale che condividevano, oltre che il luogo in cui vivevano. Chiang Mai è nota per i suoi ombrelli di bambù, e c’è l’idea che un ombrello sia una specie di rifugio portatile. Stavo pensando a questo quando mi capitò di osservare la tenera fotografia di un bambino che usava una foglia di palma per proteggersi dalla pioggia. Mi ricordò che quand’ero ragazzino lo facevo anch’io. L’idea della casa è nata da qui: la Casa Chiang Mai ha l’aspetto di una foglia che cresce dalla terra e copre gli abitanti, dando loro riparo, con una pianta modernissima al di sotto: spazi quadrati. La foglia diventa in realtà una delle pareti della casa, creando più di un collegamento. La maggior parte delle persone non vede mai il tetto sotto cui abita, ma a me piace l’idea di creare un collegamento con ciò che li ripara.
Katya Tylevich: E qual è la storia della Casa Amoroso di Venice, in California, che è stata concepita nello stesso periodo? Kulapat Yantrasast: I committenti di Venice sono un immobiliarista e il proprietario di un celebre ristorante, che condividono il mio interesse per l’idea del geode: grezzo all’esterno, ma dentro con il contrasto della raffinatezza e della lucidità intellettuale. Volevano un unico grande spazio che conservasse una delle qualità di Venice: la scala di un villa fuori città, la vicinanza a un quartiere che si può raggiungere a piedi. Se si vive a Venice si vuol vivere una vita aperta. Perciò il primo piano consiste in un padiglione rialzato su un plinto di calcestruzzo, con vetrate anteriori e posteriori negli ambienti comuni: le zone di soggiorno, circondate dalla natura, sembrano l’interno di un cortile. Le camere da letto sono collegate da un corridoio, ma ciascuna è progettata per essere unica, come un bungalow di Venice. Ciascuna stanza ha il suo fascino specifico. Mi piace l’idea che, se si ritaglia una pianta, si ricava in ogni fetta una parte di torta differente.
Katya Tylevich: Un ecosistema sano e diversificato anche in un’abitazione unitaria. Kulapat Yantrasast: Be’, non mi interessa portarmi dietro una cassetta degli attrezzi se dentro ci sono solo cinque martelli.
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