Un’installazione nel padiglione centrale dei Giardini della Biennale di Venezia 2016 è stata definita da Fulvio Irace sul Sole 24 Ore “bella e agghiacciante”. Si tratta della Evidence Room allestita da un gruppo di docenti della University of Waterloo (Canada) composto da Anne Bordeleau, Sascha Hastings e Donald McKay e coordinato da Robert Jan van Pelt, storico dell’architettura che ha da sempre concentrato la sua ricerca sulla storia dell’Olocausto e studiato a fondo i campi di sterminio, in particolare Auschwitz.
Senso etico e architettura
La Evidence Room allestita alla Biennale di Venezia, offre lo spunto per una riflessione sul punto estremo a cui può arrivare il senso etico legato all’architettura: offrire le proprie competenze professionali per un crimine.
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- Lorenzo Pignatti
- 19 agosto 2016
- Venezia
Robert Jan van Pelt è stato il consulente che ha confutato, di fronte alla Royal Courts of Justice di Londra nel 2000, la falsa asserzione presentata da uno storico revisionista e negazionista dell’Olocausto, David Irving, il quale sosteneva che non ci fossero state camere a gas ad Auschwitz e che, pertanto, l’Olocausto non fosse mai accaduto. Punto centrale di questo procedimento furono le interpretazioni forensi delle prove architettoniche di Auschwitz e la precisa testimonianza di van Pelt nel ricostruire, attraverso documenti tangibili e non solo testimonianze orali dei sopravvissuti, la reale e storica evidenza del crimine perpetuato ad Auschwitz. La sua interpretazione e testimonianza a riguardo della progettazione e il funzionamento di questi edifici come strumenti di sterminio collettivo è stato il contributo principale per vincere il processo ed affermare la verità sull’Olocausto, il crimine più drammatico del ventesimo secolo. La relazione di van Pelt – pubblicata come The Case for Auschwitz – è diventata una dei riferimenti principali per una nuova disciplina posta all’intersezione tra architettura, tecnologia, storia, diritto e diritti umani: l’architettura forense.
Quelle stesse prove e documentazioni sono state riprodotte alla Biennale. La Evidence Room è costituita da una riproduzione a grandezza naturale e modelli di alcuni degli elementi architettonici di Auschwitz (una colonna per il gas, uno sportello a tenuta stagna – entrambi per immettere il gas Zyklon B nelle camere a gas – una porta a tenuta stagna, copie dei progetti, lettere degli architetti, fatture delle imprese fornitrici, fotografie ed altro). Queste prove concrete confermano, nel loro insieme, le testimonianze del dopoguerra riportate sia dai sopravvissuti che dai carnefici e dimostrano, al di là di ogni ragionevole dubbio, che Auschwitz era una fabbrica volutamente progettata per la morte, dotata di camere a gas di grandi dimensioni ed inceneritori di massa, nelle quali oltre un milione di persone, il novanta per cento delle quali erano ebrei, sono stati assassinati.
Nel visitare il padiglione centrale dei Giardini, la Evidence Room potrebbe essere percorsa velocemente, data la sua piccola dimensione e la sua posizione lungo un percorso di attraversamento. Non è però vero perché l’anomalo e ‘agghiacciante’ tema viene percepito anche dal visitatore affrettato e distratto. Lo spazio è di dimensioni ridotte, ma sapientemente progettato e calibrato attraverso una maglia regolare che sostiene dei pannelli bianchi alle pareti; lo spazio è illuminato da una forte luce bianca che crea una situazione di sospensione; tutta la documentazione relativa a disegni, fotografie e planimetrie è resa più astratta perché presentata con dei modelli in gesso bianco a rilievo che fanno leggere il contenuto prevalentemente tramite l’ombra del rilievo stesso. Nello spazio sono posizionati alcuni degli oggetti che costituivano gli elementi architettonici e componenti tecnologiche delle camere a gas: il più terrificante è la colonna di grigliato metallico attraverso la quale veniva immesso il gas Zyklon B nelle camere a gas. Un elemento costruito con grigliati metallici di grande spessore, con rinforzi orizzontali e verticali contro possibili manomissioni da parte delle vittime, con una solidità costruttiva che potrebbe sembrare eccessiva, ma derivava dall’efficienza costruttiva e tecnologica fornite dai tecnici adibiti alla progettazione e costruzione degli elementi e quindi testimonianza della cura dei dettagli dei singoli componenti.
La Evidence Room è un’installazione che ha un forte aspetto tattile. Si devono toccare i pannelli in gesso per meglio percepire le parti in rilievo; si devono toccare gli elementi architettonici per percepire la solidità degli stessi; si devono toccare gli sportelli e le porte per percepire la loro robustezza e pesantezza. Toccare per capire. Uno dei sopravvissuti all’Olocausto, visitando nel febbraio 2016 il laboratorio della University of Waterloo durante la costruzione degli oggetti che sarebbero andati nella mostra di Venezia, ha toccato la colonna con la propria mano e questo semplice gesto tattile è stato per lui di grande e profonda emozione: “I felt the cold hand of history on my spine, a new visceral recognition, all these years later”.
Il punto centrale della terribile storia narrata dalla Evidence Room è che gli architetti, ingegneri, tecnici e urbanisti hanno dato il meglio di se stessi per creare una macchina di morte altamente efficiente, e perfettamente funzionante. I tecnici, seppur costretti o genericamente consenzienti, hanno lavorato e progettato Auschwitz nel migliore dei modi, offrendo le loro competenze e la loro preparazione tecnica per perfezionare la più terribile opera architettonica. Oltre ai dettagli tecnici dimostrati nella Evidence Room da disegni e documentazioni che testimoniano l’efficienza delle camere a gas, lo stesso master plan di Auschwitz testimonia la più aggiornata cultura urbanistica del tempo, erede del pensiero razionalista e di tutta la pianificazione urbana tedesca del periodo pre-bellico. Auschwitz è quasi un modello di città, con il suo impianto di grande razionalità, con la sua assialità, gerarchia e accurata disposizione dei servizi (compresi quelli della morte) rispetto agli alloggi. Appunti scritti a mano dai tecnici sulle copie dei disegni testimoniano il loro conteggio in relazione alla capacità massima dei singoli edifici adibiti ad alloggi dove, semplicemente portando da tre a quattro i posti per ciascun letto a castello, si passava da 550 a 744 internati per edificio. I documenti riportano infatti ogni tipo di testimonianza per ‘efficientare’ e migliorare le condizioni generale di Auschwitz.
Van Pelt riporta una citazione dello storico Nikolaus Pevsner che, a riguardo dei campi di sterminio e dell’Olocausto, ha detto “the less said, the better” (“meno se ne parla, meglio è”). Sicuramente, la generazione che ha vissuto quel periodo ha voluto parlare il meno possibile del dramma dell’Olocausto. Purtuttavia la Biennale di Aravena ha posto come tema centrale il ruolo sociale dell’architettura e soprattutto la conoscenza e la condivisione delle esperienze. Con la Evidence Room si condivide quindi il dramma delle camere a gas, si porta a conoscenza anche il tentativo di negarne l’esistenza, ma soprattutto si riflette sulla responsabilità morale ed etica del fare architettura. Affrontando il punto estremo a cui può arrivare il senso etico legato all’architettura, cioè offrire le proprie competenze professionali per un crimine, la Evidence Room non si aggiunge al coro di coloro che intendono mantenere vivo il ricordo, ma incarna essa stessa il dramma di Auschwitz.
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