Ci sono tanti modi di intendere Reporting from the Front, il tema della 15.Biennale di Architettura di Venezia 2016. Per esempio lo si può leggere come una prescrizione umanitaria, come hanno fatto in molti. Oppure, in alternativa, come una metafora giornalistica.
Making Heimat
Il padiglione della Germania alla Biennale Architettura di Venezia affronta il tema dell'immigrazione – tra i massimi sismi della storia contemporanea – attraverso la Arrival City, una categoria narrativa presa in prestito dalle ricerche del giornalista Doug Saunders.
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- Daniele Belleri
- 17 giugno 2016
- Venezia
Vista sotto quest’ultima luce, Reporting from the Front non vincola i progettisti-reporter ad agire in un ambito sociale specifico: va piuttosto a formulare una doppia raccomandazione di metodo. Da un lato: immergersi nel contesto e rappresentarlo in modo sincero. E dall’altro: mantenere quella giusta distanza che nei contesti più difficili permette autonomia ed equilibrio di giudizio.
Proprio su questo dualismo tra empatia e distanza possiamo osservare le installazioni in Laguna. In particolare le tante che si concentrano sul fronte dei fenomeni migratori. In effetti, complice lo sconvolgimento degli equilibri geopolitici negli ultimi anni, su qualunque entroterra mediterraneo oggi si guardi – europeo, mediorientale o nordafricano – incontreremo campi in cui l’architettura è chiamata in causa: per costruire alloggi per rifugiati, ripensare centri di prima accoglienza, o attutire gli shock urbani al momento dell’arrivo delle nuove masse di stranieri. Su questa scena, un attore di primo piano è la Germania. Cioè la nazione che, in sostanziale controtendenza con il resto d’Europa, dall’autunno del 2015 ha scommesso sulla possibilità di trasformare l’immigrazione – tra i massimi sismi della storia – in leva economica con la quale controbilanciare un declino demografico altrimenti inevitabile nei prossimi decenni. Ma le città tedesche potranno reggere all’urto? Se lo domanda “Making Heimat”, il padiglione curato da Peter Cachola Schmal, Oliver Elser e Anna Scheuermann del Deutsche Architekturmuseum di Berlino.
L’esposizione ruota intorno a un concetto: la Arrival City. Ovvero il primo luogo di incontro tra i migranti e lo spazio urbano. La Arrival City può sovrapporsi a un quartiere già esistente, senza alterarne le sembianze topografiche; oppure può diventare una nuova presenza fisica, prendendo la forma di insediamenti come slums e favelas. Si tratta di una categoria narrativa presa in prestito dalle ricerche del giornalista Doug Saunders. Nel suo saggio Arrival City del 2011, Saunders mappava aree diverse di immigrazione – da Neukölln a Berlino a Peckham a Londra, fino a Cidade de Deus a Rio de Janeiro o Dharavi a Mumbai. Anche se il suo termine non si riferisce a un singolo Paese, l’idea portante è che la Arrival City sarà nel futuro prossimo sempre più decisiva nello sviluppo urbano tedesco.
Collaborando alla realizzazione del padiglione, Saunders ha suggerito otto tesi che raccontano il concetto, attraverso osservazioni pragmatiche in cui si ritrova un certo spirito alla Jane Jacobs. Tra le altre cose, la Arrival City si presenta come “A city within a city”, “Close to business”, “Informal”, “On the ground floor” – definizioni che evidenziano caratteri di auto-organizzazione, solidarietà e fermento imprenditoriale, come anche di continua oscillazione tra legalità e illegalità. Soltanto una tra le tesi ha un carattere prescrittivo: “La Città d’Arrivo ha bisogno delle scuole migliori” (“The Arrival City needs the best schools”). Le altre sembrano suggerire che l’osservazione – la giusta distanza – è il passo che deve precedere ogni giudizio o progetto. Gli slogan di Saunders sono stampati in bella evidenza nelle sale del padiglione nei Giardini. Il quale, in modo notevole, si presenta senza più alcuna porta o divisione interna. Tutte quelle che c’erano sono state abbattute a martellate. Questa scelta, che simboleggia un’intenzione di apertura dei confini, va riconosciuta come sincera e meritoria. Tuttavia è difficile restare affascinati dalla nobiltà del gesto, prima che si faccia palese l’evidenza di un cortocircuito tra la rappresentazione architettonica e la realtà geopolitica.
In verità, la Germania che oggi sfoggia virtù di accoglienza è lo stesso Paese che per anni ha ignorato gli appelli con cui i vicini mediterranei, tra cui Italia e Grecia, invocavano un maggiore coordinamento a livello di Unione Europea sulla questione dei migranti. Il compito di trovare una soluzione alla crisi dei rifugiati non è di certo stato facilitato da quello che Heribert Dieter, analista del German Institute for International and Security Affairs, sulle pagine della rivista italiana Limes ha definito “solipsismo tedesco”. L’atteggiamento di Berlino si è protratto fino a quando la situazione non è diventata insostenibile, aprendo infine la strada al generoso ‘incoraggiamento monetario’ con il quale Bruxelles ha chiesto alla Turchia di Recep Tayyip Erdoğan di bloccare i flussi di persone sul Mar Egeo.
Il Padiglione Tedesco questi temi non li tocca, e qui forse si può scorgere il suo primo intento: riportare il discorso sull’immigrazione a una cornice locale. Non che questo sia un compito da poco: fallimenti sulla sfida dell’accoglienza a Neckarstadt-West a Mannheim (47,9% di residenti stranieri) o a Bahnhofsviertel a Francoforte (52,5%), rispetto ad esempio alle crescenti pressioni dei partiti di destra estrema, avrebbero alla lunga ripercussioni internazionali. Ma il fatto che la dimensione patriottica sia stata scelta come prevalente, di fronte a problemi di evidente respiro universale, lancia anche un altro messaggio.
La Biennale d’Architettura, nata nel 1980, è una figlia degli umori postmoderni, e di una diffusa considerazione disilluso-ironica sulla capacità della politica di opporsi alle forze del mercato. Rispetto al passato, quest’anno si può intravedere un cambio di marcia. Ma se il clima di impegno e la generale mancanza di cinismo nell’edizione guidata da Alejandro Aravena ci dicono di una ritrovata fiducia nella possibilità degli architetti di tornare a condizionare la storia, ci mettono anche di fronte a una visione del mondo ancora saldamente dominata dalle nazioni. Due decenni fa, affrontando le difficili scelte legate all’integrazione di Serba, Croazia e Turchia nella UE, il grande storico John Pocock scriveva: “Queste non sono decisioni che debba prendere il mercato, ma decisioni dello stato. E rivelano chiaramente che l’Europa è ancora una composizione di stati i cui interessi formati dalla storia producono atteggiamenti divergenti nei confronti del problema “Europa” e dei suoi confini”. Pubblicato nel 1994, in un periodo di infatuazione per le teorie di Francis Fukuyama sulla fine della storia, Deconstructing Europe rivendicava il fatto che “c’è ancora qualcosa che la storia ha da fare”, per poi però lanciare un avvertimento: “Non si tratta di una prospettiva confortante”.
Usando formule caute come “Può essere sensato tollerare le pratiche semi-legali”, il padiglione tedesco sembra parlare innanzitutto ai propri connazionali. Ai curatori di “Making Heimat” va comunque riconosciuta la capacità di rispondere a Reporting from the Front con rigore e ambizione – mentre altrove, su argomenti simili, dominano letture contraddittorie o pietistiche. Al Padiglione dell’Austria, i visitatori si possono portare a casa larghi poster colorati che ritraggono gli abitanti dei nuovi centri di accoglienza di Vienna in pose di vita domestica. Ma anche la scena più dolce diventa subito stridente, se pensata in rapporto a quanto accade ai confini con la Slovenia, o al Passo del Brennero. Sulle frontiere alpine, ogni sospensione del trattato di Schengen infligge colpi durissimi all’impalcatura dell’integrazione europea.
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