Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 981 / giugno 2014.
Nel corpo della città
Il Padiglione Italia alla 14. Biennale di Venezia viene raccontato a Domus dal suo autore come un vero e proprio progetto di architettura. Simile – come lui stesso ricorda – al progetto di una rivista, tutto teso a definire la particolare idea di modernità della cultura progettuale italiana.
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- Cino Zucchi
- 07 giugno 2014
- Venezia
Quando ho parlato per la prima volta del Padiglione Italia a Pierluigi Nicolin, da grande veterano di mostre lui mi ha subito suggerito: “Parti dall’allestimento!”. Esiste una difficoltà nel mettere in scena l’architettura. Mentre alla Biennale d’Arte l’oggetto della mostra, l’opera d’arte, è presente in forma fisica, l’architettura non è trasportabile e, quindi, può essere documentata in due soli modi. Il primo è attraverso un suo simulacro, sia esso una foto, un modello, una descrizione; ma così si perde la complessità di ‘fenomeno’, la presenza fisica, l’odore, la luce che gira, la sua materia.
Con il secondo modo si può trasformare la mostra stessa in un’architettura: il dilemma quindi è se ‘documentare’ l’architettura oppure ‘rifarla’. Spesso, la Biennale d’Architettura finisce così per assomigliare a una mostra d’installazioni architettoniche. Come, per esempio, il padiglione del Belgio del 2008, che s’intitolava “La festa è finita”, uno spazio vuoto con il pavimento coperto di coriandoli: bellissimo nel suo coraggio di essere del tutto monotematico. Dal suo esordio negli spazi dell’Arsenale, il Padiglione Italia ha cercato di documentare per campionamenti critici o per progetti commissionati ad hoc uno spaccato della cultura architettonica italiana. In fondo, fare una mostra non è così diverso dal mettere insieme il numero di una rivista, fatto da una raccolta di progetti (e dalle implicite esclusioni) attorno a un tema enunciato da un editoriale. Il suggerimento dato da Rem Koolhaas alle partecipazioni nazionali, “Absorbing Modernity 1914-2014” è di grande semplicità e pertinenza, e l’ho quindi seguito con entusiasmo. Il nostro padiglione si trova, quasi per caso, alla fine del suo “Monditalia”, che mette in scena una ‘decostruzione’ acuta e idiosincratica dell’immagine da cartolina che il Bel Paese ha accumulato nei secoli, e che ha finito per nasconderne la realtà multiforme e contradditoria. Il Padiglione Italia esamina i tentativi da parte della cultura progettuale dell’ultimo secolo di agire su questo paesaggio frammentato in maniera ‘edificante’, innestando gemme di grande modernità negli interstizi che separano gli strati precedenti.
Accettiamo l’Italia nelle sue contraddizioni e nei suoi differenti paesaggi. Dentro queste condizioni concrete, persone “di buona volontà” si sono rimboccate le maniche e hanno operato con la loro cultura all’interno delle diverse condizioni concrete con le quali ogni progetto si confronta. Due sono i progetti che sceglierei come emblema di questo atteggiamento ‘empirico’, al contempo innocente e colto: la “Fetta di Polenta” di Alessandro Antonelli a Torino, bizzarro esempio di abitazione urbana che per adattarsi al sito contraddice ogni modello tipologico; e il Museo del Tesoro di San Lorenzo a Genova di Franco Albini, invenzione ‘sotterranea’ che dona forma finita alla casualità del lotto sul quale insiste. Invece di puntare sulla soluzione generale, paradigmatica, verso la quale aspirava il primo moderno dalle aspirazioni universaliste, questi due progetti costituiscono una sorta di manifesto teorico del “caso per caso”. Riprendendo la famosa dicotomia di Lévi-Strauss tra l’ingegnere – che ha un ‘metodo’ attraverso il quale produce forme – e il bricoleur – che assembla una serie di forme esistenti per perseguire un fine specifico –, potremmo affermare che la grande cultura classica degli architetti italiani moderni è stata usata, invece che nelle forme di un universalismo neoclassico “alla Durand”, per dare sostanza e compiutezza formale a una serie di problemi inediti: una sorta di “empirismo colto” con il quale mi trovo molto in sintonia per la mia formazione peculiare che ha ibridato lo sperimentalismo americano con il rigore filologico italiano.
Architetti che avevano studiato Palladio e Vitruvio si sono trovati a dover ‘innestare’ edifici moderni sulle macerie della guerra e, quindi, hanno dovuto necessariamente fare i conti con la morfologia della città esistente. Nel catalogo della mostra, ho contrapposto sulla stessa pagina brani da Bauen, di Hannes Meyer del 1928, con altri tratti da Amate l’Architettura di Gio Ponti. Il primo esprime la purezza e la forza del suo radicalismo ‘calvinista’, affermando che ogni progetto è “il risultato della formula (funzione per economia)” ed esorta all’uso dei nuovi materiali – ripolin, euböolith, viscosa, amianto, torfoleum, cemento cellulare, corno sintetico, caseina, trolite, xelotec, legno sintetico, tombac –, metà dei quali non esistono già più. Il secondo afferma con orgoglio che “l’Italia l’han fatta metà Iddio e metà gli Architetti” ed esorta i lettori ad “amare l’architettura per quel che di fantastico, avventuroso e solenne ha inventato con le sue forme astratte, allusive e figurative, che incantano il nostro spirito e rapiscono il nostro pensiero, scenario e soccorso della nostra vita”. È una visione forse più poetica e consolatoria, che esprime bene la “modernità anomala” del caso italiano. La scelta del titolo del Padiglione Italia, “Innesti”, è ben distinta dalle ossessioni naturaliste delle teorie odierne, animate da un senso di colpa e alla ricerca disperata di un paradigma infallibile.
Per me, l’innesto è un atto umano, dotato di un certo grado di violenza, di fallibilità e di capacità d’imparare dai propri errori; ma esprime anche la responsabilità dell’azione che modifica un organismo esistente e non su una tabula rasa. È ovviamente una lettura centrata sul caso italiano, ma non di sua esclusiva pertinenza: il progetto di Gunnar Asplund per la Cancelleria reale di Stoccolma non è meno ‘innesto’ dei progetti di Giuseppe Terragni per riformare il centro antico di Como. Il nostro progetto di allestimento mima la densità e la regolarità di uno spazio urbano nella prima sala, dedicata a una Milano vista come “laboratorio del Moderno”, ed evoca invece il carattere narrativo del paesaggio nella seconda sala, che illustra uno spaccato di progetti italiani contemporanei e finisce con una serie di ‘cartoline’ inviate da una serie di architetti stranieri. L’allestimento comincia e finisce, inoltre, con due veri e propri ‘innesti’ fisici sugli spazi esistenti: il portale in metallo – affettuosamente chiamato ‘archimbuto’ – che costituisce una protesi della facciata esistente; e la lunga panca-scultura nel giardino, soprannominata con una punta di ironia “il nastro delle Vergini”, che si offre al pubblico per possibili eventi e come spazio di riposo. Per ragioni di tempo, il progetto di allestimento è stato fatto “in casa”, ma ospita due cammei di Modus Architects (la sezione EXPO 2015) e di Matilde Cassani (lo spazio di sosta dove viene proiettato il montaggio di video amatoriali). L’allestimento ‘mima’ con la sua realtà spaziale quello che le immagini e i testi ‘dicono’. Nella speranza che, come scriveva Maria Angelou, il pubblico “dimenticherà presto cosa hai detto o fatto, ma non dimenticherà mai come li hai fatti sentire”.