“Ho dei pregiudizi sulla rettitudine”, mi confida Jeffrey Kipnis. “Sono stanco di tutti questi edifici che mi dicono che devo essere giovane e in forma, e avere una postura corretta. Io non sono giovane, non sono in forma, mi piace starmene seduto ingobbito, spesso mi sbronzo e mi piace appoggiarmi alle cose. Perciò, una volta tanto, mi piacerebbe passeggiare in una città con qualche edificio che mi dicesse: Vai bene così, fai parte del mondo, sei di questo mondo”. Be’, l’articolo potrebbe anche finire qui.
Figure Ground Game
La mostra di Jeffrey Kipnis alla galleria dello SCI-Arc di Los Angeles analizza l’evoluzione del rapporto che l’architettura ha con il suolo, nonché le relative lotte di potere e implicazioni politiche.
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- Katya Tylevich
- 30 gennaio 2014
- Los Angeles
In “Figure Ground Game” – la mostra dello SCI-Arc, il Southern California Institute of Architecture di Los Angeles, di cui Kipnis è curatore in stretta collaborazione con l’architetto Stephen Turk e il suo gruppo di lavoro formato da John Yurchyk, Paul Adair e Ryan Docken – il visitatore si china su un modello di città, per poi percorrerne gli scenari ingranditi dentro lo spazio espositivo e raggiungere il “trenino”, come lo chiama Kipnis, con le sue figure gigantesche. Le strutture in mostra sono adattissime: gli “edifici” sono loquaci quanto accoglienti. Non solo danno il benvenuto al visitatore, ma ne imitano le posture scomposte, le storture, il movimento.
Quando parlo con Kipnis dopo aver visto la mostra, lui ammette che “Figure Ground Game” “strizza un po’ l’occhio all’antropomorfico”, ma il risultato più importante sta in realtà nel modo in cui nasconde questo aspetto ludico. Visivamente e strutturalmente la mostra è un environment decisamente tettonico: le strutture non sono biomorfe e figurative, sono deliberatamente prive di curve organiche. Il loro aspetto familiare è una qualità non intrinseca ma attribuita dal visitatore, che vede ciò che vuol vedere. E, in certo qual modo, non è così che dev’essere una buona opera narrativa? Un suggerimento, un accenno di articolazione di qualcosa che è ugualmente noto e ignoto a tutti, ma in modi molto diversi.
Vado avanti insistendo sulla parola (narrativa) perché questo è il linguaggio in cui “Figure Ground Game” parla della realtà. Nonostante la loro ‘rettitudine’ architettonica (diciamo la loro ‘correttezza’) queste strutture sono personaggi, carichi di emotività, volubili e suscettibili di sbalzi d’umore. Così come definiscono l’atmosfera dello spazio espositivo, le strutture assumono anche l’umore di chi va a vederle e si collegano con i vicini dipinti astratti di Fabian Marcaccio e di Maurice Clifford, oltre che con le bambole create da Beverly Stephens.
Una delle idee alla base di “Figure Ground Game” è il rapporto che l’architettura ha con il suolo: in quanto territorio, proprietà e fondamento. La mostra analizza l’evoluzione di questo rapporto, nonché le relative lotte di potere e implicazioni politiche. In parallelo la mostra analizza il rapporto analogo (talvolta la lotta) che gli artisti intrattengono con la tela.
Per esempio spiega Kipnis che Mies van der Rohe innalzava le sue strutture sul terreno per creare un palcoscenico per i suoi ‘attori’ del mondo reale. E intanto architetti come Zaha Hadid e Rem Koolhaas stanno creando nuovi mondi e disegnando linee sul terreno che dividono l’edificio da ciò che sta al di fuori di esso. Kipnis usa la Central Library di Seattle come esempio di architettura che crea grazie ai suoi muri un ambiente ‘nuovo’, separato da quello esterno, e quindi non ‘locale’. Invece di essere un palcoscenico disponibile a una rappresentazione, un interno di Koolhaas è uno spettacolo a sé.
Non la intendo come una critica ma piuttosto come un commento al modo in cui l’architettura riflette i nostri rapporti, agganciati ai tempi, con il territorio o con il luogo geografico in quanto punti di riferimento nel mondo. ‘Locale’ sembra una parola insincera, com’è usata oggi. Una parola affascinante, il che la rende immediatamente sospetta. Mangia ‘locale’, compra ‘locale’. Una parola totalmente opposta ad altre parole affascinanti, come ‘connettività’, ‘globalismo’, ‘internazionalità’. ‘Locale’ suggerisce una specie di limite, in contrasto con la ‘libertà’ della mentalità tipo ‘la tua casa è il mondo/il web’. E anche assolutamente gli antipodi rispetto alle fonti da cui proviene. ‘Compra locale’ è un’esortazione generale, generica, vaga, che spesso arriva dai grandi protagonisti: catene di distribuzione, grandi aziende e pubblicità.
Perciò l’architettura che si autoproclama ‘locale’ corre il rischio di apparire anche insincera, o per lo meno decisamente pittoresca. D’altra parte va da sé che la buona architettura debba essere consapevole di ciò che le sta intorno, che in qualche modo debba riconoscere e comunicare con ciò che già esiste in un luogo. Perciò è qui dove “Figure Ground Game” raggiunge il risultato migliore, nel tentativo di mitigare l’assurdità del ‘locale’ in un’epoca in cui le cose vengono approvate con un ‘mi piace’ e condivise su scala mondiale, e la tragedia della dimensione generica, noiosa, senz’anima da ‘mondo intero’.
“Fondamentalmente quel che tento di aggiungere alla conversazione è un elemento della sfera narrativa”, afferma Kipnis. “È un’architettura che non è strettamente locale né così astrattamente internazionale da diventare monolitica.” È un’architettura che diventa una specie di personaggio locale. Dopo tutto un personaggio è universalmente riconoscibile, anche se è specificamente riferito a qualcosa d’individuale (una persona, un luogo, un oggetto). Tutti comprendiamo un personaggio, capiamo quando viene messo nei guai oppure quando viene gonfiato. Un personaggio è ‘costruito’. In fin dei conti è anche di fantasia, e la sua fisionomia varia secondo la persona che lo guarda.
Le strutture di “Figure Ground Game” hanno innegabilmente i tratti di personaggi, che sfidano l’onda dell’opinione che percorre le sale della mostra ogni determinato giorno. Certi, per esempio, percepiscono la struttura grigia al centro dello spazio espositivo come una struttura brutalista, mentre altri (soprattutto i bambini) la vedono come una figura del videogame Minecraft: le varie letture sono tanto corrette quanto diametralmente opposte. I personaggi cambiano in relazione all’ambiente, in modo da essere ‘locali’ anche quando il ‘locale’ cambia. Sono parte del mondo e vi si adattano. Dipendono dall’ambiente, anche se gli danno forma.
“Ti è mai capitato di atterrare all’aeroporto di Newark e di vedere fuori dal finestrino l’area delle gru da carico?”, mi chiede Kipnis, ridacchiando prima di chiudere con una battuta. “Sembrano branchi di dinosauri di Jurassic Park. Mi piace il fatto che siano prive di ogni ambizione figurativa: nessuno le ha progettate per questo, ma la rassomiglianza è inequivocabile. In certi termini, l’ispirazione di tutto questo viene da lì.”
© riproduzione riservata
Fino al 2 marzo 2014
Jeffrey Kipnis + Stephen Turk: Figure Ground Game, An Architecturalists Show
SCI-Arc Gallery
960 East 3rd Street, Los Angeles