Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 964, dicembre 2012
Infografica: Simone Trotti
Che gli Italiani siano soliti considerare ciò che avviene nel loro (nel nostro) Paese un'anomalia, non è davvero una novità. Ciò accade pressoché da sempre e, se vogliamo, non sempre a proposito. Tuttavia, se c'è un settore in Italia la cui situazione è innegabilmente singolare, è quello dell'architettura. Da qualche anno, ormai, tra gli addetti ai lavori girano cifre che riecheggiano come mantra inquietanti. È italiano un terzo degli architetti europei, cifra che rappresenta quasi un decimo del totale mondiale. Ci sono più architetti a Roma che in Svezia e Portogallo messi insieme. Sono dati sorprendenti, se si pensa che la categoria è lungi da poter vantare una situazione occupazionale nell'insieme anche solo accettabile. È evidente che, da qualche parte, qualcosa non sta funzionando, o non ha funzionato in un dato momento storico. Ed è altrettanto evidente che una buona parte del problema ha a che vedere con le università.
Sono certa di non far saltare sulla sedia nessuno se azzardo che, da più di qualche decennio, la formazione universitaria in fatto di architettura sta scontando, in Italia, una fase di profondissima crisi. Possiamo anche decidere di non fidarci ciecamente delle graduatorie internazionali, che in ogni caso sono quasi sempre alquanto ingenerose con le università italiane nel loro complesso — in quelle più affidabili, tra le prime 200 università al mondo compaiono quasi sempre solo Bologna e La Sapienza —, ma dovrà pur esserci un motivo per il quale nemmeno le scuole di architettura con una tradizione gloriosa alle loro spalle sono considerate competitive su scala globale. Forse il problema ha una doppia faccia: la tradizione e la scala globale.
Italia: un'indagine sull'accademia
Pur producendo un terzo degli architetti europei e quasi un decimo degli architetti mondiali, la condizione delle facoltà di Architettura in Italia è da sempre considerata in crisi. Un giovane architetto decostruisce lo stato della formazione progettuale in Italia e propone scenari futuri.
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- Rossella Ferorelli
- 02 gennaio 2013
- MIlano
I nostri atenei attraggono meno studenti internazionali rispetto alla media europea, e la scarsità di corsi tenuti in lingua inglese ne è il più ovvio degli indicatori. D'altra parte, anche la mobilità dei nostri studenti è, nel complesso, piuttosto limitata. Il programma Erasmus funziona (ammesso che la Commissione bilancio europea decida di finanziarlo ancora), ma i numeri sono assai distanti, per esempio, da quelli della Spagna, dove peraltro esiste un programma di mobilità interna al Paese — il progetto Seneca — che da noi non ha un corrispettivo. Il risultato è che le occasioni di scambio tra studenti di istituti diversi sono pressoché nulle. Va anche peggio se il confronto si fa con i Paesi scandinavi, dove l'anno all'estero (in genere sabbatico e frequentemente speso fuori dal continente) è una consuetudine diffusissima per i giovani diplomati, che lo utilizzano per emanciparsi dalle famiglie e compiere scelte di carriera più oculate. In Italia, al contrario, non è raro che gli studenti frequentino gli istituti universitari delle città in cui sono nati. Questo dato, che a una lettura distratta può sembrare solo l'accettabile conseguenza di una struttura sociale che attribuisce ai legami familiari un valore molto più forte che altrove, nasconde in realtà un risvolto inquietante: l'università si conforma come prosecuzione dell'istruzione superiore, sostanzialmente senza una vera soluzione di continuità. Ciò è causa, e insieme conseguenza, della proliferazione smodata di istituti sul territorio nazionale. Per limitatezza di storia, influenza culturale e spinta alla ricerca, essi finiscono per somigliare più a licei che a università, vanificando la parte forse più importante della funzione di queste ultime: quella di essere luoghi della sperimentazione, in cui vengono elaborati i progressi teorici e pratici di una disciplina.
Qui, appunto, veniamo a scontrarci col problema della tradizione: una questione fastidiosamente ricorrente nella cultura del Belpaese, sempre affannato alla rincorsa di una smarrita 'identità' dell'architettura italiana che, per quanto possiamo illuderci del contrario, almeno per ciò che riguarda l'insegnamento è ancora sostanzialmente incatenata all'epoca d'oro di Samonà, Rogers e Quaroni. Quando, insomma, l'Italia esportava metodo e cultura. È drammatico dover ammettere che, nonostante si siano succedute ormai quattro generazioni di docenti, il sospirato riferimento di questa ricerca sia ancora, così spesso, il medesimo. Che cosa è avvenuto, nel frattempo, per bloccare questa evoluzione?
L’importanza che la teoria dell’architettura assume in Italia non trova sbocco nelle questioni reali.
Certamente, parte del problema si deve individuare nell'incapacità del sistema universitario nel suo insieme di far fronte, a partire dagli anni Sessanta, alla debordante domanda di formazione superiore che il periodo della contestazione aveva portato, insieme alle altre rivendicazioni di diritti fondamentali delle giovani generazioni. Forse non è nemmeno un caso che i moti del '67 siano partiti proprio da Valle Giulia, dove all'insoddisfazione per l'inadeguatezza del sistema educativo si sommava anche la preoccupazione per le dissennatezze delle politiche territoriali del dopoguerra. Da allora, la proliferazione di "gattopardesche microriforme" (per usare l'ironia di Bruno Zevi, che così si esprimeva in un suo editoriale degli anni Ottanta in L'architettura, cronache e storia ) non è mai riuscita a portare, almeno per l'architettura, nella direzione giusta per una reale revisione dell'insegnamento universitario.
D'altronde, anche ammesso che un intervento istituzionale sia davvero incisivo nella risoluzione di problemi relativi alla cultura accademica di una nazione, per l'architettura ciò potrebbe tradursi esclusivamente in politiche rivolte all'ambiente costruito, cioè alla creazione di un sottofondo socio-economico pronto ad accogliere i nuovi professionisti in arrivo. È quanto è accaduto in Spagna (a un costo che si è poi rivelato altissimo) per ciò che riguarda l'attenzione progettuale verso lo spazio pubblico, palestra eccellente per i giovani architetti. A nulla vale, invece, una continua contorsione normativa, compulsivamente rivolta a cambiare la forma dei regolamenti universitari senza mai rinnovarne profondamente la sostanza, in accordo con un mondo le cui regole sono completamente diverse da quelle su cui le vecchie strutture erano state immaginate.
I nostri atenei rischiano di concentrarsi ossessivamente sul consolidamento di una propria identità basata su tradizioni, a volte anche posticce, affette da una pervicace inclinazione alla gemmazione feudale. È invece desiderabile che gli istituti assumano precise posizioni scientifiche nei confronti di una disciplina, e che attraggano studenti in base a esse, e non alla loro collocazione geografica. Insomma, se proprio i tempi non sono maturi per l'internazionalità, allora che ci almeno sia un'onesta, consapevole e dichiarata settorialità, e non un provincialismo stilistico. Ma se invece i tempi sono — e lo sono — maturi, allora è il caso di ripensare i meccanismi di distribuzione dei poteri accademici, sbilanciati ancora tra l'ordinariato a vita e il precariato della ricerca. È giunto il momento d'importare la figura del visiting professor, ovvero di un professionista che, stimolato da un compenso abbastanza alto da potergli permettere di sospendere almeno in parte la sua attività in studio per un tempo determinato (non più di due o tre anni), porti all'interno dell'accademia la sua esperienza esterna, e possa poi, concluso il ciclo d'insegnamento, reintrodursi nel mercato con un bagaglio sperimentale accresciuto.
Se il timore è quello che un simile meccanismo generi un'eccessiva frammentazione culturale, si cominci a lavorare al contrario, dagli studenti. Ancora una volta guardiamo alla Spagna, dove esistono borse di studio per l'introduzione alla ricerca dedicate a chi ancora studia. L'importanza di un simile strumento è capitale, soprattutto se pensiamo alla diversa accezione che la teoria dell'architettura assume in Italia rispetto all'estero. Il nodo gordiano, in effetti, è proprio questo: l'incapacità tutta italiana di connettere la ricerca alla pratica progettuale, al di là di qualche elegante formula sintattica. In quale caso abbiamo visto l'accademia incidere come un cuneo di avanguardia nelle questioni salienti della città negli ultimi 30 anni? Quale istituto è stato in grado di canalizzare l'enorme capitale intellettuale giovanile che possiede nella produzione di nuovi protocolli spaziali? Se pure sono esistiti laboratori e sperimentazioni interessanti, qual è stato il loro peso a livello nazionale, e quali i risultati al di fuori delle mura dell'accademia?
Certo, è sempre stato vero che le ricerche più interessanti nascono in quei gruppi indipendenti, che si formano proprio in seno alle istituzioni le cui mancanze essi si propongono di denunciare. Ma non possiamo accontentarci, come unico valore aggiunto, di quello che, con finanziamenti ridicoli e riconoscimento minimo, questi movimenti slegati e polverizzati apportano in istituzioni che non riescono a dar di sé altra immagine che quella di pachidermiche macchine di produzione di lauree, di cui persino l'utilità è oggi passibile di discussione. La trasmissione del sapere si sta completamente trasformando, o si è già trasformata. Mentre le scuole di Architettura si attardano sulla sperimentazione di modelli educativi seminuovi, e mentre la società civile riorganizza le sue facoltà cognitive verso la connessione totale, ci sarebbe da domandarsi quale ruolo assumano le riviste. Sono ancora interessate a interagire virtuosamente coi luoghi nei quali dovrebbero generarsi i saperi nuovi, o si è dissolta per sempre quella tensione che forse è stata proprio l'anima degli anni d'oro della scuola italiana? Più questo spazio di coltura intellettuale si restringe, più cresce la sensazione che sia necessario recuperarlo. Per il bene dell'accademia malata, ma anche per quello dell'editoria. Rossella Ferorelli (@r_ferorelli)