Questo articolo è stato pubblicato su Domus 947, maggio 2011
Trent'anni fa, Arata Isozaki progettò una casa e un atelier
d'arte in una stradina a meno di cinquecento metri dall'Oceano
Pacifico, a Venice Beach, in California. Il suo committente era
un amico dell'architetto: Jerry Sohn, un collezionista d'arte di
Los Angeles che, in seguito, la vendette a Eric Clapton. Ancora
oggi, l'elegante residenza di Isozaki riesce a catturare alcune
delle idiosincratiche qualità della California meridionale: in
particolare, il rapporto tra attività culturali (arte, architettura e
musica, per esempio) e paesaggio.
Cliente e architetto sono rimasti amici, scrivendosi per trent'anni
e continuando a farsi reciprocamente visita in Giappone e in
California. Anni dopo, Sohn ha rilevato una proprietà nel deserto,
a circa due ore e mezza a sud-est di Los Angeles. Il sito, adagiato
nella bellezza 'bentonica' di un antico fondale marino ora
asciutto, circondato da pittoresche formazioni rocciose, cactus che
spuntano dal suolo rossastro, alberi di Yucca e artemisia, sorge a
1.500 metri sul livello del mare nel deserto del Mojave, a circa 15
chilometri dal parco nazionale di Joshua Tree e a 50 chilometri a
nord di Palm Springs, città nota per avere una temperatura media
dai cinque ai sette gradi più alta di quella del deserto. Durante il
giorno, la temperatura nel deserto sale fino a 38 °C, ma di notte
scende fino a uno o due gradi sopra lo zero.
Tra cielo e terra
Nel deserto del Mojave, artificio e natura si uniscono nei tre padiglioni totemici disegnati da Arata Isozaki per l'amico Jerry Sohn.
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- Peter Zellner
- 25 maggio 2011
- Pioneertown
Destinata a ranch negli anni Venti e Trenta, la proprietà
comprende un cabanon appartenuto per un certo periodo
all'artista losangeleno Ed Ruscha, che ne ha dipinto le pareti
interne. Sia la casa sia il terreno sono privi di collegamenti alla
rete elettrica, il che significa che l'acqua è fornita da un pozzo,
mentre nell'intera area fognature, elettricità e telefono sono rari
o pressoché inesistenti. Qui illuminare o cucinare con energia
prodotta dal sole o da gruppi elettrogeni a gas è prassi del tutto
normale. Il centro urbano più vicino è un villaggio chiamato
Pioneertown, costruito nel 1946 da Gene Autry e Roy Rogers
come scenografia per un film western.
L'immediata impressione che si prova visitando la proprietà è
il senso di quanto sia isolata, selvaggia e sublime. E risiederci
regolarmente, come Sohn e la sua famiglia fanno due o tre volte al
mese, quando non si trovano a Los Angeles, stimola un profondo
ermetismo. Trascorrere il tempo, aggirandosi tra le imponenti
formazioni rocciose, attraversando letti di torrenti in secca e i
terreni minerari di questa zona, conduce presto a comprendere la
fragilità della California meridionale. Nonostante la vicinanza del
sito a zone più civilizzate, si ha inoltre un senso molto immediato
di come le nostre identità culturali e urbane poggino su teorie
molto esili sostenute da infrastrutture debolissime.
Negli anni Novanta, durante un viaggio in California, Isozaki visitò il sito con il suo amico Jerry Sohn e dormì all'aperto per una notte. La sua intuizione, come egli stesso ha osservato, fu che l'architettura del deserto ha solo il cielo come soffitto e il suolo come pavimento. Nella successiva visita alla proprietà, il committente chiese all'architetto di pensare a una camera da letto all'aperto, per far sì che lui e la sua famiglia potessero avere un luogo in cui dormire sotto la luna e le stelle, pur lontano dai serpenti e dalla fauna selvatica: un luogo nel quale godersi i cambi di stagione e il fresco nelle calde notti d'estate. L'architetto suggerì l'idea di avere la natura stessa come spazio interno, e propose al cliente di realizzare non una, ma tre camere. Dopo alcuni schizzi e scambi di vedute a distanza, architetto e cliente si accordarono sulla costruzione di tre camere di dimensioni diverse in tre punti differenti della proprietà, da utilizzare nelle quattro stagioni.
Le nostre identità culturali e urbane sono sorrette da teorie molto esili, sostenute da infrastrutture debolissime
La prima 'camera', che si incontra allontanandosi dal cabanon, è quella invernale: un semplice, o apparentemente semplice, cubo. Delle tre, la camera invernale rappresenta l'esercizio più architettonico: è un cubo di vetro e cemento completamente chiuso, che misura circa tre metri di lato, con un pannello in vetro di circa due metri per due, inserito come parte del tetto. All'interno, l'architetto aveva pensato di collocare un letto e un armadio disegnati da Man Ray, ma il cliente ha deciso di abolire ogni arredo interno, preferendo dormire direttamente sul fondo in cemento del padiglione, che rimane sorprendentemente caldo anche nelle notti più fredde grazie all'irradiazione del calore del sole immagazzinato durante il giorno.
Su una delle pareti interne l'artista inglese Jeremy Dickinson ha dipinto l'immagine di un giocattolo arrugginito che è stato trovato nel terreno circostante: una piccola autobotte dei pompieri, abbandonata anni prima da qualche bambino e conservata dal deserto. Dormendo in quest'unità, lontani dalla civiltà ma, in qualche modo, parzialmente separati dall'immediata e diretta esperienza della natura, si sperimenta una sorta di vincolo con l'architettura della camera: come se la struttura divenisse una specie di abito per il corpo e la natura potesse essere, in parte, filtrata e, in parte, 'coltivata'.
La camera successiva è quella estiva: una piattaforma in cemento di circa tre metri per tre, montata su un basso muro gradinato di calcestruzzo. Come le altre, è fatta di pannelli preformati in cemento, la cui massa è definita sculturalmente da una realizzazione meticolosa: le sue linee architettoniche inglobate nella forma sono una traduzione non adulterata da due a tre dimensioni. Questa camera, se così si può definire, è un totem: quasi una scultura, quasi un puro gesto artistico, antica e futuristica al tempo stesso. E tuttavia, al di là delle sue qualità scultoree, è assolutamente architettonica, precisa nel suo re-immaginare il modo in cui il corpo può abitare lo spazio tra cielo e terra. Da una parte è una semplice piattaforma, dall'altra tutto ciò a cui l'architettura potrebbe o dovrebbe aspirare. Vale a dire che realizza un matrimonio perfetto tra intenti formali e prestazioni funzionali: niente di più, niente di meno. Al contempo più architettura e meno architettura di quanto serva.
L'ultima camera che si raggiunge, nel punto più basso
formato dal triangolo tra le tre strutture, è quella autunnale
e primaverile. Questa costruzione si libra, letteralmente, tra
un'architettura definita da separazione e schermatura (la camera
invernale) e una identificata da aperture e forme minimali
(la camera estiva). Come le sue sorelle, la camera autunnale e
primaverile è costruita con pannelli preformati di cemento.
La sua forma architettonica, tuttavia, è la più colta, la più
ricercata. È un pavimento che si ripiega a formare una parete verticale, per poi avvolgersi gentilmente in una volta a botte
poggiante su un muro che si alza in perpendicolare. Tra le due
pareti, tre prismi di cemento, due piccoli gradini cubici e un più
grande parallelepipedo di cemento definiscono un luogo per
dormire o osservare la vasta vallata desertica che si stende oltre
la proprietà del signor Sohn.
Sul retro della struttura, sulla parete esterna più lunga, l'artista
newyorkese Lawrence Weiner ha inserito un testo dipinto con
grande minuzia: la scritta OBSCURED HORIZON è ricavata in
maiuscolo con caratteri gialli contornati in rosso/arancio e
incorniciati da una scatola oblunga rosso/giallo. Su entrambi
i lati della scatola l'artista ha aggiunto due identici loop in
corsivo, come due 'e' minuscole o due onde che si rovesciano su
se stesse. Come summa visiva, o diagramma della struttura, non
potrebbero essere più chiare: infatti, catturano perfettamente il
modo in cui l'architetto ha ripiegato e avvolto il suolo desertico
verso il cielo e poi giù verso terra, nel far ciò parzialmente
nascondendo l'orizzonte stesso.
Altrove, Arata Isozaki ha affermato che la casa da tè giapponese crea la natura artificialmente, perciò non è la natura. La teoria opposta, ha suggerito, è considerare la natura come una forma artificiale. Nel deserto del Mojave, i suoi interventi sottili, eppure stabili, in un paesaggio primordiale ci propongono non solo di essere testimoni della delicatezza del nostro rapporto con il Pianeta che abitiamo, ma anche della risolutezza richiesta a qualsiasi struttura che voglia sopravvivere al deserto e sposarsi veramente a tale paesaggio. Nel creare una condizione d'essere che non è né primitiva né eccessiva nel subdolo tentativo di cercare un nuovo paradiso, Isozaki ha trovato il perfetto equilibrio tra artificio (o cultura) e natura. Le sue strutture idiosincratiche, progettate per un amico e committente d'eccezione, propongono la più tesa delle danze tra la dissoluzione della cultura nella natura e la coscrizione della natura stessa quale parte del nostro cosmo architettonico. Ciò sembra molto californiano. La collezione di queste tre camere all'aperto è, senza dubbio, una delle più poderose dichiarazioni architettoniche che io abbia mai incontrato: un'attestazione del profondo senso di autocontrollo di Arata Isozaki come architetto, ma anche della sua coraggiosa ambizione di immaginare che l'architettura possa dichiarare il cielo e l'orizzonte come suo dominio. Peter Zellner. Architetto e docente del Southern California Institute of Architecture
Design architect: Arata Isozaki and Associates
Design collaborator: Yuko Oka
Structural engineering: Lindon Schultz (Summer, Spring/Autumn), Parker Resnick (Winter)
Building contractor: Jason Scharch and Moses Guzman
Construction supervision: Jerry Sohn
Art painted on concrete: Lawrence Weiner "OBSCURED HORIZON"
(Spring/Autumn), Jeremy Dickinson "Nylint Truck" (Winter)
Client: Jerry and eba Sohn