Visto dall'alto, il paesaggio (ex) rurale belga appare come un tappeto costellato dal disegno minuto delle casette suburbane, infinite e personalissime declinazioni del tema dell'abitazione individuale: varietà senza differenze.
Sfoglio con scarse aspettative il magazine della compagnia aerea distribuito dalla hostess. L'articolo sul nuovo museo di Bruxelles dedicato a Magritte si chiude con l'immagine di un dipinto che non conosco, eppure mi è familiare: sullo sfondo di un cielo molto magrittiano si vede un cumulo di edifici (le architetture borghesi di tanti suoi quadri) accatastati gli uni sugli altri in apparente disordine, simili nel disegno ma in sottili varianti di colore e di scala.
Non compare il titolo, ma la didascalia azzarda: "Un commento sull'architettura belga?"
Un cortocircuito mentale crea un nesso tra l'invenzione magrittiana e una foto della MéMé, l'edificio che mi appresto a visitare. I rimandi tra le immagini sono forti, ma concettualmente la distanza è grande.
Nel dipinto di Magritte l'insieme contiene la possibilità di una nuova figura, che però non prende forma: sono elementi omogenei giustapposti senza che tra loro si stabilisca una relazione. L'immagine eterogenea della MéMé invece, secondo l'autore, Lucien Kroll, è frutto di un assemblaggio per empatia delle diverse parti.
Un processo aperto che diventa motivo della sua forma e della sua complessità, non riducibile alla semplice produzione di un oggetto architettonico e nemmeno di un'estetica, bensì prototipo di un rovesciamento radicale dell'architettura.
La MéMé assume quindi la valenza di edificio-manifesto: riconosciuto come "icona dell'architettura democratica", ha consacrato Kroll paladino dell'architettura partecipata.
Tuttavia il suo ruolo non si esaurisce nell'ambito, pure rilevante, della partecipazione.
Oggetto di culto e di attacchi feroci, l'edificio nel campus di Woluwe-Saint-Lambert è una presenza destabilizzante nelle vicende dell'architettura del secolo ventesimo: e, vero e proprio objet bouleversant, rivela sorprendenti analogie con pratiche più consuete all'ambito dell'arte contemporanea.
L'invention collective
La partecipazione è questione complessa, ci ricordava Giancarlo De Carlo, sottolineando come l'attitudine comunicativa dell'architettura fosse potenzialmente a disposizione di tutti.
La comunicazione attraverso l'architettura è atto eminentemente politico, sostiene Kroll: l'architetto agisce come catalizzatore di un processo creativo e sociale dinamico, rispetto al quale mette a disposizione il suo sapere per tradurre le relazioni tra persone in uno spazio idoneo. Occorre quindi innescare il processo partecipativo; o, quanto meno, occorre che chi progetta esca da sé e si metta nella posizione dei futuri residenti. Occorre sottrarre l'architettura al dominio esclusivo dell'architetto, indirizzandola piuttosto verso una condivisione, in "un'azione aperta alle nuove necessità e a decisioni sempre provvisorie e incomplete". Insomma, un'architettura-processo (che Kroll definisce
Incrementalismo) non distante da quella Process Art che, a partire dagli anni '66-'67, evidenzia, nel rifiuto di ogni serialità, il processo di costruzione dell'opera e la sua evoluzione nel tempo, con l'impiego dei materiali naturali e industriali più svariati.
Quella Process Art ramificata fino a Joseph Beuys che un tratto biografico, oltre all'impegno ecologista, accomuna a Kroll: nel 1972, quasi in contemporanea, a Beuys viene revocato l'incarico di professore dall'Accademia di Düsseldorf per aver sostenuto l'occupazione della scuola da parte degli studenti, mentre l'Università di Lovanio solleva l'architetto belga dal completare la progettazione del campus per incompatibilità culturale.
Tra il 1970 e il 1972 la Zona Sociale dell'UCL (l'Université Catholique de Louvain) è il teatro di sperimentazioni, di ricerche e di opzioni che Kroll approfondirà negli anni indirizzandosi sempre più verso una considerazione complessiva dell'abitare.
Qui le dimensioni e l'articolazione del programma gli hanno consentito di immaginare un'azione il cui esito supera l'oggetto architettonico verso un'entità dinamica complessa che, "come un tessuto vivente spugnoso", si definisce in una continua relazione di scambio con l'intorno.
In questa chiave assume un ruolo cruciale lo schema della circolazione, dove, alla scala microurbanistica, un intervento attento traccia la rete degli accessi, sovvertendo il disegno del piano con la riduzione di una strada a sei corsie a piccola via di collegamento. La medesima logica di permeabilità sottende, un decennio dopo, l'integrazione al progetto della stazione della linea metropolitana di Alma, l'unica a cielo aperto di tutta Bruxelles, su progetto dello stesso Kroll.
Ma è soprattutto alla scala dell'edificio che si evidenzia la logica del flusso continuo, in un esito tra Escher e Piranesi: nella MéMé "tutto comunica, tutto si apre, gli uni vedono gli altri, s'intendono, si incontrano. Le solette sono aperte da un piano all'altro, i muri si ritagliano, i lucernari sono ovunque trasparenti, i balconi si vedono tra loro. Gli accessi sono multipli: si può venire da dovunque, dalle cantine, dalle soffitte, dalle scale delle terrazze, dalle passerelle".
Questo consente di risolvere in modo diverso anche adempimenti normativi spesso ingombranti come le scale di sicurezza.
È evidente il tributo a un concetto dell'abitare comunitario e a un'idea di società 'trasparente' fortemente legati alle idee di quegli anni.
Tuttavia la Maison Médicale prevede anche delle zone 'opache', gli alloggi 'regolari': istanze diverse, ma contemperate nella costruzione di un progetto collettivo; altra cosa dal "nuovo soggettivismo" che produce personalizzazioni di massa, ipersollecitate dal mercato.
Le grand jeu
Stimolando una conoscenza intuitiva e spontanea, "un gioco dotato di un impatto diretto sulla realtà", si mette a punto una metodologia del tutto originale, che consente di ricreare in vitro una stratificazione storica al progetto, partendo dal rifiuto delle unità canoniche (di funzione, di linguaggio, di tempo).
Ma quale linguaggio? Se con il Moderno regolarità e simmetria non comunicano altro senso che un Ordine snaturante, tanto vale ricorrere a pratiche 'situazioniste' anche in architettura: considerare il primo elemento a caso (come scelto dalle carte da gioco), notare dove è collocato nella configurazione e quali sono le sue caratteristiche specifiche, per poterlo integrare in un contesto generale senza distruggerlo o ridurlo a un'astrazione. Si completa così un mosaico, dove la motivazione del segno è aleatoria. Tutto ciò si traduce, nel caso della MéMé, nel tanto discusso prospetto determinato dall'assemblaggio di finestrature e pannelli diversi (legno, alluminio, ferro), un intero repertorio di elementi costruttivi che utilizza la coordinazione modulare di elementi differenti.
Un'esplorazione-limite delle possibilità creative delle tecniche, in risposta a tante architetture coeve, incapaci di articolare oltre il grado zero gli elementi della prefabbricazione.
"Prima di tutto classificare il paesaggio abitato all'interno di conoscenze umane 'globali', poi parlare dei mezzi di materializzazione: nessuno è inutile allo scopo. Bisognerà reinventare delle relazioni anche con le tecniche diventate artistiche", affermerà Lucien Kroll a margine dell'intervento nel padiglione francese
della Biennale 2006.
Uno di questi mezzi è certamente la natura. I giardini selvaggi impiantati sulle colline di riporto intorno alla MéMé, sotto la guida pioniera di Louis Le Roy, alludevano a un altro processo aperto, un processo naturale autonomo, in quanto la natura contiene al suo interno ogni possibilità di struttura. La paura di perdere il controllo sul processo da parte dell'Istituzione ha prodotto 'normalizzazione', anche botanica, ma non ha cancellato tutte le tracce. Alberi d'alto fusto oggi svettano irregolari sulle colline, dando la misura del tempo trascorso.
Non è il tempo a fare paura a questo progetto, che reca visibili nella costruzione tutte le tracce delle fasi di sviluppo, in una sorta di archeologia preventiva. Negli anni si sono susseguiti interventi incongrui e irrispettosi da parte dell'Università, che non ha mai voluto riconoscere il valore di questa architettura.
Paradossalmente, la MéMé andrebbe riconosciuta come "monumento" e sottoposta a tutela, non tanto per congelare il processo quanto per evitare lo scempio. Porte chiuse, passaggi bloccati, passerelle inutilizzate, come un laccio emostatico oggi bloccano il fluire della vita: forse, più che apporre vincoli, andrebbe riconosciuta la legittimità del travaso da una differenza all'altra. Quella continuità nella differenza che Lucien Kroll legge proprio nel frammentato paesaggio belga.
Raffaella Poletti
Lucien Kroll: una utopia interrotta
Una visita alla MéMé dopo 40 anni. Icona del progetto partecipato, questa generosa architettura aperta e volutamente incompleta è sempre stata contrastata da tutte le istituzioni
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- 03 dicembre 2010