L'entusiasmo che il Brasile suscita un po' ovunque, anche per la sua capacità di fare i conti con la Storia – lo scorso 31 ottobre, Dilma Rousseff, che negli anni della dittatura militare fu dichiarata terrorista e, come tale, incarcerata e torturata per tre anni, è stata eletta Presidente della Repubblica – ha contagiato con due mostre la Triennale di Milano. Da una parte, il percorso creativo dei fratelli Campana, raccontato in "Anticorpi. Antibodies. Fernando e Humberto Campana 1989-2010" (fino al 16 gennaio 2011) e, dall'altra, a cinquant'anni dalla sua inaugurazione, l'epopea eroica di "Brasilia. Un'utopia realizzata 1960-2010" (fino al 23 gennaio 2011).

Curata da Alessandro Balducci, Antonella Bruzzese, Remo Dorigati e Luigi Spinelli, la mostra possiede il pregio della sintesi e della chiarezza, mette a disposizione dei visitatori, che non appartengano necessariamente ai circoli dell'architettura, gli strumenti necessari per ricostruire a posteriori un'impresa collettiva che fu in grado, in tre anni, di erigere una capitale di nuova fondazione. Una vicenda che ebbe delle gravissime conseguenze sull'economia brasiliana, provocando, in seguito, una fortissima inflazione, ma che dovrebbe interessare i cittadini milanesi, in procinto di ospitare nel 2015 l'EXPO.

Non si può capire la storia di Brasilia se non si parte dal motto che campeggia sulla bandiera verde-oro del Brasile: "Ordem e Progresso" (Ordine e Progresso). Può sembrare in completa antitesi con lo stereotipo che ci siamo fatti di questa nazione, ma fu esattamente la volontà testarda di avere per tutti – dagli eredi dei colonizzatori europei ai discendenti degli schiavi africani – un sentimento comune di modernità che nacque l'idea di una nuova capitale. A noi, italiani ed europei, può sembrare surreale, ma non abbiamo, sicuramente, gli strumenti per comprendere i meccanismi psicologici del presidente Juscelino Kubitschek de Oliveira, nato nel 1902 a Diamantina, un paesino nello stato di Minas Gerais, che decise di regalare la speranza di un futuro migliore e condiviso con un gesto senza precedenti: tracciò nella terra rossa di un altopiano dello stato di Goias un segno a forma di croce, punto centrale del Plano Piloto di Lúcio Costa.

Allestita da 46xy (nome d'arte di Mario Piazza, architetto e grafico), la mostra è organizzata in quattro sequenze orizzontali che raccontano, dal basso verso l'alto, a partire dal 1763, l'evoluzione di Brasilia, in parallelo ai fatti più significativi della storia brasiliana (tra cui, i curatori non dimenticano le cinque vittorie ai Mondiali di calcio) e a una serie di documenti storici, lettere, schizzi, foto d'epoca che riguardano più da vicino l'opera di Lúcio Costa, Oscar Niemeyer e Roberto Burle Marx: il meraviglioso paesaggista di Rio de Janeiro che disegnò, tra gli altri, i giardini del Ministero dell'Esercito e del Palazzo di Itamaraty, ma che stranamente non viene mai citato da Niemeyer nella sua autobiografia Le curve del tempo (The Curves of Time, Phaidon).

Le pareti della mostra, che esibiscono pochissimi materiali originali, sono rivestite con un gigantesco wall-paper che mescola, secondo una precisa scala gerarchica, disegni, citazioni, fotografie. In alto, il presente di Brasilia così come l'ha visto il fotografo olandese Iwan Baan: le sue immagini, tratte dal libro Brasilia-Chandigarh. Living with Modernity (Lars Müller Publishers), ritraggono una città luminosa, nella quale i contrasti sociali si affiancano all'intensità con la quale, nonostante tutto, i brasiliani vivono da sempre. E se il Brasile ospiterà nel 2014 i Mondiali di calcio e Rio de Janeiro, per la prima volta nella storia in una città del Sudamerica, le Olimpiadi nel 2016, il merito, forse, è anche dei visionari che costruirono, in soli tre anni, Brasilia. Vedremo Milano alla prova. Laura Bossi