di Anna Cornaro
Fotografie di Makoto Yoshida

Nell’Atelier Tekuto, l’immagine diventa progetto costruito, percorrendo ogni volta un approfondimento tecnico diverso: un’etica del fare costante e infaticabile. Ogni progetto rappresenta un’occasione per fabbricare e spesso prefabbricare, con diversi materiali; sperimentare nuove tecnologie, che non sono mai ‘alte’, ma piuttosto affascinanti ed efficaci meccanismi, come giocattoli per bambini che sfidano le convenzioni strutturali, con semplicità e senza pregiudizi; domande a semplici risposte sul funzionamento delle cose, che pur servendosi di materiali e tecniche industriali, restituiscono sempre un carattere artigianale all’architettura, una manualità che non è letteralmente fisica, ma talvolta solo mentale ed è in grado di ripercorre la costruzione passo a passo, prefigurarla pezzo dopo pezzo.

Le innovazioni praticate da Atelier Tekuto sembrano ripercorrere concettualmente gli stessi principi cha hanno alimentato il cammino della tecnologica in Giappone nel periodo Tokugawa (1603-1868), così abilmente descritto da Tessa Morris-Suzuki, un percorso punteggiato da una cadenza costante di micro-innovazioni basate su tecnologie invisibili maturate nelle menti degli artigiani, piuttosto che sull’introduzione di grandi macchinari e mezzi sofisticati.

Yasuhiro Yamashita, 45 anni, leader dello studio, non è nato a Tokyo, città in cui lavora e dove ha realizzato quasi tutte le sue architetture; la sua infanzia, vissuta ad Amami-Oshima, isola a sud di Kyushu, ha lasciato in lui sogni e ispirazioni di bambino, suggestioni di paesaggi. Nel suo lavoro, quelle sognanti suggestioni, quelle ispirazioni libere, trovano espressione in una “architettura del possibile” priva di qualsiasi utopia, ma non per questo orfana di poesia. Ogni casa ha un nome proprio, che contiene in sé la radice di ogni ispirazione, il sogno, ogni volta diverso. Quel nome accompagna tutto il processo, come fosse un appunto da tenere sempre a mente, un sogno da condividere con i clienti e gli ingegneri, da confrontare con i costi ed i tempi di costruzione, un’architettura che si misura con il reale e sa sempre trovare, nelle difficoltà tecniche, come negli impedimenti economici, l’entusiasmo del progettare, il concime di cui nutrirsi.

Yamashita condivide questa propensione con Masahiro Ikeda, architetto/ingegnere, o piuttosto, come lui stesso ama definirsi ‘integrista’ che, formatosi alla ‘scuola’ della Mediateca di Sendai, dal 2000 ha collaborato alla progettazione di alcuni degli edifici realizzati da Atelier Tekuto. Per lui, l’architettura è “un’integrazione non lineare tra materiali”, in cui il concetto di materiali abbraccia non solo la sostanza di cui è fatto l’edificio, ma anche le qualità ambientali (luce, aria, temperatura) e i fattori esterni (clienti, progettisti, consulenti, costruttori).

Entrambi dunque lavorano sulla lettura attenta della realtà. Yamashita la osserva con occhi ingenui, registrando ciò che a volte viene dato per scontato dal senso comune, e la traduce attingendo ai più svariati bagagli costruttivi, dai quali poi si distacca per giungere a soluzioni innovative, elaborare tecnologie immaginarie, risultanti da una sapiente miscela tra tutti i ‘materiali’ disponibili.

Così nella serie PC Project, vengono utilizzati i codici del cemento prefabbricato e precompresso, gli stessi usati da Maekawa e Masato Otaka in passato e più di recente riletti da Riken Yamamoto con rinnovata vitalità, ma Yamashita li spoglia di significati culturali, eredità storiche, tradizioni e convenzioni; prima attraverso un processo di learning by doing, tipico della cultura giapponese, li approfondisce e sperimenta in progetti in cemento armato, come la Jyu-Baco House, poi li reinterpretata completamente, in una continua rincorsa del sogno che lo porta ad applicare la precompressione a componenti modulari in alluminio estruso (aLuminum House, 2004) o a pannelli prefabbricati in legno (Ref-ring, 2004).

Una rilettura di una tecnica industriale, per alcuni aspetti in chiave artigianale, per quel applicare la precompressione direttamente sul cantiere, seppur a componenti prodotti in fabbrica. La serie Skin-House, di cui Cell Brick e Layers fanno parte, raccoglie tutto il senso dell’edificio nella propria pelle: talvolta essa appare completamente opalina, come nell’estrema, Lucky Drop (2004), talvolta più scintillante, come nelle superfici in vetro-cemento di Cristal Brick (2004). Anche in queste piccole case il dato tecnico è requisito fondamentale, ma esso è sempre in grado di trasformarsi in nota poetica. Ancora una volta il processo creativo, parte da tecnologie costruttive conosciute, ma le trasfigura a tal punto da renderle assolutamente irriconoscibili e capaci di evocare mondi immaginari.

In Cell Brick (2004) il mattone si trasfigura nel materiale, nel peso, nella misura e nella consistenza volumetrica, sino a trasformarsi in una scatola portante in acciaio dalle dimensioni di 900x450x300mm, che costituisce il componente minimo della parete portante. Come nelle architetture dei templi buddisti, dove ritmici sistemi di mensole sempre identiche sostengono aggettanti coperture, la figuratività dell’edificio è tutta restituita dalla sua struttura, mai un dualismo tra ciò che è necessario e ciò che è decorativo, ma piuttosto la ricerca di un’estetica tutta contenuta all’interno di un componente tecnico. In Layers (2005), la struttura in legno, di derivazione americana two-by-four, cambia nelle misure (two-by-eight, two-by-twelve) e diviene ‘armatura’ di un pannello prefabbricato di grandi dimensioni, in fibre di legno mineralizzate. Sia nell’una che nell’altra, l’involucro non è solo rivestimento dell’edificio, ma di esso ne è anche la struttura ed allo stesso tempo l’arredo, ricordando quella integrazione forte tra piccola e grande scala che ha caratterizzato l’architettura domestica giapponese sin dal XVI secolo.

Le superfici di questi due edifici sono, da un lato, silenziosi emettitori di luci ed ombre in movimento e dall’altro, ricettori della vita di chi vi abita, diaframmi tecnici e poetici allo stesso tempo che mettono il quotidiano vivere degli interni, in labile contatto con il casuale farsi della città. Strutture, tanto sottili da apparire fragili, in Cell Brick; tanto spartane, da sembrare non finite, in Layers, trasformano le pareti in accumulatori del quotidiano: gli scaffali che le compongono vengono a poco a poco colonizzati in un processo che porta l’abitante ad appropriarsi progressivamente dell’architettura, rendendo il confine dello spazio domestico un diaframma vissuto che assottiglia la distanza con il mondo esterno.

Cell Brick e Layers, per alcuni aspetti tanto diverse, sono dunque capitoli di uno stesso racconto, si potrebbero definire complementari, due partiture musicali in successione. Cell Brick è matematica: sommatoria di elementi base, ognuno della stessa dimensione, aggregati secondo un ritmo ricorrente (a-b-a-b), la tessitura esterna e la partizione interna assolutamente coincidenti. Layers è disarticolata come lo sono gli attori, il coro e l’orchestra in un’opera no. La sua epidermide strutturale si scompone in strati epiteliali differenti, sovrapposti in modo casuale e non coincidente. Qui interno ed esterno appaiono volutamente scoordinati, ma se nel teatro no la mancanza di anaforicità è costante per tutta la narrazione, in questo piccolo edificio, essa sembra essere ritrovata, pur se solo per un per un attimo, nell’unica finestra sul fronte principale. L’esterno si scompone in un patchwork di lamiera grecata, pannelli in vetroresina bianchi, vetri trasparenti. Il volume esterno sembra essere la ricomposizione dei fogli di un okoshiezu: in Layers, come nei plastici di carta piegata, su cui sono disegnate le case del tè giapponesi, ogni prospetto appare composizione tutta bidimensionale, ciascuno di essi è caratterizzato da una diversa partitura la cui continuità è restituita solo da poche linee interrotte. L’interno si complica di mensole e montanti, piani traforati, pannelli opalini.

Superfici senza gerarchia, né simmetria, che si riverberano anche nei solai, creando spazi avvolgenti in cui le pareti si confondono con i soffitti, lasciando a chi vi abita il piacere della scoperta di un’esperienza insolita. Cell Brick conquista per l’eleganza del bianco assoluto delle sue pareti, punteggiate dalle aperture rettangolari come piccole lanterne, la raffinatezza nell’alternanza, senza incertezze, del trasparente/opaco. Layers è ruvida, artigianale anti-graziosa, il suo fascino è nella imprevedibile sorpresa: la scoperta di piccoli affacci in reconditi recessi dei suoi infiniti scaffali, mai identici; l’inaspettata apparizione di finestre opalescenti che si illuminano al tramonto di un bagliore incerto, come lucciole, su bianche lastre continue in vetroresina. In Cell Brick, tutto appare chiaro: la parete perimetrale è anche separazione tra un dentro ed un fuori, tra lo spazio pubblico e quello privato, il corpo scala circolare, tutto interno all’edificio, mette in comunicazioni i vari livelli di una stessa abitazione, senza ambiguità. Layers ancora una volta confonde e stupisce. Incanta per quella sua scala tutta interna e pure inaspettatamente a cielo aperto, turba per quella distribuzione su tre livelli e mezzo, a cui sono fatte corrispondere due abitazioni.

In Cell Brick l’involucro è struttura e arredo, costituita di solo acciaio, che grazie all’uso di una speciale vernice ceramica, messa a punto dalla NASA, non subisce il surriscaldamento dovuto al soleggiamento. I quattro strati di Layers, ciascuno di un materiale differente, compongono un involucro che non solo separa, arreda e sostiene, ma diviene anche sistema meccanico per la circolazione dell’aria di condizionamento e riscaldamento. In ciascuna di queste abitazioni, progettate da Yamashita, tecnica ed immaginazione sono in grado dunque di fondersi mirabilmente, questi inusuali edifici non sono isolati esercizi di bravura, ma terreni di sperimentazione, prototipi che arricchiscono lo studio di nuove esperienze e lo proiettano in direzioni differenti: da una parte i loro codici vengono scomposti e risistematizzati nella lunghissima serie Project 1000, case a costo contenuto, frutto di una costante collaborazione tra produttori industriali ed artigiani; dall’altra essi si fanno terreno fertile per un nuovo percorso verso competizioni internazionali, nelle quali Atelier Tekuto ha saputo già dimostrare di poter trasferire immaginazione, creatività e competenza, un esempio tra tutti, il progetto vincitore per l’Eco-Center di Busan (Corea, 2004), dove il sogno di un grande spazio, in cui pareti, pavimenti e soffitti si trasformino in superfici avvolgenti multisensoriali, ancora una volta è coltivato nella tecnica, quella di pannelli in legno precompresso.