È mezzanotte a Bushwick, Brooklyn. C’è una piccola folla radunata su Irving Avenue, proprio di fronte alla Dordor Gallery. È la festa d’inaugurazione di “Metaphysical”, una ’mostra fisica+NFT’, dice il volantino che mi ha portato qui. Striscio 10 dollari con la carta di credito ed entro. Lo spazio è fondamentalmente una grande stanza bianca con un retro. Sulla parete destra, incorniciate nei monitor, opere d’arte digitali, mentre una serie di dipinti sono appesi dall’altra parte. Dietro il bar, che taglia in due il locale, c’è la festa vera e propria, con un DJ, tanta gente che balla, musica ad alto volume. È fine luglio 2021, e New York sta appena uscendo da un inverno pandemico lungo un anno e mezzo.
Bushwick 2021: dove sono finiti gli artisti?
Una decina di anni fa, quest’area di Brooklyn è passata dall’essere una delle zone a più alta criminalità di New York a uno dei quartieri più cool del mondo, grazie alla sua scena artistica. Cosa ne rimane oggi, dopo la pandemia?
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- Alessandro Scarano
- 14 ottobre 2021
Da Mosca a Bushwick
Il giorno dopo, ho appuntamento con Ekaterina Ovodova, Ceo e co-proprietaria della galleria, una giovane donna russa che parla correntemente inglese e che tutti qui chiamano semplicemente Catherine. “Metaphysical è una mostra che presenta arte digitale e fisica degli stessi artisti”, mi spiega. Uno di loro, un tipo smilzo di uno stato del sud che probabilmente ha la metà dei miei anni, mi mostra una galleria virtuale sul suo display iPhone Pro Max, ospitata su bitski.com, dove le opere d’arte sono appese alle pareti di una replica digitale della Dordor Gallery. La galleria si è trasferita da Mosca a Bushwick dopo essere diventata famosa a livello globale a causa di una mostra che documentava i pestaggi di massa dei civili nelle città russe, che ha aperto il giorno del compleanno del presidente Putin, nell’ottobre 2019. “Tutti parlavano di noi a Mosca. Ma volevamo comunque far sentire la nostra voce”, dice Ovodova, spiegando la decisione di aprire a New York.
La Dordor Gallery di Bushwick ha inaugurato poco prima del Covid, e quindi ha chiuso quasi subito dopo, per riaprire la scorsa estate. “Però la gente aveva ancora paura all’epoca”, nota la Ceo. Ma aggiunge che le cose ora sono cambiate, e la settimana scorsa un evento di fotografia ha radunato quasi 500 persone tra la galleria e il marciapiede che c’è davanti. A proposito di Bushwick, Ovodova mi spiega così perché questo è il posto giusto dove stare: “Ogni volta che entravo nelle gallerie di città, sentivo lo snobismo. Qui stiamo costruendo una comunità”.
Ogni volta che entravo nelle gallerie di città, sentivo lo snobismo. Qui stiamo costruendo una comunità
Bushwick, 2021
Situata nel nord di Brooklyn, Bushwick, in origine una città olandese indipendente, condivide i suoi confini con quartieri più celebri come Williamsburg, epicentro mondiale dell’hipsterismo all’inizio del millennio e poi rapidamente imborghesito, o Bedford-Stuyvesant, quartiere dove sono nati rapper come Jay-Z e Notorious B.I.G, e il regista Spike Lee. Bushwick ha avuto il suo momento di gloria durante gli anni ’10, quando si è trasformato da una zona povera ad alta criminalità nella nuova mecca artistica di New York. La street art ha avuto un ruolo cruciale nel rilancio, ed è stata spinta soprattutto dal Bushwick Collective, una vasta galleria all’aperto creata da un ragazzo del posto, Joseph Ficalora, come reazione al degrado della zona, all’assassinio di suo padre e alla morte di sua madre. Ogni anno, a giugno, il Collettivo organizza un celeberiimo block party, e artisti provenienti da tutto il mondo ridipingono una parte dei muri di Bushwick. Quest’anno è stato rimandato a settembre a causa dell’emergenza sanitaria.
L’arte è sovrabbondante a Bushwick, a volte ti sovrasta. I murales sono giganteschi e ovunque. Alcuni sono dedicati storie o personaggi locali; altri sono pubblicità di marchi come Vans o Chanel o aziende di birra. Ma questa è solo la faccia più celebre di questa zona; nella sua anima c’è molto altro. Bushwick è una delle zone culturalmente più eterogenee di New York. Al Maria Hernandez Park persone provenienti da mezzo mondo leggono sdraiate sull’erba, mangiano qualcosa su una panchina, giocano a una peculiare variante della pallamano nei campi da squash, o si radunano per fare il tifo intorno alle partite di una evoluzione della pallavolo in cui si usano i palloni da calcio.
Ci sono molti bar, molti ristoranti, con cucine proveniente da tutto il mondo. Si sentono più conversazioni in spagnolo che in inglese. Il volume della musica è sempre alto: arriva dalle auto con i finestrini abbassati, così come dagli altoparlanti portatili che la gente si porta dietro. Le notti del fine settimana sono intense. Le strade non sono pulite. Le caffetterie piene di neo-hipster, che lavorano o parlano via Zoom con i loro MacBook, Chromebook e iPad. Umanità eterogenee scorrono in strade come Knickerbocker Avenue, Jefferson Street, Wyckoff Avenue. In quest’ultima, si incontrano spesso medici e paramedici con le loro uniformi blu e verdi. La prima morte Covid-19 di New York è avvenuta qui, a Bushwick, al Wyckoff Heights Medical Centre, e il claustrofobico isolamento che ne è seguito non è stato solo una tragedia, ma anche un test per verificare quanta dell’energia che si respirava nel decennio precedente è ancora viva.
Dove sono finiti gli artisti?
“La comunità artistica era enorme qui a Bushwick circa dieci anni fa, ma ora non c’è più”, mi dice Deborah Brown, un’artista che 40 anni fa è venuta a New York City dalla California per studiare, e poi non se ne è più andata. Qui a Bushwick ha precorso i tempi ed è stata una persona di riferimento nella scena dell’arte e delle gallerie. Siamo al confine settentrionale del quartiere, una zona che qualcuno chiama Morgantown, un paesaggio industriale apparentemente deserto, ma coloratissimo, per lo più di capannoni a uno o due piani, in cui non c’è un singolo centimetro di muro libero dalla street art, e dove solo un ulteriore sguardo rivela una galassia nascosta di negozi di dischi, bar e studi di artisti. L’accesso alla casa di Brown è proprio una poltrona di Narnia, un cancello di metallo su un muro anonimo da cui si entra in una casa vasta e ordinata, dove tutto è curato nei minimi dettagli, e un tavolo rotondo di legno sta al centro di una grande stanza, completamente vuota se non per i quadri ordinariamente appoggiati alle pareti, il tavolo stesso e qualche sedia. Un cane viene ad accogliermi all’ingresso. “Si chiama Trout, come in Trout Street, non lontano da qui: è dove l’ho trovata 13 anni fa”, mi dice Brown.
L’artista vive nel quartiere dal 2005, e a quel tempo, ricorda, “non c’era nessun’altra donna bianca della mia età”. Era una zona pericolosa, ma con affitti economici. Beviamo acqua da bicchieri appoggiati su piastrelle messicane colorate. Non più di 10 anni fa questa stanza, mi spiega Brown, era la sua galleria d’arte. All’epoca aveva organizzato anche una mostra site-specific curata da Karin Bravin, che me l’ha presentata. Prima che chiudesse la galleria nel 2014, la comunità artistica di Bushwick era enorme, mi spiega. Ma non è durata a lungo. Gli artisti si spostano sempre a New York, cercando affitti più economici e spazi più grandi. Per anni, spiega Brown, hanno seguito l’L-train, la linea della metropolitana che collega Lower Manhattan a East Brooklyn. Così, all’inizio del secolo, si sono trasferiti dal Lower East Side a a Williamsburg. E poi, circa dieci anni fa, qualcosa è qualcosa a Bushwick.
La comunità artistica era enorme qui a Bushwick circa dieci anni fa, ma ora non c’è più
“La mia galleria è stata la prima ad avere una recensione sul New York Times”, ricorda Brown, “ma ce n’erano una quarantina, all’epoca”. Tutte quelle gallerie erano piccoli spazi, adiacenti a dove gli artisti vivevano e lavoravano, aperti al pubblico nei giorni del fine settimana. Non erano spazi d’arte scollegati, ma una vera comunità, una piccola città di artisti dentro New York. E la gente veniva a vederle da tutto il mondo. Dove sono andati tutti gli artisti? Brown spiega che alcuni di loro sono ancora qui, e fa nomi come Rashid Johnson, Rita Ackerman e Eddie Martinez. E ci sono alcune buone gallerie commerciali. “Ma la gentrificazione e l’immobiliare hanno invaso Bushwick”, e quell’incredibile atmosfera della scorsa decade, secondo la pittrice, è sparita per sempre.
Ridgewood: la nuova frontiera?
Jonathan Toubin mi accoglie all’ingresso del Tv Eye, il suo locale a Ridgewood. Fuori è buio, dai cortili arrivano echi di musica e di gente che chiacchiera. In questa strada ci sono alcuni bar e una palestra di boxe chiusa a quest’ora. Sulla via principale ci sono altri bar e gruppetti di persone. Siamo a un isolato da Bushwick, ma nel Queens. La linea L dista 2 minuti a piedi.
“Abbiamo passato anni a risparmiare per aprire questo posto in questa zona”. Quando chiedo perché qui, Toubin spiega che chi fa musica non commerciale, musica underground, non può più permettersi di stare a Manhattan. Ridgewood è dove si sono trasferite “tutte le persone che ci piacciono, giovani e anche di mezza età come me”, dice con un leggero sorriso sul volto, facendomi fare il giro delle diverse sale del club, presentandomi i baristi e chi lavora nella cucina che si affaccia sull’affollato cortile interno, e finendo il nostro tour sedendoci a uno dei tavoli del bar contiguo al backstage. Intanto sul palco stanno suonando.
Il Tv Eye aveva aperto poco prima della pandemia, e durante il lockdown ha dovuto adattarsi per sopravvivere. “Ci siamo trasformati in ristorante all’aperto per un anno e mezzo, abbiamo costruito tavoli da picnic nel cortile, tutti dovevano essere seduti e distanziati”. Originario di Austin, Texas, Toubin è un uomo alto e snello, una nuvola di capelli che incornicia il suo volto attento. “Abbiamo riaperto come club a fine giugno, i primi giorni di luglio”. Come è stato? “Strano”, dice: “mi sembrava di non essere più bravo a fare il dj”. Ma è stato anche fantastico, aggiunge: “È stato così bello che volevo piangere”. Nota bene: i set di Jonathan Toubin sono leggendari, ed è stato ripetutamente nominato tra i più talentuosi disk jockey di New York da riviste come Vice e Rolling Stone. Ma per un anno e mezzo, durante il lockdown, mi dice di non aver guadagnato un solo dollaro come DJ.
Puoi cambiare ciò che non ti piace, ma per le cose che non puoi cambiare, semplicemente ti adatti alle circostanze
Posso apprezzare il suo enorme talento la sera seguente, quando mette i dischi dopo un’incredibile serie di tre concerti che trasformano la sala principale del Tv Eye in un paradiso del rock and roll, con persone di ogni età e genere e aspetto che ballano e fanno addirittura bodysurfing, il tutto con un’energia che credevo seppellita all’inizio del nuovo millennio. Completamente vestito di bianco, Toubin mixa il groove con l’empatia, sovrastando una piccola folla di persone che volteggiano in pista da una piattaforma leggermente rialzata, situata nell’angolo della sala da ballo più lontano dall’ingresso.
A un certo punto, durante la nostra conversazione, Toubin mi ha confessato che c’era anche chi era convinto che il Covid avrebbe portato una rinascita della cultura underground a Manhattan. Ovviamente, non è successo. “Ma non mi lamento mai della situazione”, dice, e questo è qualcosa che rappresenta perfettamente l’approccio alla vita che così spesso si ravvisa parlando con i newyorkesi: “Puoi cambiare ciò che non ti piace, ma per le cose che non puoi cambiare, semplicemente ti adatti alle circostanze”: più che una semplice frase, suona come un motto per tenere il passo di questa città costantemente in evoluzione.
Tutte le immagini in questo articolo sono state scattate con una Fujifilm X-Pro3, gentilmente prestata dal marchio. Immagine di apertura: un murale di David Puck e Jason Naylor, con protagoniste Gabri e Shanna di @27travels