Dopo mesi di isolamento e lezioni da remoto, finalmente anche il mondo universitario sembra pronto a riappropriarsi dei suoi spazi fisici, tornando a ripopolare aule e laboratori. Il mondo della didattica si porta certamente a casa un bagaglio di sapienza digitale, facendo però i conti con una vera metamorfosi del linguaggio universitario. “Penso che una delle cose interessanti del vivere in una delle città più diversificate al mondo, è che siamo diventati l’occhio del ciclone. Ero appena diventata il nuovo preside di un’università in una metropoli radicalmente sfidata dalla pandemia” ci racconta la preside del Pratt Institute School of Architecture Harriet Harriss, nominata per la carica nel 2019. “Quando ci siamo spostati in un contesto virtuale, il presupposto era che tutti gli studenti avessero la stessa esperienza di apprendimento a distanza, lavorando quindi per creare risorse e rendere accessibile a tutti l’accesso a nuovi strumenti richiesti. Abbiamo ad esempio reso fruibile un modello virtuale dell’intera scuola, una sorta di prototipo del nostro edificio reale: gli studenti, anche se era ancora remoto, potevano entrare e camminare nell’edificio e partecipare alle revisioni in un ambiente online.”
È stato incredibilmente importante per noi iniziare a pensare a modi per dare agli studenti una maggiore capacità di coordinare il proprio senso di comunità autonomo dalle loro interazioni con i professori
Ma se la pandemia e i relativi periodi di quarantena hanno stimolato, quasi forzatamente, lo studio di nuovi strumenti virtuali e totalmente da remoto, gli ultimi mesi si portano dietro anche una diffusa preoccupazione per la salute mentale di migliaia di studenti isolati o costretti a tornare nelle proprie città natali. “È stata una sfida importante, da cui nasce la volontà di costruire una comunità, cercando modi per aiutare le attività non solo didattiche, per recuperare tutte quelle micro-dinamiche sociali perse” continua Harriss. “È stato incredibilmente importante per noi iniziare a pensare a modi per dare agli studenti una maggiore capacità di coordinare il proprio senso di comunità autonomo dalle loro interazioni con i professori.” Una nuova fiducia digitale, quindi, grazie alla quale studenti, per la maggioranza born-digital, hanno improvvisamente competenze che i professori non avevano, e slitta la tipica relazione unilaterale accademica, nel farli diventare gli insegnanti dei propri insegnanti. “All’interno della nostra scuola si è passati improvvisamente da un senso di comunità circoscritto al campus universitario, a una comunità molto più forte, ma di fatto atomizzata e dispersa in tutto il pianeta.”
Il tentativo di re-branding in chiave digitale sta caratterizzando molto istituzioni culturali. In questa operazione cambia la stessa identità, forse ora coincidente con un profilo Instagram. “Il contributo del regno digitale e dei suoi disallineamenti si può vendere nella quantità di utopismo digitale, elemento fondamentale per tante sfide attuali. Dobbiamo essere cauti per assicurarci di non cadere nella trappola e gridare alla soluzione definitiva, siamo fortemente convinti che dobbiamo essere in grado di alternare tra la comprensione analogica faccia a faccia, e le cose che sono facilitate e in qualche modo curate dalla presenza digitale”. Non c’è infatti neutralità per questi dispositivi e queste piattaforme, le quali creano un universo di relazioni e proposte governate da algoritmi. “La sfida però è interessante, considerando che i nostri studenti sono cresciuti con iPad e iPhone. Prima di poter parlare hanno imparato a dialogare con la tecnologia: in un certo senso sono una sorta di cyborg. I dispositivi tecnologici sono protesi, un’altra versione di un arto o un senso, ed è sia distopico sia meraviglioso”.
La sfida però è interessante, considerando che i nostri studenti sono cresciuti con iPad e iPhone. Prima di poter parlare hanno imparato a dialogare con la tecnologia: in un certo senso sono una sorta di cyborg. I dispositivi tecnologici sono protesi, un’altra versione di un arto o un senso, ed è sia distopico sia meraviglioso
Sapere a che fare con la tecnologia sarà certamente la più grande sfida dell’educazione nei prossimi decenni, quindi. L’ibridazione che caratterizza il rapporto con gli strumenti digitali, e l’infinita fonte di conoscenza immediata sempre avuta a portata di pollice per i nativi digitali, ha nello stesso momento aiutato a decostruire metodologie di lavoro e pensiero secolari – nell’architettura come negli altri campi del sapere – ricalibrando nello stesso percorso anche la gerarchia di necessità e desideri. “Mi piace, il modo in cui gli studenti, senza lavorare con tassonomie e tipologie prescritte, prendere le nozioni del programma didattico e dicono: “Beh, in realtà, lo userò in un modo completamente diverso”. Non è fatto in modo ingenuo o inconsapevole, ma con un senso di essere stati esposti a così tante cose diverse, che non sentono più come necessarie le infrastrutture e autorità che li circondano, si muovono in qualche modo oltre quei parametri” conferma Harriss. “In realtà non sono più interessati ai simboli, ai beni, ai sacrifici per aumentare il reddito. Sono totalmente disinteressati: sanno già che non potranno mai permettersi una casa, sanno già che non avranno le stesse opportunità dei loro genitori, ma non sono amareggiati. Pensiamo banalmente a problemi vicini a noi, come la povertà alimentare a New York. Come si relaziona con l’architettura? Non stiamo cercando problemi da risolvere, stiamo riconoscendo questioni create da noi. Si tratta di assumersi la responsabilità, sia di discriminazione, sia ambientale, sia sociale. Non stanno cercando di replicare un sistema economico basato su vantaggi creato dai baby boomer, ma sono interessati ad altre forme di esistenza, altri tipi di contributo e altri valori”.
Parallelamente la crisi sanitaria ha rivelato una serie di agitazioni sopite, citando soprattutto la resa dei conti razziale che ha caratterizzato la recente storia politica statunitense. Nell’ultimo anno un gruppo di accademici BIPOC (Black, Indigenous and People of Color) si è riuniuto formando la Dark Matter University, un collettivo che si interroga su come noi, come scuole di design e architettura, stiamo rispondendo ai bisogni di queste comunità” dichiara sul tema l’architetto e assistente Quilian Riano. “Ci siamo riuniti con designer e architetti, riunendo 140 persone nelle istituzioni di tutto il paese in un processo collaborativo e collettivo. Uno tra gli esperimenti più interessanti di questo periodo è la relazione nata tra college storicamente nere, Howard University o Florida A&M, con altre università della Ivy League, come Yale e Columbia”.
Non stiamo cercando problemi da risolvere, stiamo riconoscendo questioni create da noi. Si tratta di assumersi la responsabilità, sia di discriminazione, sia ambientale, sia sociale. Non stanno cercando di replicare un sistema economico basato su vantaggi creato dai baby boomer, ma sono interessati ad altre forme di esistenza, altri tipi di contributo e altri valori
“La tradizionale competitività tra i poli universitari è ormai obsolescenza” si unisce Harriss. “È affascinante vedere come la macchina dell’università si stia trasformando, in una sua versione digitale e più collaborativa. Guardando le sfide che stiamo affrontando, che sia la pandemia o il collasso climatico, non possiamo proseguire isolatamente, ma soprattutto non possiamo risolvere nulla senza la collaborazione interdisciplinare. Allo stesso mondo non possiamo risolvere le sfide dell’educazione architettonica solo guardando gli altri architetti. Dobbiamo essere in grado di giudicare razionalmente le nostre ricerche e le nostre specializzazioni, per permettere un impatto immediato e diretto. Se si guarda all’architettura nello specifico, vediamo delle conoscenze provenire dalle scienze naturali, altre dalla finanza, altre ancora dalla matematica. Per noi la sfida è sempre stata all’interno dell’architettura, una tradizione dell’operare intrinsecamente elitaria. È procedimento che si è rafforzato dagli anni Ottanta, dal capitalismo in fase avanzata, dai motori del neoliberismo. Possiamo tutti criticare i miliardari che vanno nello spazio o altri fenomeni contemporanei, quando in realtà le nostre intere gerarchie nel mondo dell’architettura sono l’impronta di quel sistema di privilegi. L’impegno qui è come cambiare non solo ciò che la pratica produce, ma anche il design della pratica stessa, perché il problema della progettazione non riguarda solo le realizzazioni e i risultati”.
Cosa stiamo facendo per l’equità razziale? Cosa stiamo facendo per le politiche di genere? Gli studenti stanno chiedendo un cambiamento
“Questi studenti stanno davvero cominciando a puntare verso una nuova democrazia radicale, con l’ibridazione e la cooperazione non binaria, una nuova attitudine che esprima sia la identità come moltitudine, sia le specificità di ogni contesto” conclude sul tema Riano. “Vediamo ogni giorno questa spinta negli studenti a reimmaginare il mondo in cui viviamo, ed è un progetto politico in corso. Questo momento di crisi generalizzata mi ha dimostrato che le giovani generazioni sono disposte a guidare. Sono persone interessate e impegnate politicamente, le quali portano un sacco di temi sul banco di classe, magari diversi dal mio bagaglio, ma interessanti proprio per evidenziare le diverse gerarchie di necessità. Per esempio fin dall’inizio, hanno istituito pratiche come chiedere i pronomi alle persone. Non si tratta di ciò che posso insegnare io, ma di pratiche che stanno sviluppando unicamente tra di loro, che cambiano i processi con cui la classe è gestita, ma i risultati cominciato a essere importanti. Cosa stiamo facendo per l’equità razziale? Cosa stiamo facendo per le politiche di genere? Gli studenti stanno chiedendo un cambiamento.”