In un episodio della serie cult “Black Mirror” il protagonista si trova a sperimentare un videogioco che – grazie a un chip innestato nel cervello – va a pescare direttamente nel suo inconscio paure ancestrali, recluse nelle profondità della mente, per renderle visibili come immagini tridimensionali in un crescendo di puro terrore.
Non c’è più scelta
Il modo in cui funziona la maggior parte dei prodotti software e hardware con cui abbiamo a che fare è basato sulla progressiva riduzione della nostra capacità di scelta.
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- Stefania Garassini
- 13 giugno 2017
- Milano
Così il racconto di un futuro distopico vicinissimo a noi mette in scena l’ultima frontiera del rapporto uomo-computer. La nostra relazione con gli schermi e con le tecnologie in generale è sempre meno oggetto di una riflessione razionale e fa sempre di più appello diretto alla nostra emotività e ai nostri istinti. L’obiettivo è determinare in modo preciso i nostri comportamenti: il fatto che cliccheremo o meno su un certo link, apriremo un’immagine o un video, leggeremo o no un certo post. Per farlo occorre individuare i nostri desideri ancora prima che arrivino a un livello di coscienza, quando sono un impasto di pura istintualità, e come tali ingovernabili, perentori. Del resto, è sempre stato questo lo scopo di ogni campagna pubblicitaria ben riuscita, ma oggi ci sono strumenti in grado di determinare in modo “scientifico” che cosa ci piace e di utilizzarlo ai fini pubblicitari.
Com’è noto, la nostra attività sui social media, se opportunamente analizzata, fornisce dati molto significativi a questo proposito – l’ultima polemica su Facebook, rivelata dai media australiani, fa riferimento a uno studio che la società di Zuckerberg avrebbe fatto su giovani e adolescenti per individuare i momenti di maggiore vulnerabilità emotiva e di propensione verso certi comportamenti, come ad esempio la perdita di peso, per utilizzarli a fini pubblicitari.
Ma più in generale, il modo in cui funziona la maggior parte dei prodotti software e hardware con cui abbiamo a che fare è basato sulla progressiva riduzione della nostra capacità di scelta. Tristan Harris, product manager e poi responsabile di etica del design a Google fino al gennaio dello scorso anno, propone un paragone estremo. “Il telefono cellulare – spiega Harris – è una slot machine”, studiata per tenere incatenata l’attenzione del proprio utilizzatore”. Si potrebbe pensare a un diverso modo di progettare questi prodotti – sostiene Harris, attualmente a capo di timewellspent.io, organizzazione che si propone di fornire strumenti per liberarsi da un rapporto di dipendenza verso la tecnologia – in grado di considerare le reali esigenze di chi li utilizza, come ad esempio quella di rimanere concentrati su quanto si sta facendo e non costantemente interrotti da notifiche, che funzionano secondo un meccanismo di “attesa-gratificazione”, in grado di attrarci in modo quasi irresistibile.
Il campo dove quest’attrazione è analizzata più a fondo è quello delle immagini pubblicitarie. Lo scopo è individuare strumenti per valutare in modo millimetrico come viene recepita dal cervello una certa combinazione di forme e di colori e individuare quella più efficace per proporre un prodotto. Per scavare nell’inconscio dei potenziali clienti vengono spesso utilizzati sistemi di visualizzazione dell’attività cerebrale, come la Risonanza magnetica, che mostra la reazione primaria, istintiva, di fronte a un certo prodotto. Si tratta del neuromarketing, un ambito di ricerca e sperimentazione in continua crescita. Uno degli ultimi sviluppi in questo campo è Engagement Insights, messo a punto dalla società di produzione inglese Saddington Baynes, che ha stretto di recente un’alleanza con NeuroStrata, tra i pionieri del neuromarketing.
Senza scomodare strumenti medici complessi, il servizio propone a campioni piuttosto ampi di utenti sul web un test molto semplice e divertente che chiede di esprimere giudizi a proposito di gruppi d’immagini. L’obiettivo non è però avere una valutazione razionale, ma scandagliare quell’area inconscia in cui, secondo quanto riferiscono i fondatori dell’azienda, si decidono per il 95% i nostri acquisti. Una volta ottenuti i dati, i risultati vengono passati al gruppo di neuromarketing, dove vengono analizzati statisticamente in modo da individuare i diversi gradi di risposta emotiva a una certa immagine, determinando così chiaramente cosa funziona meglio, prima ancora che si concluda la fase di produzione. Una delle ultime campagne di Honda ha utilizzato i risultati dei test Engagement Insights per proporre una prova di guida virtuale, tenendo presenti numerosi suggerimenti riguardanti ad esempio la posizione dell’auto, l’angolazione più adatta a trasmettere un senso di affidabilità o le caratteristiche migliori per uno showroom virtuale. “Se puoi attingere all’inconscio sai molto di più dei tuoi clienti – spiega Chris Christodoulou, amministratore delegato di Saddington Baynes –, puoi rifinire meglio il tuo modo di comunicare: non si tratta soltanto di creare belle immagini, ma di crearle in modo da essere assolutamente certi che funzionino”. Per arrivare a un simile risultato il percorso è indubbiamente ricco di promesse dal punto di vista pubblicitario, ma non privo di risvolti inquietanti, se solo allarghiamo un po’ lo sguardo.
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