Ha fatto molto discutere l’ultima iniziativa dell’amministrazione Trump di avallare la proposta della NCAS (National Civic Art Society) dall’intento quantomeno provocatorio: “Making Federal Buildings Beautiful Again.” Ciò che si vuole modificare insomma è la vecchia direttiva governativa del 1962, la “Guiding Principles for Federal Architecture” di Daniel Patrick Moynihan, risalente cioè all’amministrazione Kennedy (il totem dei liberal USA) secondo la quale per la costruzione di nuovi edifici di proprietà federale bisognava accettare che l’aspetto architettonico fosse deciso liberamente dal mondo della professione per caratterizzare così l’immagine pubblica del governo americano.
L’amministrazione Trump vorrebbe ora invertire questa impostazione creando un nuovo “Comitato del Presidente per il re-abbellimento dell’architettura federale” dal quale sarebbero però esclusi architetti, ingegneri, critici d’arte o architettura e chiunque altro coinvolto nel processo edilizio, lasciando spazio solo a persone comuni non meglio precisate. Tra i sostenitori di questa linea demagogica, salutata positivamente anche dall’opinionista conservatore del New York Times Ross Douthat, di cui sta per uscire un libro millenaristico, c’è soprattutto Catesby Leigh, autore di un articolo controverso: “Why America Needs Classical Architecture. The design of federal buildings should be guided by the traditional principles that produced our greatest civic landmarks”.
La sua è una delle tante fughe all’indietro che l’epoca del populismo sovranista o sovranismo populista in cui viviamo sta alimentando.
La sua è una delle tante fughe all’indietro che l’epoca del populismo sovranista o sovranismo populista in cui viviamo sta alimentando. È sotto gli occhi di tutti infatti come negli Stati Uniti a governo repubblicano il cui motto è “Make America Great Again” dove cioè si auspica un ritorno a un passato dorato, oppure nell’India del presidente Modi in cui per legge bisogna rifarsi a modelli culturali di oltre mille anni fa vale a dire quando nel subcontinente non erano presenti i musulmani, o ancora nell’Ungheria di Viktor Orbán dove la magiarizzazione forzata di ogni aspetto legislativo e culturale è tesa a negare di fatto l’importanza o persino l’esistenza delle minoranze (ebraica compresa).
Insomma in molti contesti dominati da un fervente nazionalismo, la modernità viene rifiutata per la sua intrinseca natura liberal e multiculturale, venendo accettata solamente per i suoi risvolti tecnologici – stranamente infatti anche i più reazionari non intendono rinunciare all’ascensore o all’aria condizionata. In alcuni paesi ex comunisti come la Macedonia del Nord – così ribattezzata proprio per una disputa a sfondo nazionalista con la Grecia – gli edifici a grande scala ricostruiti da Kenzo Tange dopo il drammatico terremoto del 1963 sono stati ricoperti da un candido strato di cartongesso che, ad esempio, ha trasformato i pilastri del Tribunale amministrativo in goffe colonne doriche, mascherando così l’edificio brutalista e al contempo rimuovendo la memoria dell’ex regime jugoslavo che lo ha costruito.
In ogni caso il nemico dell’estetica e politica conservatrice d’oggi è il cemento armato, il materiale moderno per eccellenza, amato e imposto dal noto bolscevico Le Corbusier (già collaboratore di Vichy) e da tutti i suoi epigoni dal Team Ten in giù, portato all’esaltazione nel dopoguerra in alcune sue opere divenute caposaldo dell’internazionale comunista come il convento Santa Maria della Tourette e la chiesa di Notre-Dame du Haut a Ronchamp. Per i conservatori americani, così come per il Principe Carlo d’Inghilterra e molti brexiteer, il cemento armato è diventato dunque sinonimo di socialismo reale specie dopo la mostra appena conclusasi al MoMa di New York “Toward a Concrete Utopia. Architecture in Yugoslavia, 1948–1980” che ha avuto un ottimo successo rinfocolando involontariamente questa idea priva di fondamento – poco importa infatti che il cemento armato sia stata inventato dalle più solide democrazie liberali cioè tra Inghilterra, Francia e Germania alla fine del XIX secolo.
È interessante perché si rivolge a una base politica che non è quella tradizionale del partito repubblicano
L’iniziativa di Trump, certamente dettata da fini elettorali e ovviamente rivolta contro l’élite culturale, ha però un suo indubbio interesse sebbene con risvolti contraddittori. È interessante perché si rivolge a una base politica che non è quella tradizionale del partito repubblicano; mi riferisco in particolare ai tanti movimenti contrari all’edificazione di nuovi grattacieli a New York, una base tradizionalmente di sinistra, avversa all’high-tech e critica contro la gentrification che ha reso la Grande Mela o San Francisco isole per miliardari globe trotter più che metropoli del melting pot.
Eppure la volontà di imporre il classicismo importato tre secoli fa dall’Europa – che fra l’altro è storicamente associato agli wasp, specie negli stati del Sud della white supremacy – si scontra con una grande contraddizione: cosa c’è di più americano infatti del grattacielo? Inventato da Louis Sullivan e dalla Chicago School proprio per trovare una tipologia eminentemente americana, si è poi radicato a New York diventandone l’emblema stesso prima di essere identificato anche con il capitalismo finanziario e quindi imitato dappertutto. Le svariate Trump Tower costruite in giro per gli USA lo testimoniano, ma la prima costruita sulla 5a strada del 1983 è nota per essere anche il primo grattacielo al mondo in calcestruzzo anziché in acciaio.
Il presidente potrà dunque arredare il suo salotto newyorchese all’ultimo piano come un appartamento rococò di Versailles, costruire i suoi golf club in stile coloniale spagnolo in California, déco in Florida, neopalladiano in North Carolina, ma il cuore del suo impero finanziario resta un insieme di modernissimi grattacieli: anche le scempiaggini, non solo le idee, camminano pur sempre sulle gambe degli uomini.