Arriva l’estate e finalmente abbiamo tempo di dedicarci alle letture per cui non abbiamo tempo durante l'anno. Lunghe giornate al mare o in montagna, o all'insegna dell'ozio (creativo o non). È un'ottima occasione per lasciare perdere l'abbonamento a Mubi e Prime, sospendere i profili social e dedicare qualche ora ai libri. Abbiamo quindi raccolto in un unico elenco tutti i volumi selezionati nella rubrica Letture, pubblicata su Domus dall'inizio di quest'anno. Tra architettura, design, piante e saggi sulle città del presente e del futuro, questa selezione sarà un piacevole e utilissimo bagaglio da portare con sé.
20 libri da leggere quest’estate
Tutte le Letture consigliate da Domus dall’inizio dell’anno, qui raccolte in una unica selezione per l’estate.
Casa editrice Birkhäuser
Casa Editrice Princeton Architectural Press
Casa editrice Lund Humphries
Casa editrice Scheidegger & Spiess, Yale School of Architecture
Casa editrice Longanesi
Casa editrice Reaktion Books
Casa Editrice Compagnia editoriale Aliberti
Casa editrice Ilios Editore
Casa editrice Mimesis Edizioni
Casa editrice Parenthèses
Casa editrice Phaidon
Casa editrice Lars Müller Publishers
Casa editrice Hodder & Stoughton
Casa editrice Prestel Publishing
Casa editrice Yale University Press
Casa editrice Scheidegger & Spiess
Casa editrice Lixil
Case editrici Yale University Press, Thames & Hudson
Case editrici Yale University Press, Thames & Hudson
Casa editrice Silvana Editoriale
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- La redazione di Domus
- 19 luglio 2021
Immagine di anteprima: Foto Etienne Girardet su Unsplash
Studiando sui libri di storia dell’architettura sarà capitato a molti di chiedersi come sia stato abitare nei capolavori del Moderno: sperimentali, estreme, all’avanguardia, le residenze progettate tra gli anni Trenta e Cinquanta erano spesso foriere di nuovi stili di vita, davano spazio ai sogni, non si limitavano a offrire un tetto sulla testa. In modo più originale, Julia Jamrozik e Coryn Kempster si sono invece domandati che ricordi abbia di quelle case chi ci ha vissuto da bambino. Si giocava meglio nella lussuosa villa Tugendhat di Mies van der Rohe o nel grande giardino della Schminke House di Hans Scharoun? Era più facile farsi nuovi amici nelle case a schiera del Weissenhof di Stoccarda di J.J.P. Oud o a Marsiglia nel super condominio dell’Unité d’Habitation di Le Corbusier? Architetti, artisti e docenti, Jamrozik e Kempster hanno ideato un singolare viaggio, che definiscono “di documentazione creativa”, ora confluito nel libro Growing up Modern, attraverso l’Europa a bordo di un camper, insieme con il figlio di pochi mesi. Si sono improvvisati storici orali, antropologi, fotografi, intervistatori, psicologi e hanno incontrato quegli ormai ex bambini (nelle loro ex case), ascoltato i loro ricordi e registrato i loro racconti. Come accade in ogni esperimento empirico, e soprattutto in quelli che coinvolgono la natura umana, le loro conversazioni – molto più numerose di quelle pubblicate nel volume – non hanno portato a una definizione omogenea, che del resto sarebbe stata riduttiva rispetto alla ricchezza delle esperienze. “Ascoltare la storia di un luogo da qualcuno che vi è cresciuto aiuta a capire meglio l’architettura, a concentrarsi su aspetti diversi”, concludono. “Un fatto ovvio, ma significativo, che la disciplina deve ancora assimilare e mettere in pratica”.
Reyner Banham, Philip Johnson, Paul Rand, Frank Gehry, Rem Koolhaas e Muriel Cooper... Non c’è architetto o designer, grafico, artista o critico che Janet Abrams non abbia incontrato, intervistato e condensato con spirito critico in questi ultimi 30 anni trascorsi come direttrice di Building Design, corrispondente di Blueprint e, ancora, collaboratrice di I.D. Magazine, Metropolis, New York Magazine e The Independent oltre che autrice di numerosi libri. Raccolti nel volume Daddy Wouldn’t Buy me a Bauhaus, i 26 profili di altrettanti leggendari personaggi, tracciati dalla penna ironica della giornalista inglese, prendono vita grazie a uno stile altamente personale e a una prosa brillante, che non annoia mai e mostra il lato migliore del giornalismo biografico.
Tutto quello che mangiamo, che beviamo o che indossiamo è minuziosamente brandizzato. L’identità di un marchio, però, comincia spesso molto prima di un oggetto, con la sua architettura. Parte da questa constatazione la ricerca, originale e ben documentata, di Grace Ong Yan, docente alla Thomas Jefferson University. Un edificio, sostiene nel suo libro, è lo strumento d’immagine più potente; grazie alla sua capacità di coinvolgere e suscitare emozioni. Pensiamo ai progetti di Koolhaas per Prada e di Foster per Apple. Yan decide di raccontare le storie, poco note, di quattro edifici moderni, che però sono esemplari ancora oggi: il PSFS Building di Howe e Lescaze e il quartier generale della Rohm e Haas di Pietro Belluschi a Filadelfia; la sede della Johnson Wax di Frank Lloyd Wright a Racine; e la Lever House di SOM a New York.
Cosa rimane, a quasi 50 anni dalla sua pubblicazione, del seminale Imparare da Las Vegas di Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour? Perchè la sua lezione è ancora attuale per gli architetti cresciuti in un mondo iperglobalizzato? Quando viene pubblicato, nel 1972, il libro divide i critici, ma diventa istantaneamente un classico e segna un momento fondamentale nella storia dell’architettura, trasformando la capitale del gioco d’azzardo statunitense nel più emblematico quanto inaspettato caso di studio dello sprawl urbano. Non solo. Porta anche all’attenzione l’uso e il valore dei segni e dei simboli nell’architettura e nell’urbanistica, dando infine una spinta alla nascita del Postmoderno. Il libro finirà per conoscere un successo e una longevità grandissimi: tradotto in 18 lingue, è ancora tra i testi fondamentali dei piani di studio della facolta di Architettura di tutto il mondo. Si dimostra all’altezza del compito, per completezza, pluralità di visioni e approfondimento il volume di 500 pagine che si ripromette di valutarne l’eredità, partendo dal simposio di Yale “Learning from Learning from” (2009). Eyes that Saw ha innanzitutto due curatori di tutto rispetto: lo storico dell’arte Stanislaus von Moos, docente all’Universita di Zurigo, e il curatore di design e architettura del MoMA Martino Stierli, che hanno raccolto gli interventi di una dozzina di storici (tra cui Eve Blau, Beatriz Colomina, Valery Didelon) e di architetti (Elizabeth Diller e Rafael Moneo). Gli stessi Denise Scott Brown e Robert Venturi raccontano cosa li ha portati a Las Vegas, e cosa hanno continuato a imparare per i successivi 40 anni, indicando come, tra le altre cose, il loro libro abbia avuto il principale merito di suggerire che “la comunicazione era una funzione importante dell’architettura, che aiutava a costruire una comunità condividendo le informazioni”.
Cento oggetti: anonimi (come il contatore del gas e la spillatrice Zenith 548) o di culto (come le macchine da scrivere Valentine di Olivetti, la bottiglietta del Campari e la Fiat 500). Oggetti di design che imitano l'arte (come il divano Bocca di Gufram) o, ancora, invenzioni geniali (come la moka del bisnonno Bialetti). Nel suo ultimo libro - dopo Design senza Designer; Le caffettiere dei miei bisnonni e Dopo gli Anni Zero - Chiara Alessi raccoglie le grandi e piccole storie del design, che durante il lockdown della scorsa primavera aveva cominciato a raccontare su Twitter. Sono storie di genialità e innovazione, molte nate in fabbrica, che si nascondono dentro le cose che incontriamo e usiamo tutti i giorni e che, insieme, mettono le basi per la storiografia della creatività italiana alternativa, fresca e sorprendente.
Allievo di Giedion, Blunt e Pevsner, docente, ecologista ante litteram, ironico saggista: chi era davvero Reyner Banham? Prova a raccontarcelo Richard J. Williams con Reyner Banham Revisited, una biogradia intellettuale che ha un obbiettivo preciso: rifflettere sull'eredità di un pensatore originale sempre in anticipo sui tempi e per questo ancora attualissimo a 30 anni dalla sua morte avvenura nel 1988 a 66 anni. Un compito davvero ambizioso quello di Williams, docente dell'università di Edimburgo, vista la mole di documenti: 750 articoli (1.000 secondo alcuni), 16 libri, programmi radio e documentari, oltre al suo coinvolgimento nell'Indipendent Group che l'aveva messo in contatto con alcuni dei più radicali architetti e artisti dell'Inghilterra di allora, Peter e Alison Skithson e gli Archigram di Peter Cook. Le 200 pagine del volume sono concentrate su "una storia delle idee, solo alcune delle quali di architettura". Vanno quindi al di là delle fondamentali riflessioni su Brutalismo, Movimento Moderno e Pop Art, per raccontare che "c'erano tanti Banham quanti i suoi pubblici". E che "spesso il modo migliore per capirlo era considerare le sue teorie come atti performativi". Con il cappello da cowboy, gli occhiali scuri, la folta barba e l'immancabile bici pieghevole Moulton, Banham (che era grande fan dei Monty Python) prendeva i suoi lettori letteralmente per mano, non limitandosi a illustrare le sue idee, ma vivendole e sperimentandole in prima persona: che si trattasse di car design, dell'hamburger o della Silicon Valley. "Welcome to Los Angeles, super city of the future, the metropolis of California", dice la suadente voce del bellissimo documentario del 1972 Reyner Banham Loves Los Angeles. Allo stesso modo, questo libro accoglie i lettori nell'universo di uno dei più geniali e meno etichettabili critici dell'architettura moderna, delle città e della cultura di massa.
Lucchese di nascita e milanese per scelta, nel suo ultimo libro il giornalista Nanni Delbecchi collega con una lunga passeggiata le quattro città della sua vita: Lucca, Milano, Roma e Venezia. Ne escono quattro ritratti che oscillano tra saggio e narrazione, dove la scrittura è libera “così come è libero il passeggiare”, spiega. Vagando, senza contapassi nè GPS o mappe digitali, Delbecchi dà vita a un’anomala autobiografia che procede per località e conferma che siamo anche i luoghi che abitiamo. A ogni città corrisponde un momento della sua vita: c’è Lucca “orgogliosamente introversa”; Milano “iperattiva, dinamica, perfino un po’ spaccona”; Roma “in una botteghina anonima, invisibile come quelle della Londra di Dickens”; infine, Venezia, “città dove non si vivrebbe mai perché è troppa la voglia di tornarci”.
È stato tradotto e pubblicato in versione italiana, per i tipi di Ilios, piccola, ma ambiziosa casa editrice e associazione barese, il saggio di Deyan Sudjic The Language of cities (Penguin, 2017). Cos’è una città? Come la si crea e come la si cambia? Come la si governa? O, ancora, perche le città cercano di costruire edifici sempre più complicati? Perché si svuotano? In sei capitoli e 276 pagine, il giornalista britannico e critico dell’Observer, architetto ed ex direttore del Design Museum, attinge alla cronaca e alla storia recente, per raccontare con lo stile chiaro, arguto e ironico che lo contraddistingue, quali sono le forze che, palesi o nascoste, modellano lo spazio urbano e fanno di una città una città di successo, dalla Parigi di Haussmann alla New York di Robert Moses, al di là della popolazione e delle dimensioni.
Curato da Mauro Ceruti, il volume Cento Edgar Morin (Mimesis Edizioni) propone 100 interventi di altrettante firme italiane. È un omaggio a una personalità straordinaria del nostro tempo: filosofo, scrittore, sociologo, ma soprattutto architetto dei saperi e della necessita delle loro infinite contaminazioni. Il libro consacra i 100 anni di un intellettuale di fama mondiale che ha sempre creduto nel dialogo e nella necessita di riunire ed equilibrare, piuttosto che dividere e sbilanciare. Morin è il profeta dell’umanesimo planetario contro l’età della barbarie e del ferro, la cui lettura, nel cuore di una delle più gravi crisi della storia di cui la pandemia e solo il simbolo, può aiutare a tracciare una via per resistere alla barbarie costruendo reti di solidarietà, fraternita e pensiero creativo.
Une vie d’architecte a Tokyo è una piccola guida di Tokyo autobiografica. A introdurre la megalopoli è Kengo Kuma, mentore d’eccezione e progettista dello stadio delle prossime Olimpiadi. L’architetto giapponese accompagna il lettore alla scoperta di 24 luoghi del cuore, come la palestra olimpica di Yoyogi, progetto di Kenzo Tange del 1964, dove Kuma andava a nuotare e che l’ha ispirato a diventare architetto (“Guardare la luce che arrivava dal magnifico soffitto a volta mi faceva sentire in paradiso”, scrive), la pasticceria Sunny Hills ad Aoyama, suo progetto e famosa per un dolce taiwanese all’ananas, il quartiere di Kagurazaka (“La Kagu”) dove scale e ripidi pendii bloccano il traffico delle auto. Tra storie e aneddoti personali, Kuma offre la sua chiave per interpretare il Giappone di oggi.
L’ultima casa dove Josef e Anni Albers hanno abitato, a New Haven, Connecticut, aveva le pareti spoglie. Unica eccezione, un quadro dipinto da Josef nel 1939, intitolato Equal and Unequal: due parallelepipedi neri, diversi eppure simili, rivolti l’uno verso l’altro. È proprio in quest’opera che Nicholas Fox Weber, autore della prima imponente monografia sui due artisti, ha trovato la perfetta sintesi grafica per descrivere una coppia “indipendente e interdipendente”, composta da due individui potenti e autonomi, attratti in modo magnetico. Parte da qui lo storico direttore esecutivo della Josef and Anni Albers Foundation, critico d’arte, autore di 15 monografie, per raccontare l’avventura umana, professionale, artistica e culturale di Josef Albers (1888-1976) e Anni Fleischmann Albers (1899-1994). “Ho avuto la fortuna di conoscerli nel 1970”, scrive nell’introduzione: 22 anni lui, 71 e 82 loro, Anni (“più avventurosa”) e Josef (“con un occhio straordinario per le forme semplici ed eleganti”). Da allora, non ha mai smesso di frequentarli, fino alla morte di Josef nel 1976 e di Anni 20 anni dopo. Mescolando precisione filologica e tono personale, questa avvincente biografia di 512 pagine, magnificamente illustrata con 750 tra foto e documenti d’archivio, lascia spesso che a narrare siano le parole stesse degli artisti. In modo essenziale, il libro è suddiviso in cinque momenti: la giovinezza, di Josef prima e di Anni poi; il Bauhaus; il Black Mountain College; il Connecticut, dove Josef era a capo del dipartimento di Design di Yale; e, infine, gli ultimi anni di Anni senza Josef. Fanno capolino le amicizie già note: con gli architetti, come Philip Johnson, grande ammiratore di Anni e del suo lavoro tessile, e Richard Buckminster Fuller, conosciuto al Black Mountain College; con gli artisti John Cage e Merce Cunningham, con i designer Ray e Charles Eames. Attraverso le lettere, i documenti e, naturalmente, le loro opere, emerge un ritratto di una coppia inscindibile nella vita e nel lavoro, ben radicata nella propria epoca. Non sfugge il paragone con un’altra coppia d’oro di Hollywood, Spencer Tracy e Katharine Hepburn. Questa, però, è un’altra storia.
Attraverso una decina di progetti paradigmatici appartenenti però a scale, epoche e geografie diverse, il volume Atmosphere Anatomies di Silvia Benedito, docente di Architettura del paesaggio alla Harvard Graduate School of Design, indaga gli aspetti bioclimatici dell’architettura. Da Rousham Garden, progetto di William Kent nell’Oxfordshire, alla cinquecentesca Villa d’Este di Pirro Ligorio a Como, dalla Chandigarh di Le Corbusier in India alla Ortega House di Luis Barragán in Messico, l’autrice cerca nella storia possibili soluzioni per fare fronte all’aumento della temperatura globale. Sono strategie di progettazione che hanno un approccio comune, collocare il corpo umano al centro, e sembrano suggerire che dovremmo cominciare a considerare il lato atmosferico e climatico dello spazio che abitiamo.
Dedicato a chi in città si ferma con il naso all’insu (o all’ingiù) a leggere le targhe e a quelli che l’autore definisce “urbanisti curiosi”, questo libro è una lente d’ingrandimento per osservare la città con occhi attenti, freschi e curiosi, sicuramente diversamente da come siamo abituati a fare. Roman Mars riesce nel non facile compito di trattare in modo accessibile e coinvolgente, un argomento complesso come il tessuto di una città. Riesce anche, allo stesso tempo, a non banalizzare quello che tutti i giorni è sotto lo sguardo di milioni di persone, perché semplicemente – che lo vediamo o meno – affolla le vie delle città di tutto il mondo. Mars, che non è architetto né designer e ha una laurea in Plant population genetics, e affiancato da Kurt Kohlstedt, che ha invece studiato filosofia e architettura. Forti della decennale esperienza del podcast di grande successo 99% Invisible che si occupa di raccontare quello che nessuno nota (il 99% delle cose, appunto), Mars e Kohlstedt (con le illustrazioni di Patrick Vale) passano in rassegna in modo ironico e sagace gli elementi che compongono l’universo urbano. Ci sono gli onnipresenti (graffiti, segni sul marciapiedi, scatole di emergenza) e quelli che si nascondono (finte facciate, tubi fognari, impianti di ventilazione, sottostazioni elettriche), i simboli identitari (bandiere, monumenti, targhe commemorative) e le cose utili (sicurezza e segnaletica). Ancora, le infrastrutture, l’architettura, la geografia e l’urbanistica. Perché i tombini sono rotondi? Perché il rosso del semaforo si trova in alto? Chi ha inventato la porta girevole? Tra curiosità, segreti e alcune sorprese, The 99% Invisible City è un’originale “guida al mondo costruito”, come recita il sottotitolo, che raccoglie e racconta le centinaia di storie minori che, insieme, costruiscono la storia delle città dove viviamo e degli oggetti che le compongono.
Nel 2006, e per dieci anni, il critico di architettura e design ceco Adam Štěch ha viaggiato per scovare e fotografare l’architettura moderna di tutto il mondo. Non i capolavori che tutti conosciamo, ma piuttosto i molti tesori dimenticati o poco conosciuti, non accessibili al pubblico o caduti in disgrazia. Il suo occhio attento si è posato spesso sui dettagli: le lampade e le cassette della posta di Antoni de Moragas nell’edificio ad appartamenti sulla Via Augusta a Barcellona, le decorazioni del soffitto dell’Istituto Italiano di Cultura a Stoccolma di Gio Ponti, la porta della Al Struckus House a Los Angeles di Bruce Goff. Attraverso oltre 1.000 architetture, l’atlante che e nato da questo appassionante viaggio in oltre 30 Paesi offre una guida definitiva e personale all’architettura moderna.
Docente di Storia del design e direttrice del Modern Interiors Research Centre alla Kingston University di Londra, Penny Sparke dimostra, in questo volume di 224 pagine e attraverso 120 illustrazioni, come piante e fiori abbiano sempre condizionato il progetto d’interni, da almeno due secoli a questa parte. Dalle felci, che spopolavano nei salotti inglesi del XIX secolo, ai muri vegetali degli odierni centri commerciali, la materia verde e sempre stata un punto fermo nella progettazione degli spazi pubblici e privati. “Se gli stili si sono evoluti e con essi la popolarità di alcune essenze piuttosto che altre”, conclude Sparke, “il bisogno umano di portare la natura dentro la casa non è mai venuto meno”. Il motivo? L’urbanizzazione prima, suggerisce l’autrice, incalzata poi dalla crisi climatica.
Parole e immagini unite in una solidale relazione veicolano l’immaginario di Charlie Koolhaas su cinque città – Londra, Guangzhou, Lagos, Dubai e Houston. “Sono luoghi in cui ho lavorato o vissuto, quindi il processo di documentazione si è avviato spontaneamente, in maniera non sempre studiata”, racconta l’artista e scrittrice. “Solo più tardi ho realizzato quanto queste città fossero connesse”. Il filo rosso che le accomuna è l’economia globale, generatrice di una commistione di culture e identità altrove inimmaginabili. E proprio in corrispondenza di queste coordinate geografiche che si forma quella società multiculturale che è al tempo stesso ragione e prodotto di un’economia capitalista e globalizzata, in cui “gli individui sono strumentali all’espansione del sistema”. Anziché documentare asetticamente, le incursioni di Koolhaas setacciano indizi di un paesaggio umano più complesso e di una multiculturalità più radicata quanto lo sguardo occidentale voglia ammettere. Amplificando il messaggio visuale con il testo, l’autrice mostra, per esempio, quanto gli attuali legami commerciali fra Cina e Africa siano radicati in una relazione centenaria interrotta dalla fase coloniale europea. Con questi escamotage, Koolhaas dichiara la consapevolezza della parzialità del suo sguardo. Al di là delle assonanze più vistose – come la gentrificazione, le culture di strada dell’hip hop e del rave, gli skyline lambiti da grattacieli lucidi – gli scatti e le parole sono quindi frammenti che ribaltano convenzioni ed evidenziano contraddizioni inesplorate accompagnandole con una curiosità gentile. L’effetto è quello di una sfida al culto contemporaneo della diversità, lasciandosi indietro l’astrazione del pregiudizio e facendo trasparire l’umano dietro al capitale globale.
Trent’anni dopo, come nei libri di Alexandre Dumas, anche David Chipperfield torna alle fonti della sua formazione professionale, in quel Giappone che grande influenza ha rappresentato nel suo stile e nel suo approccio. Un esercizio di visione retrospettiva, o di illuminazione prospettica, per coniugare passato e presente, ispirazione ed esperienza della maturità nel perimetro di un progetto unico. A rendere la sfida più ardua, la complessità dei mesi della pandemia, che ha cambiato il senso degli assi culturali, ma anche dei valori e delle parole, come estetica e design. Se il risultato dell’architettura dipende dallo spirito e dal processo, nel tempo il processo svanisce e resta il risultato. Quello spirito che l’Inagawa Cemetery Chapel e il suo Visitor Center lasciano aperto all’interpretazione.
Kenneth Frampton (Woking, 1930) non solo è uno dei maggiori punti di riferimento del Novecento per quanto riguarda la storia dell’architettura e, in particolare, il Regionalismo critico di cui è stato il primo e maggiore teorico. Leone d’Oro alla carriera alla Biennale di Venezia del 2018, Frampton sembra avviato a restare un caposaldo anche per il XXI secolo. Basta fare un salto in libreria, dove sono approdate quasi in simultanea due sue pubblicazioni, per rendersene conto. La prima è la seminale Storia dell’architettura moderna, pubblicata la prima volta nel 1980 e arrivata quest’anno alla quarta edizione. Considerato uno i più importanti contributi alla storiografia moderna di architettura e adottato come testo nelle università di tutto il mondo da quattro decenni, il volume si è arricchito di una nuova sezione che indaga gli effetti della globalizzazione attraverso alcuni progetti recenti. Come scrive Frampton stesso su Domus nel 2013, la “pratica di oggi è globale piuttosto che locale, con archistar che viaggiano senza sosta per il mondo, al seguito di un flusso di capitali altrettanto dinamico”.
The Other Modern Movement, edito nel 2015 da Silvana Editoriale e da poco tradotto dalla Yale University Press, nasce da un ciclo di lezioni all’Accademia di architettura dell’Universita della Svizzera italiana di Mendrisio (1998- 2001). Nel volume, curato dalla sua assistente a Mendrisio Ludovica Molo, Frampton esamina la figura, il pensiero e un’opera di riferimento di 18 architetti (un capitolo ciascuno) in un arco temporale di mezzo secolo, 1920-1970. Attraverso la puntuale reazione di ciascun edificio con il contesto (luogo, clima e momento storico), il libro rivela una complessità culturale del Moderno, spesso sottovalutata. Alcuni capolavori del periodo (come la Maison de Verre di Pierre Chareu a Parigi) si alternano a episodi meno noti (come l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni di Sigurd Lewerentz a Stoccolma). Unica presenza femminile Eileen Gray con la Casa E1027 di Roquebrune-Cap-Martin.
Sono passati 50 anni dalla sua scomparsa, e viene ancora definito il “designer del futuro” o il “profeta del design”. Prolifico e innovativo, Joe Colombo (1930-1971) avrebbe senz’altro cambiato il nostro modo di vivere, se solo avesse vissuto abbastanza a lungo. Ignazia Favata, architetta, docente e storica collaboratrice del designer milanese, oltre che curatrice dell’archivio, prova a racchiudere, con una rigorosa e sistematica catalogazione, la sua multiforme personalità – Colombo era, tra le altre cose, musicista, pittore, appassionato di montagna, automobili, nuovi materiali e tecnologie costruttive. Lungo 300 pagine, questo volume offre il regesto più completo dei progetti mai tentato finora. Un elenco, tuttavia, ancora mutevole, visto che sono in corso quattro riedizioni e due inediti.