The Electric State è la mortificazione del design migliore dei nostri anni

Il flm dei fratelli Russo su Netflix tradisce la graphic novel da cui è tratto e la visione del suo autore, Simon Stålenhag, trasformando la sua estetica evocativa in una banale storia hollywoodiana priva di idee originali.

Poteva essere un altro esempio di come il design delle illustrazioni di Simon Stålenhag sia il più importante degli ultimi anni, e invece è un altro terribile film di Netflix. Con l’aggravante di essere il più costoso di sempre: 320 milioni di dollari. The Electric State parte dalla graphic novel omonima di Stålenhag, l’illustratore svedese le cui opere sono inizialmente diventate note online e poi, nel 2015, grazie a una campagna Kickstarter hanno iniziato a trasformarsi in pubblicazioni di successo crescente, fino a catturare l’attenzione dell’industria cinematografica. Il suo primo libro illustrato, Tales From The Loop, è stato adattato in una serie tv antologica, mentre anche film che non hanno direttamente adattato le sue opere, come The Creator, hanno immaginato futuri ispirandosi alle sue illustrazioni e alle sue idee.


The Electric State
invece si basa direttamente sulla sua omonima graphic novel del 2018. Come sempre in Stålenhag la storia non è importante quanto il paesaggio, un concetto che si riflette anche nelle sue illustrazioni, dove gli esseri umani spesso sono assenti, piccoli sullo sfondo o raffigurati di spalle. I suoi racconti non si sviluppano attraverso archi narrativi che sfruttano le emozioni dei personaggi, ma attraverso scenari evocativi e vasti paesaggi in cui gli elementi di design interagiscono tra loro. Spesso si tratta di grandi robot o strutture tecnologiche imponenti sullo sfondo, in contrasto con oggetti di design o tecnologie degli anni ’70, ’80 o ’90 in primo piano. Questo contrasto crea un’atmosfera malinconica e un senso di nostalgia per un passato che non è mai esistito ed è modificato per sembrare distopico.

Anthony Russo e Joe Russo, The Electric State, 2025. Courtesy Netflix

The Electric State invece costruisce una trama estremamente convenzionale. Negli anni ‘90 distopici la razza umana ha sconfitto i robot che aveva costruito come servitori, costruttori o mascotte pubblicitarie e che si erano ribellati. Sono stati quindi confinati in una zona delimitata da un muro. Al loro posto si è imposta una tecnologia che consente agli esseri umani, tramite un casco, di comandare altri robot privi di volontà propria, utilizzati come avatar o contenitori di coscienze. In questo scenario, una ragazza riceve la visita di un robot evaso da quel confinamento e intuisce, attraverso alcuni segnali, che dentro di esso si trova in qualche modo la coscienza del fratello che credeva morto in un incidente d’auto insieme al resto della sua famiglia. Decide quindi di seguirlo per scoprire dove sia il suo corpo. Nel farlo si imbatte in una grande cospirazione e si allea con i robot ribelli che (sorpresa!) sono le vere vittime.

I fratelli Russo invece non hanno idee su nulla: gli anni ’90 servono solo per dare un taglio di capelli buffo a Chris Pratt, qui chiamato a imitare i personaggi che solitamente interpreta Jack Black.
Anthony Russo e Joe Russo, The Electric State, 2025. Courtesy Netflix

La graphic novel di Stålenhag non poteva che essere una traccia: è composta da illustrazioni a tutta pagina intervallate da brevi paragrafi di testo, che raccontano la storia più come un libro che come un fumetto. È in buona sostanza un libro illustrato in cui il bilanciamento tra immagini e testo è invertito rispetto al solito: le immagini rappresentano la parte dominante, mentre il testo è marginale. Questo offriva ampi margini di adattamento per un universo visivo straordinario. C’era l’opportunità con il film di arricchire quell’immaginario con una storia avvincente e una narrazione all’altezza del potere evocativo delle immagini. Invece i fratelli Russo hanno scelto di non seguire la traccia visiva e il significato che essa trasmette, ma di prendere una direzione completamente diversa, smentendo ciò che il design suggerisce.


Quel design così particolare dei robot rovinati, arrugginiti e mezzi distrutti, che come ribelli hanno creato una piccola società all’interno delle mura, fa pensare che siano le vestigia del peggio dell’umanità. Hanno la forma di una nocciolina gigante con cilindro e gilet, perché originariamente utilizzati per pubblicizzare un marchio, oppure la faccia pupazzosa di un grottesco giocatore di baseball, perché impiegati come macchinari per lanciare palle e allenare i battitori. Altri ancora sono robot ispirati ai personaggi dei cartoni animati e, persino quando erano stati progettati per lavori più seri, come nel campo delle costruzioni, presentano sempre un design ispirato ai fumetti o ai cartoni animati della prima metà del Novecento.

Sono lo specchio di una società dei consumi andata alla deriva. Il loro aspetto pubblicitario ormai deteriorato, il fatto di essere stati maltrattati e per questo arrabbiati, raccontano attraverso il solo design un desiderio di rivalsa contro il modo in cui il mondo fa appello alla parte più infantile di ciascuno per vendere o ingannare. Erano robot pensati per rassicurare, ma sono stati sfruttati e oppressi.

Anthony Russo e Joe Russo, The Electric State, 2025. Courtesy Netflix

The Electric State (il film) invece li trasforma in una generica minoranza che rivendica quello che qualsiasi minoranza maltrattata rivendica (il diritto ad esistere in pace), banalizzando il discorso più interessante. Inoltre nonostante l’ambientazione negli anni ’90, non c’è alcuna ragione narrativa o tematica per situare la storia in quell’epoca. È un omaggio a Stålenhag, ovviamente, ma se all’ultimo momento avessero cambiato i costumi e ambientato il film nel presente o nel futuro, non sarebbe cambiato nulla. In altre parole, il film manca completamente di una connessione con il tempo, il passato o la nostalgia.

Eppure proprio su questo si basano le illustrazioni di Stålenhag: creano un senso di nostalgia per un passato alterato e inesistente, che incorpora elementi reali e la reale nostalgia che il loro design stimola (quello delle auto, degli abiti o degli oggetti quotidiani) per raccontare qualcosa di significativo su quegli anni unendola alla distopia. Non è il nostro passato per come era realmente, ma per come l’autore lo reinterpreta.

I fratelli Russo invece non hanno idee su nulla: gli anni ’90 servono solo per dare un taglio di capelli buffo a Chris Pratt, qui chiamato a imitare i personaggi che solitamente interpreta Jack Black. Così quando di tanto in tanto compaiono inquadrature che sembrano riprese direttamente dalle illustrazioni di Stålenhag, c’è quasi un che di offensivo nella pretesa che quel tipo di maestria visiva possa davvero integrarsi in una confezione così mortificante. Invece di sostenerle e valorizzarle il film le svuota di significato, privandole di tutto ciò che le rende potenti. E non si limita nemmeno a lasciarle in pace, ma pretende di piegarle a una narrazione banale, fatta di guru della tecnologia che tramano contro l’umanità, di una riconquista degli affetti attraverso la ribellione e della guerra come unica risposta possibile.

Non è chiaro se i Russo volessero avvicinarsi a District 9, il film del 2009 che per primo inventò un modo diretto e al tempo stesso sofisticato di parlare delle minoranze attraverso la fantascienza. Di sicuro The Electric State si muove in quella direzione, senza però capire che il punto centrale di District 9 era il cambio di prospettiva: seguire un personaggio che parte da un lato della barricata e, attraverso una trasformazione, finisce dall’altro, vedendo le stesse cose da una nuova angolazione. Umanizzando il disumano. Qui invece i robot, inizialmente presentati come pericolosi sovversivi, sono solo macchiette, cartoni animati meno umani dei giocattoli di Toy Story (loro sì dotati di una personalità che lavora sempre in modi imprevedibili, in accordo o in disaccordo con il proprio design).

Immagine di apertura: Anthony Russo e Joe Russo, The Electric State, 2025. Courtesy Netflix 

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