A un certo punto, nella prima parte di Anora, la protagonista, il cui nome dà il titolo al film, entra in una casa lussuosa. L’ha invitata lì un ragazzino russo che parla male l’inglese, un cliente del locale di spogliarelli in cui lei si leva i vestiti per soldi, con la promessa di più soldi ancora in cambio di prestazioni sessuali. Anora, ben contenta di arrotondare, va all’appuntamento e, nonostante avesse capito di aver agganciato qualcuno con dei soldi, rimane esterrefatta dalla casa e da ciò che questa rivela su di lui.
Non ha solo dei soldi, ha montagne di soldi. Anzi, i suoi genitori ce li hanno. E loro non sono lì con lui, ma in un altro stato. A un certo punto, più in là nel film, lui spiegherà a lei da dove provengano, chiedendole di cercare il nome del padre su Google. Non vediamo cosa trovi, ma l’espressione di Anora nel leggere dice tutto, anche se il pubblico ha già capito di cosa si tratti. E l’ha capito dall’interior design di quella casa.
Quello che quell’abitazione e la sua collocazione dice è un assaggio di ciò che poi il film farà con tutta New York, cioè la progettazione di uno spazio di vita, interazioni e rapporti che servono a dirci tutto quello che non viene detto con i dialoghi. I film mediocri fanno dire ai personaggi ciò che pensano o ciò che noi dobbiamo sapere di loro; quelli buoni ce lo fanno capire con le immagini. Quelli che vincono la Palma d’Oro a Cannes di solito lo fanno con una sottigliezza e una capacità di utilizzare tutti i mezzi della messa in scena che vale il primo premio. Così Anora, che a maggio ha per l’appunto vinto la Palma, inizia a comunicare blandamente con il design di quel locale di spogliarelli: simile a molti altri, ma ordinato e pulito, non un postaccio, non uno in cui si viene picchiate, ma uno “per bene”. E prosegue poi con le lunghe sequenze nella casa di Vanya (questo il nome del figlio di papà russo).
Sean Baker, il regista del film, riesce a rendere bene l’idea che queste persone così diverse tra loro siano tutti parte di New York in un modo o nell’altro, anche se alcuni nemmeno parlano bene inglese.
Grandi vetrate con vista mozzafiato, vialetto d’ingresso all’interno di un comprensorio con la guardia all’ingresso, e poi soprattutto tavolini in vetro e una scala a chiocciola di design che porta al piano di sopra, dove ci sono le stanze da letto. Tutto è spazioso ma sembra vuoto, l’arredamento è lo stereotipo del lusso, non c’è nessuna personalità, di certo non sembra la casa di un ragazzo, ma più una commissionata per apparire costosa.
Quello che Anora vuole dire al pubblico, inizialmente, è quanto quella situazione possa rappresentare una possibile svolta per la protagonista: questo figlio di papà è un po’ scemo, si è invaghito di lei e della sua potenza sessuale, e questa casa è fatta per far sentire Anora in un altro mondo. Inizialmente infatti abbiamo visto dove vive lei: in una stanza di una casetta rumorosa, con una piccola finestra, al freddo. Nella casa di Vanya, nonostante sia inverno, si può stare in mutande, se non proprio mezzi nudi. È una casa per feste (ne vedremo una bella, grande e opulenta) in cui squadre di domestici mettono tutto in ordine il giorno dopo, e in cui, cosa importante, Anora si inserisce molto bene. Non è un pesce fuor d’acqua come Julia Roberts nella casa del milionario Richard Gere, ma anzi sembra essere lì da anni. Si può abituare a quel lusso e ha intenzione di farlo.
Quando poi il film ingrana un’altra marcia, i due si sposano a Las Vegas e gli sgherri dei genitori russi, lontani e ricchissimi, si accorgono del fatto: parte così la seconda parte del film. Vanya è scappato e va ritrovato. Ad Anora viene detto che dovrà divorziare da lui, anche se non vuole, e se non lo farà con le buone lo farà con le cattive. Visto il carattere di lei questo non avverrà senza opporre resistenza, gridare e rompere diversi oggetti del salotto in una colluttazione comica (la forza della scrittura del film sta nel rimanere sempre sul registro della commedia, anche se accadono cose che non sarebbero da commedia). Quella casa che si proponeva come una svolta cade a pezzi, distrutta dalla rabbia di Anora, il cui sogno pure sembra cadere a pezzi.
Questa seconda parte non è più ambientata in casa ma tutta in giro per New York, lungo una notte in cui la strana squadra composta dai gorilla della famiglia di Vanya e Anora stessa (riottosa ma costretta a seguirli) battono locali, negozi e case per trovare il ragazzo fuggito per paura di dover affrontare le sue responsabilità. È una sezione di eccezionale divertimento, in cui i personaggi, fino a quel momento cruciali, diventano pedine mosse per la città, che è la vera protagonista. I moli di Coney Island, i locali di Brooklyn, le strade di Manhattan senza parcheggio… È l’estetica di New York che il cinema ha sempre raccontato, vista in un’altra maniera. Quelle strade, quei palazzi e quelle giostre molto riconoscibili sono svuotati (o riempiti di persone) perché è una notte d’inverno freddissima e quindi non c’è nessuno a Coney Island, ma molte persone nei locali notturni del centro, e questo cambia la personalità della città. Luoghi noti anche a chi non è mai stato a New York appaiono diversi.
In Anora New York è un posto in cui perdersi, e non solo fanno ridere le peripezie dei personaggi e il loro atteggiamento, ma soprattutto l’impresa sovradimensionata di trovare un singolo essere umano in questo delirio di persone che è la città di notte. L’idea di girarla tutta, a piedi e in auto, funziona moltissimo. Sean Baker, il regista del film, riesce a rendere bene l’idea che queste persone così diverse tra loro (una spogliarellista, un sacerdote ortodosso e due gorilla un po’ scemi) siano tutti parte di New York in un modo o nell’altro, anche se alcuni nemmeno parlano bene inglese. È uno dei segreti dell’incredibile fattura di Anora che, con la sua storia di amori che non lo sono poi tanto, di soldi e di caccia, riesce a conquistare tutti (anche i giurati di Cannes).
Nel terzo atto infine c’è un ribaltamento eccezionale, di cui è meglio non sapere niente prima di arrivarci. Ma anche lì c’è un cambio di paesaggio e design cruciale. Non più la grande casa lussuosa, non più la città che vive di notte, ma un luogo ben più desolato. Un aeroporto, un jet privato e degli ufficetti per una trattativa misera. E poi, colpo di genio, di nuovo le case che abbiamo visto all’inizio, ma è tutto diverso. È cambiato tutto di segno: le stesse soluzioni di design e gli stessi interni comunicano altro, perché ciò che accade là dentro, il tipo di relazioni e di vita di cui sono riempiti, è cambiato. Anora è un grandissimo film che, come spesso capita, distrae con abilità lo spettatore, intrattenendolo con la commedia, mentre di nascosto costruisce un grandissimo finale pieno di senso, che non a caso si svolge in un salotto in penombra, in un’ambientazione che per la prima volta suona intima, calda e personale. Non è una questione di quanto design esista nella casa, è questione di come interagisca o rappresenti chi ci sta dentro. La possibilità di abitare con sentimenti reali un interno non è arrivata come un elemento dato: è stata conquistata.