Le immagini orrende che i boomer amano

Meme, immagini AI e kitsch digitale. Perché i boomer vedono le immagini come finestre sul reale, mentre i giovani le leggono come codici simbolici?

Su Facebook – la casa di riposo dei social network – capita di trovare immagini create con AI che ritraggono bambini che mostrano poco credibili opere d’arte, belle donne in campagna accompagnate da frasi tipo “Nemmeno un ciao solo perché lavoriamo nei campi”, nonni con plotoni di nipotini a sei dita e via dicendo. Immagini come queste sono la nuova frontiera di quella che definirei “l’estetica boomer”, già nota per la condivisione di abomini kitsch con un’estetica digitale ‘90 fatta di tazze di caffè, fumettoni, cuoricini, ghirlande di emoticon e font quantomeno sbarazzini.

Quando le generazioni più giovani osservano queste immagini vengono stritolate in uno shock estetico: come è possibile anche solo pensare di condividere cose simili? Ma non se ne accorgono? Dio mio ma perché lo fanno?

Esiste una differenza immaginativa generazionale che è forse interpretabile sulla base di una variazione di capitale culturale, un concetto di Pierre Bourdieu che descrive le risorse simboliche e culturali accumulate da un individuo e condivise all'interno di un gruppo sociale. In questo caso, possiamo ipotizzare che i giovani nati e cresciuti in un contesto di saturazione visiva possiedano un capitale culturale digitale che li spinge a interpretare le immagini più come segni culturali e simboli codificati che come rappresentazioni della realtà. Per i più giovani i segni visivi assumono significati che vanno oltre la raffigurazione, funzionando come una sorta di alfabeto visivo. Insomma, per chi è abituato alla bulimia visiva di Internet, le immagini non parlano del mondo, ma sono parte del mondo.

Distinguiamo allora con Barthes tra denotazione (il significato diretto e obiettivo di un’immagine) e connotazione (il significato secondario, culturalmente o emotivamente carico, che l’immagine può evocare). Le immagini, che per le generazioni più giovani sono parte del paesaggio, hanno un valore denotativo più debole e uno connotativo più forte. Questo diverso approccio si aggiunge al naturale cambiamento del valore connotativo (quindi dei riferimenti culturali) e genera di conseguenza un sensibile divario estetico.

Le stesse affordances delle piattaforme digitali, ossia le possibilità di azione che offrono agli utenti, favoriscono la costruzione di legami sociali attraverso simboli e segni condivisi. I social media facilitano la creazione e diffusione di contenuti visivi come meme, privi di una funzione denotativa ma con un forte valore connotativo. Questo tipo di contenuto opera su codici collettivi, richiamando e creando riferimenti culturali che oltre a veicolare identità e sentimenti di appartenenza vanno a creare giochi linguistici particolarmente densi, con numerosi layer di significato.

L’apparenza veritiera della rappresentazione basta a confermare l’autenticità percepita, senza che si renda necessaria una verifica.

I meme non cercano di rappresentare il mondo in modo realistico, ma utilizzano immagini, testo e contesto per creare e alludere a significati condivisi da specifiche comunità. Funzionano come un segno ideogrammatico, in cui il significato è dettato non da ciò che viene rappresentato, ma dal sistema di riferimento in cui viene letto. I codici attraverso cui le immagini devono essere interpretate emergono in modo estremamente rapido e fluido nelle comunità digitali e la capacità di decodificarli diventa una componente fondamentale dell'alfabetizzazione all’immagine contemporanea.

Al contrario, le generazioni più anziane (i “boomer”), cresciute in un contesto comunicativo pre-digitale, tendono a utilizzare le immagini secondo una prospettiva prevalentemente denotativa. Questa generazione, meno esposta a un uso simbolico e ideogrammatico delle immagini, tende a considerarle come riferimenti diretti al mondo reale. È una fiducia che si basa su un’idea dell'immagine come una finestra sul reale, piuttosto che un segno da decodificare. Un’abitudine che entra in gioco anche quando il valore di verità è palesemente contraffatto: uno sguardo meno allenato alle immagini digitali, unito al fatto che questo valore non sia mai stato messo seriamente in discussione, fa sì che il boomer si confonda con facilità anche davanti a immagini palesemente generate con AI. In fondo anche a lui non interessa troppo se un’immagine è vera o falsa, perché ciò che importa è il suo impatto emotivo e il ruolo che riveste nel costruire un gruppo di appartenenza. A differenza dei più giovani però la tratta sempre “come se” fosse vera. Il valore di verità passa così in secondo piano, ma in uno sfondo in cui la sua presenza viene data per scontato. Per le generazioni più recenti l’immagine è un ideogramma che opera come strumento identitario e culturale, per gli anziani una testimonianza, anch’essa con la funzione di strumento identitario e culturale.

L'immagine fake della bambina col cagnolino che si salva dall’uragano Helene, circolata e condivisa ampiamente sui social

Erving Goffman, sociologo canadese, parlava di presentazione del sé; il meccanismo attraverso cui le persone, in ogni interazione sociale, si comportano come attori che mettono in scena una performance. In questo modello, Goffman distingue due aree fondamentali della comunicazione: il frontstage, dove gli individui presentano un’immagine di sé coerente con le aspettative sociali, e il backstage, in cui possono rilassare il controllo sull’immagine e mostrare il loro “vero sé”. Secondo Goffman, ogni interazione sociale è un atto performativo in cui le persone creano un'immagine di sé calibrata sul pubblico presente.

Per le generazioni più recenti l’immagine è un ideogramma che opera come strumento identitario e culturale, per gli anziani una testimonianza, anch’essa con la funzione di strumento identitario e culturale.

Nel contesto digitale, la distinzione tra frontstage e backstage diventa più sfumata e complessa, perché il pubblico è fluido e non è impossibile che un messaggio destinato a una certa bolla arrivi anche a tutt’altra. Capitano così delle interferenze linguistiche, in cui i genitori sono esposti all’indecifrabile memetica dei figli e questi ultimi alla peculiare comunicazione visiva delle generazioni più anziane.

Sebbene anche i boomer usino le immagini per costruire un'identità culturale infatti, i loro riferimenti e le modalità con cui gli attribuiscono valore sono differenti. Le immagini pseudo-verosimili – come alcune generate dall’AI – vengono considerate autentiche, perché il realismo è sufficiente a ricordare il legame che le immagini possedevano con il mondo. Questo approccio crea una sorta di “fiducia automatica” nel realismo: l’apparenza veritiera della rappresentazione basta a confermare l’autenticità percepita, senza che si renda necessaria una verifica.

Anche le immagini apertamente ideogrammatiche dei boomer si differenziano; tazze di caffè, vecchi fumetti, grandi scritte con font improbabili, convergono tutte verso un’estetica vintage o kitsch, spesso carica di un immaginario nostalgico, rassicurante e legato a valori tradizionali. Ma non è solo il rito del caffè mattutino a tranquillizzare il boomer disperso nelle tempeste dell’infosfera. A generare questo insanabile divario estetico è anche il ritorno delle immagini a un ruolo che si va erodendo e che forse non è mai esistito, quello di descrivere la realtà – una realtà che, oltre a essere in continua mutazione, è di fatto assemblata anche col nostro straripante patrimonio simbolico.

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