Avete visto la foto della bambina col cagnolino che si salva dall’uragano Helene? E se l’avete vista, ci avete creduto? Ma soprattutto, vi siete chiesti perché ci avete creduto? Se l’uragano non fosse stato documentato dai media, probabilmente in pochi avrebbero dato credito all’immagine; ma, dato che l’evento era reale, molte persone sono cadute nell’inganno, compreso Mike Lee, politoco americano e senatore dello Utah. Questo aneddoto – come molti altri – ci suggerisce che la disinformazione non si basa tanto sulla verosimiglianza delle immagini, quanto sulla fonte e sul contesto in cui la notizia prende vita.
Con la diffusione delle AI generative molte testate hanno sollevato voci allarmate sulla fine del valore di verità della fotografia e dei media in generale. The Verge, ad esempio, ha di recente pubblicato in merito “Nessuno è pronto per questo”, un articolo dal titolo sobrio con un finale ancora più sobrio: “siamo fottuti”. Non è una paura nuova; già nel 1897, il New-York Tribune dichiarava che la fiducia nella veridicità della fotografia era "esplosa" grazie al diffondersi del fotoritocco, con parole molto simili a The Verge.
Nel 1911 infatti, i turisti a Washington D.C. potevano persino acquistare foto false che li ritraevano accanto al presidente Taft, cosa che causò preoccupazioni tra i funzionari del governo, tanto che si arrivò a proporre un decreto per proibire le foto manipolate senza consenso. La legge ricevette attenzione mediatica, ma non fu mai approvata. Alcuni, come la rivista American Photography, si opposero temendo che potesse facilitare cause legali infondate.
La forza di un’immagine sta nella sua capacità di raccontare una storia, ma solo se viene sostenuta da un contesto credibile.
Ma è davvero la tecnologia a determinare la veridicità di un’immagine? Prendiamo il caso della prima Guerra del Golfo: nella notte tra il 26 e il 27 febbraio 1991, gli aerei statunitensi distrussero le unità irachene in ritirata lungo una superstrada in Kuwait. Le foto che vennero diffuse mostravano la cosiddetta “autostrada della morte”, una strada gremita di mezzi carbonizzati ma priva di corpi. I cadaveri erano stati inceneriti? O rimossi prima dello scatto? Non lo sapremo mai. Quelle immagini furono usate per consolidare la narrativa del successo militare omettendo la brutalità della guerra. Questo dimostra che anche senza ritocchi il valore documentale di una foto è condizionato dalla decisione di cosa mostrare e cosa nascondere. La scelta dell’inquadratura è la prima menzogna, per parafrasare l’autrica di “Sulla fotografia”, Susan Sontag
Non è tanto la qualità della rappresentazione a conferire credibilità, ma il contesto in cui essa viene diffusa. Il celebre scrittore Arthur Conan Doyle, padre del detective più razionale del mondo, credette alle famose fotografie delle “fate di Cottingley” – dei fotomontaggi amatoriali che raffiguravano delle creature incantate – non tanto per la loro verosimiglianza, ma perché, come esoterista, era incline a volerci credere.
Allo stesso modo, sotto il regime stalinista, la rimozione di personaggi scomodi dalle foto ufficiali avvenne con successo perché sostenuta dall’autorità governativa, come avvenne per Nikolai Yezhov in pieno stalinismo. In entrambi i casi, la verità delle immagini non era data dal loro contenuto visivo, ma dalla narrazione che le accompagnava e dalla fonte che le legittimava.
Un esempio drammatico dell’ambiguità delle immagini come testimonianza storica è rappresentato dalle foto scattate dal Sonderkommando ad Auschwitz. Questi scatti, realizzati clandestinamente dai prigionieri incaricati di lavorare nei crematori, sono tra le pochissime immagini che documentano gli orrori dei campi di sterminio dall'interno. Le foto sono sgranate, confuse, spesso difficili da interpretare: figure indistinte si muovono sullo sfondo, corpi ammassati si confondono tra le ombre. Il loro valore testimoniale non risiede nella precisione visiva, ma nella storia che portano con sé. Sono la cristallizzazione della volontà di testimoniare l’orrore anche a rischio della morte, e tale contesto gli conferisce un'importanza enorme.
Anche nell’era di Photoshop e delle AI, per quanto un’immagine possa essere manipolata o generata acquisirà potere solo se viene diffusa da un’autorità credibile o accompagnata da un contesto e una narrazione persuasiva.
Un altro caso particolarmente illuminante è quello della crisi climatica. Nonostante una quantità impressionante di prove scientifiche, comprese fotografie satellitari, video di eventi climatici estremi e dati empirici che mostrano l’evidente accelerazione del riscaldamento globale, esistono ancora movimenti che negano o minimizzano il problema. La scienza climatica ha raggiunto una quasi unanimità nella sua diagnosi, supportata da una miriade di evidenze visive e tangibili: perché allora esiste ancora un pubblico che nega l’esistenza della crisi climatica?
Non è tanto la qualità della rappresentazione a conferire credibilità, ma il contesto in cui essa viene diffusa.
La paura ha senza dubbio un ruolo importante, ma anche le grandi aziende legate all’industria fossile e i gruppi di pressione economica che hanno investito ingenti risorse per screditare la scienza climatica, seminando dubbi attraverso media compiacenti. Non si tratta (solo) di un manipolo di siti complottisti: come suggeriscono molte ricerche è proprio la provenienza apparentemente affidabile di queste narrazioni a renderle potenti. Se troviamo dei video sugli ufo su una pagina internet non gli diamo lo stesso peso come se li vedessimo al telegiornale, o su un noto quotidiano, al netto della crisi di credibilità dei media.
Grazie a internet abbiamo visto un aumento esponenziale delle persone che hanno accesso alle informazioni rispetto al passato. Le false credenze non si diffondono solo attraverso i canali ufficiali o le autorità istituzionali, ma anche mediante l’amplificazione dei social media. Anche in questo caso però, ad influenzare l’opinione pubblica sono per lo più dei profili con un vasto seguito.
La molteplicità delle fonti di informazione e le conseguenti contro-narrazioni creano una frammentazione che ostacola la formazione di un consenso di massa, ma questo tende comunque a coagularsi attorno a grandi poli carismatici, proprio come in passato. Una delle più dannose teorie del complotto della storia, la caccia alle streghe, si diffuse in Europa a cavallo tra la fine medioevo e l’età moderna, molto prima della fotografia, del fotoritocco, di Photoshop e delle AI. Se come sostiene The Verge “siamo fottuti”, beh, viene da pensare che lo fossimo anche prima.