Una gru blu che svettava da via Alamanni è stato il modo più semplice per indicare in un sms dove si trovava una mostra realizzata con poco più di 500 euro, senza inviti, senza vernissage ma soltanto con il passaparola.
Pensata da Luca Bradamante e allestita in quella che diventerà la sua casa, la mostra il cui titolo ovviamente è stato in cantiere ha espresamente violato tutte le regole che in genere si seguono per organizzare un evento di successo. Così facendo Bradamante, dopo aver chiuso la sua galleria milanese in via Broletto, è riuscito a dare vita a qualcosa che poteva assomigliare ad una "piccola biennale privata", ospitando più di trenta artisti da Torino, Roma, Napoli, Londra e Berlino, tra i quali Paolo Grassino e Pierluigi Pusole, Stanislao Di Giugno e Alessandro Sarra, Domenico Antonio Mancini e Stefania Galegati, Mariangela Levita e Lahar, Christian Hoischen e Sandra Meisel.

Pierfrancesco Cravel: Prima di organizzare questa ed altre mostre sei stato un gallerista?
Luca Bradamante: In realtà non sono mai stato un gallerista. Ho aperto uno spazio per fare esposizioni e per mantenerlo per forza di cose mi sono ritrovato a cercare di vendere quello che esponevo, però non mi sono mai definito un gallerista, nemmeno con gli artisti con cui ho lavorato.
. Io credo che quello del gallerista sia un lavoro ben definito e non era quello che facevo io.
Avevo uno spazio che volevo assomigliasse ad una piccola Kunsthalle, uno spazio per l’arte dove l’aspetto più creativo era la produzione di un’installazione site specific in un grande box di vetro.

P.C.: E cosa ti ha spinto ad organizzare questa mostra?
L.B.:. Il mio lavoro è concepire e organizzare mostre; provengo dall’accademia dove mi sono specializzato in un approccio all’immagine di tipo interdisciplinare antropologico, culturale, storico e filosofico. Per me fare una mostra è fare ricerca.
In questo caso l’idea è nata bevendo un aperitivo. Parlando con Luigi Rizzo, un un artista che poi ha partecipato attivamente alla mostra, gli ho raccontato che stavo ristrutturando una casa degli anni Trenta per andarci a vivere in primavera con la mia famiglia. E lui, in modo molto spontaneo, senza sapere quanto fosse grande lo spazio, o se fosse agibile, mi ha proposto di fare una mostra sfondando una porta aperta perché ci avevo già pensato, ma non avevo ancora trovato il coraggio di andare fino in fondo. mi ha convinto proprio l’entusiasmo di Luigi.

P.C.: Il luogo della mostra, un cantiere, ha influito sulla scelta degli artisti, e sul tuo modo di pensarla?
L.B.: Non potevo trascurare le caratteristiche del luogo dove si andava ad allestire la mostra. Ho pensato che un cantiere è qualcosa che cambia continuamente. Il giorno prima ci sono solo dei pilastri. Quello dopo trovi dei muri che delimitano un bagno, o una futura cucina, per non parlare di tutto il materiale edile e delle attrezzature.
Ho quindi voluto una mostra che, nell’arco della sua sua breve durata, solo 4 giorni, continuasse a cambiare perché mi sono reso conto che il giorno in cui viene inaugurata, invece di nascere, la mostra muore. Il suo momento più vivo, quando paradossalmente un visitatore dovrebbe andarla a vedere è il momento in cui viene allestita. Spesso non si tratta di una semplice fase di montaggio ma piuttosto di un vero e proprio momento creativo.
Così giovedì pomeriggio sono arrivati i primi artisti, e mentre stavamo allestendo abbiamo ricevuto anche anche i primi visitatori.

P.C.: Quali sono state le ragioni che ti hano spinto a fare questa mostra?
L.B.: Ci sono tre regole da seguire per organizzare una mostra anzi quattro: fissare la data del vernissage , il più possibile conveniente, che non coincida con altre mostre o periodi di ferie, scegliere una sede prestigiosa, compilare una lista di artisti il più possibile famosi e identificare un curatore magari à la page.
Con queste regole mi sono scontrato negli scorsi tre anni, mentre cercavo di realizzare delle mostre che attirassero l’attenzione di critici e collezionisti nello spazio di via Broletto.
Qui invece ho preferito fare a meno di tutte queste regole: ho allestito la mostra in un cantiere in periferia senza preoccuparmi se coincidesse con altri eventi, senza l’intervento di un curatore e senza fissare la data di un vernissage .

P.C.: Con quali artisti è iniziata In cantiere ?
L.B.: Con Armilla una grande installazione di Paolo Grassino realizzata con tanti tubi arancioni, tubi che di solito sono nascosti nella parte interna delle case ma che in questo caso l’artista torinese ha portato in superficie riempiendoli di voci e suoni del sottosuolo.

P.C.: Altre volte Grassino ha installato i tubi sulla facciata di un palazzo. In un cantiere potevano al contrario sembrare parte di esso.
L.B.: Ho chiesto a Paolo di partecipare in qualità di capo-cantiere , proprio perché, trasgredendo le regole che ho elencato prima, non ho voluto fare né una lista di artisti né tantomeno una lista di opere d’arte.
Mi sono limitato a cercare tra i tanti artisti che conosco, cinque nomi che sapevo potessero interpretare in modo molto istintivo quello che stavo loro chiedendo.
Ho infatti assegnato ad ognuno di essi un’area del cantiere, dicendo loro che avrebbero potuto portare un loro pezzo, quello di un assistente, di un amico o venire in cantiere e organizzare qualcosa con quello che avrebbero trovato... quindi totale libertà.
Paolo ha voluto portare questi tubi arancioni da cantiere e perché l’effetto fosse ancora più forte ha chiesto gli fosse assegnata la zona d’ingresso e del salone. La gente arrivava, vedeva i tubi in plastica, sentiva dei rumori al loro interno. Era sorprendente e molto bello.

P.C.: Chi altri?
L.B.: È venuto Luigi Rizzo, l’artista che durante l’aperitivo mi ha convinto a fare questa mostra. Al contrario di Paolo, la cui installazione si confondeva con il cantiere, Luigi ha montato la propria come se fossimo al Castello di Rivoli, cioè in modo molto accurato. Ha usato proiettori di altissima qualità, non si vedeva un filo, una cassa messa storta.
Mi ha voluto portare in casa il primo raggio di luce. Il suo lavoro ridisegnava, in quella che sarà la futura area destinata agli ospiti, il ricordo visivo del raggio di sole che penetra attraverso gli scuri.
Luigi ha voluto allestire una propria opera, mentre gli altri capi-cantiere hanno fatto gruppo: Paolo Grassino, ad esempio, ha portato altri 6 artisti, anch’essi torinesi, che hanno lavorato in cantiere e si sono aggirati per il quartiere tutti con la stessa tuta blu e la scritta F.I.A.T. sulla schiena, acronimo che per l’occasione è stato ridefinito come Federazione Italiana Artisti Torino .

P.C.: Quali artisti ha portato Paolo e come li ha scelti e cosa hanno fatto?
L.B.: Sono tutti molto amici, si tratta di un bel gruppo di artisti, immaginavo che Paolo avrebbe creato una buona squadra. Saverio Todaro ha realizzato un uomo disteso con le macerie, una scultura alla quale ha dato il titolo Riposo .
Maura Banfo ha portato un piccolo nido in alluminio, scultura che ha posizionato nel futuro camino, a rappresentare metaforicamente il concetto di casa.
Pierluigi Pusole ha allestito una serie di disegni, una composizione che definirei “museale”, Paolo Leonardo ha portato i suoi manifesti dipinti e Octavio Floreal, artista delle Canarie ma adottato sotto la Mole, ha installato eteree sculture sotto la pesante scala di cemento armato.

P.C.: Chi erano gli altri capi-cantiere ?
L.B.: A Mariangela Levita ho affidato il piano che sarà destinato ai bambini. Mariangela ha organizzato In=Out , una toccantissima performance con Lahara, performer che vive a Londra. È stato un momento molto intenso della mostra. Venerdì sera, tra le 20,30 e le 21, Lahara è rimasto completamente nudo, in ginocchio, con in bocca delle briglie da cavallo facendosi scrivere sul corpo da quanti assistevano alla mostra per sottolineare uno scambio energetico e una comunicazione non verbale. Io stesso quando mi sono avvicinato al ragazzo per disegnargli sul corpo ho avvertito un brivido.
Alessandro Sarra e Stanislao Di Giugno sono artisti romani, vivono uno sopra l’altro in un casale a Tor Pignattara, la Roma di Pasolini. Hanno voluto che assegnassi loro la futura camera da letto, dove hanno voluto fare una mostra sull’intimità. Si sono quindi dati un tema e hanno esposto i loro pezzi "intimi", cioè quelle opere che tieni nel cassetto e per varie ragioni non porti alle mostre ma che sono state tirate fuori per quest’occasione.
Ultimo capocantiere è anch’essa una coppia di artisti, i Masbedo, Nicolò e Iacopo. Pensando che volessero mostrare dei video ho loro assegnato il piano interrato, dove hanno portato Schnee , un lavoro di Esther Mathis, la loro assistente: un video proiettato su una leggera carta velina nel quale l’artista, nel mezzo di una tempesta, lentamente si ricopre di neve. I Masbedo, in omaggio all’opera di Esther, in camice bianco hanno poi cucinato e servito a tutti gli ospiti un risotto allo champagne, dando luogo di fatto ad un’ulteriore performance culinaria.

P.C.: Gli artisti cui hai affidato la tua futura casa hanno dunque organizzato loro piccole mostre all’interno della tua?
L.B.: Questi cinque capi-cantiere hanno portato con sé circa venticinque artisti, cui via via se ne sono aggiunti altri fino a superare la trentina. Beatrice Pediconi ha portato un video semplicemente meraviglioso. Sara Baxter ha allestito 3 lavori site specific sulla trasformazione della casa. Quattro ragazzi da Berlino, Sandra Meisel, Heike Gallmeier, Martin Dammann e Christian Hoischen, un gruppo di artisti tedeschi che ho conosciuto recentemente, non sono riusciti ad essere fisicamente presenti alla mostra perché li ho informati con soltanto una settimana di anticipo. Così mi hanno mandato un messaggio dal Paris Bar di Berlino dicendo che mi avrebbero inviato tre video e alcune foto, dandomi a loro volta totale libertà nell’allestirli. La mostra ha quindi avuto anche un respiro internazionale, ma non aveva molta importanza perché essa voleva essere soprattutto un crogiuolo di opere interessanti da vedere tutte insieme.

P.C.: Altre opere o interventi?
L.B.: Domenico Antonio Mancini ha fatto un castello di sabbia con il cemento per sottrarlo allo scorrere del tempo e Marta Mancini ha allestito un suo piccolo ritratto che si raddoppiava in uno specchio. Carla Matti ha preparato una teca con i frantumi, le macerie, delle sue sculture; Stefania Galegati ha voluto esporre un’ibrido tra un libro d’artista e una collezione di fotografie, Federica Perazzoli ha contribuito con due delicatissimi disegni. Due ragazzi di Brera, Matteo Girola e Costabile che hanno esposto due fotografie e una piccola installazione integrando la mostra sull’intimità. Quasi allo scadere della mostra, Domenica pomeriggio, Stefania Ricci ha aggiunto le sue conosciute farfalle.
Da parte mia mi sono limitato a trasgredire tutte e tre le regole per fare una buona mostra. Non c’è stato vernissage né una lista di artisti. Non c’era un curatore perché non c’era un tema e conseguentemente una scelta di opere in tal senso.

P.C.: E il pubblico?
L.B.: Trattandosi di un cantiere non potevo invitare chiunque, nonostante avessi sospeso i lavori edili. Mi sono affidato al passaparola, non ho fatto nessun tipo di campagna stampa attraverso i soliti canali. Nonostante questo, paradossalmente, il portale Exibart senza che io li avessi informati è uscito con una speednews inviata a migliaia di persone. Tra giovedi e domenica sera sono venuti tantissimi artisti e amici e ci siamo trovati venerdì sera in circa 150 persone ad assaggiare il risotto dei Masbedo.

Immagini:
In cantiere.
Milano 25-28/11/10.
Progetto di Luca Bradamante.
Foto Maura Banfo.