Ripensare a tutte le case in cui si è stati per capire chi si è diventati. È quello che succede nel nuovo romanzo di Andrea Bajani (1975), Il libro delle case (Feltrinelli, 2021), candidato quest’anno al Premio Strega. Capitolo dopo capitolo, casa dopo casa, la vita del protagonista si dipana attraverso un lungo elenco di tutte le abitazioni di cui lui stesso ha memoria. A ognuna è dedicato un breve racconto (in alcuni casi, più d’uno) chirurgicamente poetico, dove muri, corridoi e arredi sono protagonisti.
Come le stanze del palazzo al numero 11 dell’immaginaria Rue Simon-Crubellier, felice invenzione letteraria di George Perec (La vita istruzioni per l’uso), le case di Bajani sono i pezzi del puzzle che compone la vita: assistono impassibili ad amori e passioni, tradimenti e rancori, lutti e separazioni. Le case – ma anche gli ascensori, le cabine telefoniche, le auto, le finestre – osservano, ascoltano, a volte confortano i protagonisti. Sono reali o interiori, immaginarie o metaforiche. In fondo, come ha scritto la canadese Premio Nobel Alice Munro, “Una storia non è una strada che ci si mette a percorrere, è una casa. Ci entri e ci rimani per un po’, andando avanti e indietro e sistemandoti dove ti pare, scoprendo i rapporti tra camere e corridoio”.
Andiamo subito al punto: noi siamo le case che abitiamo?
In fondo credo che amiamo le case che ci offrono la storia che ci assomiglia di più, e ci offrono di esserne protagonista. Quando vediamo per la prima volta una casa, quando ci andiamo in visita e valutiamo se prenderla in affitto o acquistarla, o anche quando entriamo in una casa altrui, d’istinto proviamo a inserirci lì dentro, a immaginarci tra quelle mura, dietro quelle finestre, di fronte a quel panorama. Il che significa, appunto, che c’è una storia che si apre davanti a noi e ci chiede di entrare. E per forza di cose, quando poi accettiamo di farne parte, tutti gli altri attori in gioco ci condizioneranno.
Nel libro ci sono anche delle case metaforiche. Mai invece luoghi pubblici. Quale elemento è stato determinante nella definizione di “casa”?
Per rispondere a questa domanda devo mettermi almeno apparentemente in contraddizione con quanto ti ho risposto poco sopra. E cioè, penso che per me ‘casa’ sia il posto in cui siamo quello che siamo senza spettatori, cioè senza la versione di noi che scegliamo per gli altri. Per questo poi esistono le persone-casa, le strade-casa, gli oggetti-casa. L’esempio per me più luminoso di casa è l’amicizia (non a caso nel libro ci sono tre case dell’amicizia): alla mia casa chiedo di essere come il mio migliore amico. Di non giudicarmi, di ascoltarmi, di parlarmi, di farmi ridere, di offrirmi un silenzio pieno di premura quando piango.
“La città che caccia la campagna con le sue ruspe. Poi pianta l’erba nelle aiuole in memoria dei campi coltivati…”, “Urbanistica purgatoriale con spazi verdi e parchi giochi…”, “Io del quartiere non conosce niente se non la strada per uscirne…”, “Bulimia edilizia che infuria nel quartiere…”. La periferia italiana è tutta da rifare? Come?
Questa è una domanda a cui non so rispondere, o meglio non penso di avere gli strumenti necessari. Tieni anche conto che ti rispondo da Houston, in Texas, dove vivo in questo momento. Per cui la provincia italiana è forse quella di cui ho più nostalgia. Osservata dalla prospettiva dello spietato gigantismo texano, l’Italia tirata su dai geometri in provincia mi appare come la più poetica e struggente delle vite alternative.
Il linguaggio del libro è poetico e tecnico allo stesso tempo. Come sei riuscito a essere così preciso, senza essere architetto?
Uno scrittore che ho amato molto, Octavio Paz, diceva che esiste poesia in un paesaggio, in uno sguardo, in un oggetto. E i poeti, che hanno solo le parole, fanno questo: strofinano le parole fino a produrre quel senso di poesia che nella realtà è a portata di tutti.
Un architetto o un tipo di architettura che ammiri?
Varia anche molto a seconda delle fasi della mia vita. Ma so che quando entro alla Menil Collection, qui a Houston, e passeggio dentro questo edificio così semplice progettato da Renzo Piano, ogni volta sento l’architettura cos’è. È quel silenzio specifico, è quel vuoto specifico dentro cui vorrei camminare per sempre. È quell’invisibile che so misurare a passi, così come la letteratura è l’invisibile che ci cambia la pasta dello sguardo. Da dentro quel vuoto disegnato da Renzo Piano, Rohtko, Magritte, Mondrian mi guardano, si sbracciano, ma quello che io ogni volta porto a casa è quell’assenza così piena di senso.
Nel libro, un ascensore “osserva” frammenti di vita dei personaggi, dalla sua posizione defilata. Dovremmo prestare più attenzione alle cose anonime e ai non-luoghi che ci stanno intorno?
Quanto meno sapere che siamo in relazione con le cose e i luoghi. E che non possiamo cavarcela semplicemente pensando che se non le o li guardiamo non esistono. Come le persone che non rivolgono lo sguardo agli altri, non salutano, non ringraziano, non si accorgono del gesto di un altro. Facciamo la scelta di essere così. Il che per me equivale a una vita impoverita, oltre che a una sorta di mancanza di generosità.
In quest’ultimo anno, abbiamo passato tanto tempo in casa e ci siamo dovuti adattare in spazi spesso non adeguati. È cambiato il tuo rapporto con la casa?
È stato un anno che ha, di fatto, tolto dalla casa ciò che la fa tale: la dialettica dentro/fuori. La casa è a volte rifugio a volte prigione proprio in virtù o a causa del suo rapporto con il fuori. Togliendo il fuori, la pandemia ha umiliato le case, in qualche modo, perché ha chiesto loro più di quanto potessero dare. Ha chiesto loro non di essere l’alternativa al mondo esterno, ma di essere tutto il mondo. Ed essendo quella con la casa una relazione, come dicevo poco sopra, si è entrati in una relazione ossessiva, che per forza di cose ha finito per sopraffarci.
Come l’hai vissuto tu, il lockdown?
Io ho avuto la fortuna e la sfortuna di vivere questo periodo negli Stati Uniti, dove tutto è stato al contempo più feroce e più umano: grazie alla vastità del Texas, non abbiamo mai smesso di uscire di casa mantenendo le distanze.
C’è un autore, un libro, un film che ti ha influenzato o ispirato per questo romanzo?
Non in senso stretto. Ma spesso, scrivendo, pensavo ai romanzi di Milan Kundera, e a quel primo amore letterario. A 18 anni scoprii che si poteva scrivere una storia frammentata e al contempo appassionante. Non lo sapevo, e la sua idea di romanzo polifonico mi folgorò. Scrivere questo romanzo, e scriverlo in questo modo, è stato anche una forma di restituzione.
Come si chiama la casa dove vivi adesso?
Casa nostra, come la chiama nostro figlio. Abbiamo appena traslocato, nostro figlio è ancora disorientato, per cui gli abbiamo detto che era casa nostra, che è come dire la vera casa siamo e saremo sempre noi. Con o senza muri intorno.
In apertura: Lebohang Kganye, He could hear the voices of his ancestors, 2020. Dalla serie: In Search for Memory.
Artista e fotografa, Lebohang Kganye (Johannesburg, 1990) è la vincitrice del Grand Prix Images Vevey 2021 con l'opera Staging Memories, sviluppo della serie In Search for Memory. In questa serie interroga il bisogno di conservare e ricordare narrazioni condivise. Nel 2022 Lebohang concepirà per Images Vevey una grande installazione tridimensionale.