Il primo libro di Benjamin Labatut, La Antártica empieza aquí, è una raccolta di racconti pubblicata nel 2012, seguita quattro anni più tardi da Después de la luz, una serie di riflessioni filosofiche, note scientifiche e storiche sull'idea del vuoto, che l'autore cileno raccoglie per costruire “un sistema di collegamenti apparenti” – così lo descrive Matías Celedón, giornalista e romanziere suo connazionale. Tuttavia, è il suo terzo libro, Un verdor terrible (Quando abbiamo smesso di capire il mondo, Adelphi 2020), quello con cui l’autore, nato a Rotterdam nel 1980, attira una attenzione globale, e che presto si trasforma in un cult, un successo coronato dalla recente candidatura all’International Booker Prize 2021. Non è un romanzo né un'opera saggistica in senso stretto ma, come sottolinea l'autore italiano Gianluca Didino, può essere schematizzato come una raccolta di quattro testi indipendenti, nei quali si affronta in modo differente il rapporto tra realtà e finzione, costituendo ognuno di questi oggetti letterari il punto di partenza per una possibile discussione sui limiti e i confini di una narrazione contemporanea. È un libro sui complicati legami tra scoperta scientifica e matematica, follia e distruzione, e “i limiti della conoscenza umana, e le premesse non troppo piacevoli su cui la realtà fisica sembra essere costruita”, scrive Simon Ings su The Spectator. Ha come protagonisti alcuni fra i più importanti scienziati e matematici del XX secolo: Fritz Haber, padre della guerra chimica ma anche inventore di un sistema di fertilizzazione da cui dipende ancora metà della popolazione mondiale, il matematico Alexander Grothendieck, che visse in isolamento per gli ultimi 15 anni della sua vita; Werner Heisenberg, premiato con il Nobel per la fisica nel 1932 “per la creazione della meccanica quantistica” ed Erwin Schrödinger, premiato anche lui con il Nobel, ma un anno dopo, e più banalmente famoso per l'esperimento mentale che ne porta il nome – quello del gatto, per intenderci.
A marzo, Benjamin Labatut ha partecipato alla Milano Digital Week con un testo inedito, i cui personaggi principali sono due scrittori americani, uno famoso per i suoi strani racconti horror, l'altro per i suoi paradossali racconti di SF, e un matematico tedesco, uno dei più influenti nella storia contemporanea della disciplina.
P.H. Lovecraft, Philip K. Dick e David Hilbert sono i protagonisti della tua lectio magistralis alla Milano Digital Week. Pensi che il nostro presente possa essere compreso solo attraverso la lente del secolo scorso?
La lente del passato può alterare la realtà tanto quanto quella attraverso cui guardiamo il presente, ma non credo che si possa aspirare a vedere il mondo in altro modo, se non attraverso un vetro scuro. È come guardare le nostre vecchie foto: vediamo quanto eravamo stupidi, mal vestiti, ignoranti e ingenui allora, eppure è uno shock scoprire che ciò che era vero allora, lo è ancora adesso. Anche nel XXI secolo, viviamo -come scriveva Lovecraft- in una placida isola di ignoranza in mezzo ad un mare nero di infinito. In questo senso, il passato non è una guida, specialmente quando ci muoviamo verso un futuro strano che corre all’impazzata verso di noi. Allora, dove possiamo rivolgerci e chi ha le risposte? Da nessuna parte e nessuno. Questa è la difficoltà della condizione umana: la nostra unica saggezza è tragica, conosciuta troppo tardi, e solo a chi si è perso, come diceva Guy Davenport. La buona notizia, l'unica consolazione in questa nostra condizione, è che la comprensione non è davvero una necessità: possiamo farne a meno, come di fatti facciamo normalmente. Il mondo gira senza comprensione, i cani abbaiano senza comprensione, i nostri cuori battono, i nostri polmoni si riempiono d'aria, mangiamo, dormiamo, sogniamo e scopiamo senza nulla che assomigli alla vera comprensione. Se restiamo in vita è perché c'è una saggezza propria del corpo, una conoscenza che vive attraverso di noi, e che non richiede il nostro controllo razionale. E dovremmo essere grati per questo.
La scienza è stata la grande narrazione del ventesimo secolo. Ancora oggi? O forse ha ceduto il passo alla tecnologia?
Non possiamo ancora seppellire la scienza o gioire della sua morte, è ancora – e continuerà ad essere – uno dei nostri strumenti più preziosi, di cui non possiamo fare a meno. Nemmeno la tecnologia non può essere scissa dalla scienza, perché sono completamente interdipendenti. Ma la scienza è solo una delle modalità di pensiero che possediamo, uno dei tanti modi che usiamo per dare un senso al mondo. Arte, religione, spiritualità, letteratura, politica, sport; le nostre storie -sia personali che sociali- nascono da un miscuglio di tutte queste cose. Gli esseri umani sono molto complessi: ci portiamo dietro modi di guardare il mondo antichi e nuovi, proprio come i nostri cervelli e corpi conservano strutture e organi che rimandano a forme di vita più elementari. Le minuscole ossa che abbiamo nelle orecchie sono l’evoluzione del dente di un rettile antidiluviano, che è migrato fino alla parte posteriore delle nostre orecchie; quasi allo stesso modo, rispondiamo ancora alle [U1] grandi narrazioni del passato, sia recente che antico, e le nostre menti e visioni del mondo sono costruite tanto sui miti greci, giudei e romani quanto sulle storie di Facebook e Instagram. E se è vero che le nostre narrazioni più importanti sembrano sgretolarsi intorno a noi, è anche verosimile che nuove stiano lentamente prendendo forma, anche se ce ne renderemo conto solo quando esploderanno in tutto il mondo.
In un universo parallelo, dove i protagonisti non sono mai esistiti, il tuo libro Quando abbiamo spesso di capire il mondo potrebbe essere un grande romanzo di Roberto Bolaño o di un altro grande scrittore postmoderno. Qual è il limite tra finzione e realtà, secondo te?
Credo che il ruolo degli artisti in generale, e degli scrittori in particolare, sia quello di oltrepassare i confini, estendere la nozione di ciò che è reale, e arricchire gli eventi monotoni della realtà con quella abilità della narrativa di dotare i fatti del mondo della cosa che ci è più cara: il significato. Nella mia scrittura cerco ciò che è vero, non necessariamente ciò che è reale. Mi affascinano anche quegli eventi storici che sono così straordinari da sembrare incredibili, e le verità estatiche che solo la nostra visione interiore, l'occhio demoniaco della finzione, può vedere.
Quando scrivo ricerco ciò che è vero, non necessariamente ciò che è reale
Al giorno d'oggi, la realtà sembra essere più fittizia della finzione. E chiunque può diventare un narratore sui social media.
La realtà ha perso parte del suo fascino, è vero, ma credo che questo sia dovuto al fatto che il genere umano ha sempre desiderato vivere all’interno della sua immaginazione. Abbiamo costruito un mondo che è, in larghissima parte, “fittizio”, perché abbiamo questa strana doppia nazionalità: siamo senza dubbio parte del mondo fisico, eppure, allo stesso tempo, ci sembra di abitare un luogo completamente diverso, fatto dei nostri pensieri, delle nostre idee, dei nostri sogni, incubi e fantasie. È a questo secondo mondo che apparteniamo veramente, perché lo abbiamo creato a nostra immagine. In tal senso, il ruolo non solo della letteratura, ma di tutte le attività creative, è ancora del tutto fondamentale, perché possiamo solo abitare un futuro che abbiamo già immaginato. E in questo la letteratura è chiave: i libri non devono solo restituirci la realtà, ma materializzare il sogno di un universo, come facevano gli dei nelle storie di un tempo.
La tecnologia può aiutare a riempire i vuoti della realtà, e darci prova che non sia falsa o simulata? Penso per esempio alla blockchain, un sistema informatico che in qualche modo convalida la realtà, qualcosa per cui Wittgenstein probabilmente andrebbe matto...
Oh sì, Wittgenstein probabilmente ci sta urlando contro dalla tomba (e probabilmente ha la bava alla bocca e mi sta rimproverando per aver scritto tutte queste cose stupide e senza senso). Eppure, non credo che ci importi davvero che una cosa sia falsa o simulata, finché quello che stiamo provando ha la ricchezza, la profondità e la bellezza della cosiddetta “realtà oggettiva”. I sogni e gli incubi possono essere tanto vividi quanto qualsiasi nostra esperienza da svegli. I bambini piccoli lo sanno. I film e i libri possono essere più fedeli alla vita di qualsiasi atlante o raccolta di fatti isolati. Dice molto di noi il fatto che la nostra specie abbia creato un mondo così bizzarro, così complesso e così veloce, a tal punto che stiamo perdendo il controllo sulla realtà. Ma non possiamo lasciare nessuna decisione importante nelle mani di un sistema o di una macchina non pensante (e, soprattutto, non sensibile). Dobbiamo trovare la nostra strada per tornare alla realtà. Basta pensare alle storie che racconta la scienza: sono basate su fatti, sono belle, coerenti, solide e potenti. Eppure non possono ancora competere pienamente con le parabole raccontate da un falegname duemila anni fa.
Arcosanti è una città sperimentale fondata nel 1970 dall’architetto italiano Paolo Soleri in Arizona, nel deserto. È solo una delle tante esperienze di persone che cercano di rifondare da zero la realtà. Come il cliché di SF dell'Arca. Ma questo secondo te è il modello giusto per ridisegnare la realtà?
Assolutamente no. Se c'è una cosa che la storia ci ha insegnato è che non possiamo semplicemente pensare ad una via d'uscita dai problemi, o costruirci il percorso verso la felicità e la prosperità. Le città sono un grande esempio di questo, perché sono organismi che vivono e respirano. Le vere città crescono più o meno come fa il mondo naturale, senza un principio organizzativo centrale, senza un vero architetto a dirigere il tutto. Le migliori città, i luoghi più belli di questo mondo, sono cose che non sono tanto costruite, ma che "crescono", organicamente, per tentativi ed errori, attraverso una miriade di scelte che possono portare (e spesso lo fanno) a soluzioni sbagliate, o a costruire brutti edifici. Nascono e prendono forma, poco a poco. Non dovremmo essere così impazienti di ripartire da zero. Né dovremmo pensare di poter progettare una via d'uscita da tutto.
L'architetto e teorico italiano Alessandro Melis, nella sua esplorazione della resilienza, studia le implicazioni di un'architettura basata sul concetto biologico di esattamento. È in qualche modo collegato a quello che dici della scienza, che non è solo un metodo, ma anche “l'idea che il nostro mondo segua un ordine”?
Ho una diffidenza naturale nei confronti degli architetti. Forse perché condividono molte caratteristiche con gli scrittori; entrambi costruiscono mondi, in modo piuttosto egocentrico, ma i mondi della letteratura non prendono quasi mai forma, esistono solo nella mente delle persone, e quindi sono, sotto quasi tutti gli aspetti, privi di qualsiasi potere reale. L'architettura, invece, fa quasi paura per l'influenza e la potenza che esercita. Ma non c'è nessun antidoto semplice a questo, perché l'architettura ha a che fare soprattutto con ciò che è concreto. Un architetto, a differenza di un autore, deve affrontare gli aspetti più duri dell'esistenza biologica: che abbiamo bisogno di un riparo per sopravvivere, che viviamo insieme in paesi e città, o che tutti dobbiamo cagare dopo aver mangiato. Ma è nella volontà dell'architetto che risiede il pericolo maggiore. La volontà, il potere di ogni individuo di imporre la propria visione sul mondo. In questo senso, l’esattamento sembra una soluzione valida, perché è un modo per lasciare che influenze altre, esterne, naturali o sociali, partecipino alla formazione del processo. Allo stesso tempo, sarebbe interessante sentire questa conversazione tra un architetto e un cliente: ‘A cosa dovrebbe servire questa struttura? Non so bene, cioè, adesso è un bagno, ma ha molto potenziale! Forse domani potrà essere usata come una piscina coperta, o un piccolo skatepark... Meglio lasciarla così, sicuramente usandola adotterà nuove funzioni!’ Sarebbe difficile da vendere... ma d'altronde, cosa ne so io di architettura?
“Vogliamo costruire qualcosa di nuovo ma abbiamo solo rottami”, dici nella lectio magistralis. Se smettessimo di capire il mondo, pensi che costruiremmo sul caos? Come una sovrastruttura che poggia sull’illusione di comprendere la realtà che ci circonda?
Possiamo costruire sul caos – lo facciamo già. Il caos può, se visto da una certa prospettiva, offrirci terreno fertile. Non è solo disordine, è più simile all'imprevedibilità. I sistemi caotici sono difficili da controllare, ma possono essere una meravigliosa fonte di ispirazione, perché il caos non è come tutti pensano: non è un luogo dove tutto è permesso. Ci sono forme definite nel caos. Ci sono alcune cose che servono per attrare, forze potenti verso cui gravitiamo, traiettorie che possono essere tracciate nel tempo. Se il caos ha una funzione, è quella di insegnarci i limiti del controllo e i confini della razionalità. Dobbiamo abbracciare il caos per raggiungere una comprensione più profonda. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che siamo, più di ogni altra cosa, organismi biologici: ciò significa che abbiamo una certa “percezione” del caos. Abbiamo una consapevolezza animale della sua strana influenza. E questo ci aiuta a muoverci in un mondo che non potrà mai essere completamente vincolato da un ordine, per quanto perfettamente equilibrato.
Immagine di apertura: Benjamin Labatut ritratto da Juana Gomez