“La mia visione è semplice: quando progetto un hotel, cerco di lavorare in un raggio di 50 km con l’idea di trovare sia degli scarti che si possono riutilizzare – come scarti industriali o rimanenze d’atelier – sia degli artisti locali con i quali posso collaborare. Il presupposto è quello di eliminare i costi di trasporto e avere un hotel con più anima, senso e unicità, così da fuggire alle proposte già viste dei cataloghi”.
Come sarà l’hotel del futuro? Lionel Jadot ha una soluzione
Abbiamo incontrato l’eclettico belga eletto designer dell’anno a Maison&Objet, che sta sperimentando un modello di hôtellerie aperto ai materiali biocostruiti e alla condivisione con i giovani designer.
Foto Anne Emmanuelle Thion
Foto Anne Emmanuelle Thion
Foto Anne Emmanuelle Thion
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- Giulia Zappa
- 24 ottobre 2024
Belga, autodidatta, un percorso professionale iniziato dentro l’atelier di famiglia nel quartiere di Saint-Gilles, piena Bruxelles, dove per cinque generazioni si sono realizzate sedie, Lionel Jadot mantiene tuttora l’aria di un outsider, pur avendo contributo negli ultimi anni a far parlare tanto di sé che della scena belga, catapultata alla ribalta del design internazionale attraverso l’esperienza di Zaventem Ateliers – che da qualche anno troviamo anche a Milano in Design Week, nel suo spin-off itinerante dei Baranzate Ateliers.
In una sorta di continuità naturale tra l’autore e la sua opera, outsider lo è anche la sua installazione Anthropocene Adhocsism, presentata all’ultimo Maison&Objet di Parigi, dove Lionel Jadot è stato nominato Designer of the Year. Tra i padiglioni della fiera, questa sovrapposizione di container popolata di stimoli materiali eterogenei e inattesi spiccava ineguagliata, creando un vortice tra un certo senso del passato, incarnato dagli stand tradizionali, e una visione netta di quello che potrebbe essere il futuro: il futuro degli hotel.
Il presupposto è quello di eliminare i costi di trasporto e avere un hotel con più anima, senso e unicità, così da fuggire alle proposte già viste dei cataloghi.
Lionel Jadot
Jadot rinnega infatti la filiera produttiva tradizionale dell’hôtellerie come l’abbiamo conosciuta. Alle forniture che arrivano dall’altra parte del mondo, preferisce materiali e mobili reperiti in prossimità. Al progetto firmato dal professionista del momento, una cordata di creativi che lavora in sintonia. Ai materiali inquinanti, i leftover o i materiali biocostruiti. Ed è questa forse la cosa che più sorprende e lascia spazio a domande: visitando Anthropocene Adhocsism, metafora di un’isola deserta dove le soluzioni abitative emergono senza soluzione di continuità da rifiuti e detriti, gli arredi scelti per l’installazione includono anche pezzi realizzati in materiali organici e biologici, come tavolini in micelio, testate in erba e cartapesta, o tele in pelle di melanzana. Tutti, assicura Jadot, hanno passato le certificazioni di settore, incluse quelle ignifughe, rendendo di fatto scalabile la loro utilizzazione.
Infatti, commentando l’eclettica combinazione di soluzioni di Anthropocene Adhocsism, Jadot ci spiega: “Piuttosto che ordinare dei pezzi che vengono dall’altra parte del mondo e che vengono spediti via container, per poi rompersi dopo due anni producendo dei rifiuti che debbono essere smaltiti qui da noi, preferiamo creare del valore per il nostro cliente mostrandogli che può investire in maniera diversa rispetto all’usa e getta, ad esempio includendo lavori di designer, che con il tempo si possono rivelare un ottimo investimento perché possono prendere valore”.
Questo approccio non rimane confinato alla mera simulazione. A Bruxelles, Jadot ha appena completato il Mix Hôtel, lavorando sui 25.000 mq della Royale Belge (emblematico edificio per uffici del 1970 progettato da Pierre Dufau e René Stapels, n.d.r. ) dentro il quale ha già anche realizzato una nuova mostra di collectible, Curated. Con la stessa filosofia, nel 2022 ha completato il Jam Hotel a Lisbona, dove i ripiani dei bagni sono realizzati utilizzando gli scarti di marmo delle cave intorno alla città, la carta vetrata recuperata dalle falegnamerie è servita per l’impiallacciatura delle porte, mentre il sughero è stato utilizzato per i pavimenti. Insieme alla rigenerazione degli scarti, entrambi gli spazi ospitano lavori e arredi di designer locali, secondo un business model oramai collaudato.
“Ho inventato un sistema che ho chiamato Realistic Circle. Il cliente paga il mio studio per creare un concept e seguirne l’implementazione, ma tutte le persone che integriamo nel progetto fatturano direttamente al cliente, senza commissione, al prezzo più basso. Questo presupposto permette di creare un risultato virtuoso, semplice e onesto”, ci racconta. “Questa eterogeneità mi interessa molto. Io non ho un materiale d’elezione né uno stile di riferimento. Sono autodidatta, molto caotico, e il mio processo è che non esiste alcun processo: sono molto istintivo. Quando arrivo in un luogo, non ho ricette precostituite, ma lo voglio annusare per poi scrivere una sceneggiatura. Ecco, in fondo ho solo voglia di raccontare una storia differente per ogni progetto”.