Il design della cuteness: i 50 anni di Hello Kitty

La ragazza-gattino che dal Giappone ha conquistato il mondo compie mezzo secolo. Ripercorriamo il suo successo atemporale e i significati dietro l’iconico design.

Sembrerebbe difficile da crederci, ma Hello Kitty, il gattino timido, senza bocca e dal fiocco rosso nei capelli, ha compiuto 50 anni. È il 1974 e la Sanrio, azienda giapponese specializzata nella produzione di sandali in plastica decorati con illustrazioni di varie fogge, specialmente fragole, impiega la disegnatrice Yuko Shimizu. Un gattino, un Bobtail Cat giapponese donato all’illustratrice dal padre, è l’ispirazione che porta alla nascita dell’icona che è oggi Hello Kitty e che cambierà per sempre il destino (e fatturato) dell’azienda nipponica. 

Solo due anni più tardi, nel 1976, la Sanrio sbarca negli Stati Uniti, inaugurando il suo primo Gift Shop a San Jose, California. Da qui in poi sarà un lungo percorso di affermazione, contro i ben più celebri personaggi illustrati americani, come quelli dell’universo Disney. 

A distanza di mezzo secolo, però, Hello Kitty non sembra essere invecchiata. Anzi, la sua popolarità iconografica sui social media e nel retail la rendono sfuggente a ogni tipo di canoni temporali. Al massimo la si potrebbe semplicemente inquadrare nell’ondata di nostalgia y2k, ma c’è di più.

Yuko Shimizu. Foto da Wikipedia

Il successo di Hello Kitty è senza dubbio anche economico. Come ha recentemente riportato la BBC, nell'ultimo mezzo secolo i profitti del marchio hanno superato gli $80b, con una rendita annuale di circa $4bn come sottolinea invece The Economist. Il tutto ha reso Hello Kitty il più grande franchise giapponese al mondo, secondo solamente ai Pokemon. 

Qual è, dunque, il segreto atemporale di Hello Kitty? Senza dubbio, va ricercato anche nel suo rapporto con il design, da intendersi sia come elemento estetico che, più labilmente, morale e concettuale. Quello di Hello Kitty, si potrebbe sostenere, è un design della cuteness, concetto mal traducibile in italiano, ma che potrebbe essere – pur non precisamente – reso con ‘tenerezza’ o ‘carineria’.

Uno scaffale dedicato a Hello Kitty a H-Mart, supermercato coreano. Foto da Flickr

Nel saggio The Power of Cute, Simon May spiega che il ‘cute’ è in quanto non è chiaramente. Elude la responsabilità, si prende gioco del potere e sfugge al giudizio morale e ad uno sguardo troppo insistente: di fatto riesce a permeare la contemporaneità restando sempre ai limiti della percezione e dell’attenzione.

Non a caso – tanto per il suo successo economico che iconografico – Hello Kitty è infatti stata incoronata ‘Ceo of cuteness’. Maria José Brialdi studia e ricerca proprio questa tematica all’interno del corso di Scienze dei Beni Culturali presso l’Università Statale di Milano. Ci spiega che “il concetto di cuteness è elusivo e di difficile definizione per sua stessa natura. Si può dire che cute non è bello, non è grottesco, non è kitsch, non è camp e non è sublime, nonostante sia un po’ tutte queste cose”. 

Davanti a Hello Kitty, ai suoi tratti giocosi e leggeri, senza dubbio infantili, ci troviamo infatti confortati, incantati e anche un po’ confusi, ma sicuramente mai spaventati.

Simon May, The Power of Cute

Tutto ciò che è cute, spiega sempre Brialdi, “ci fa sentire meno soli ma non svela mai tutte le sue carte, ponendosi in una condizione di intima distanza, per cui può appagare e rasserenare senza assumersi responsabilità e mantenendo un incanto perpetuo. La fruizione del cute è sempre un’esperienza deliziosa.”

Il cute possiede una componente di bruttezza e deformità, che però riesce a dosare perfettamente.

Maria José Brialdi

D’altronde la parola ‘cute’ è strettamente legata al concetto di ‘kawaii’. Un termine-ombrello giapponese che racchiude un mondo iconografico, anzi, una vera e propria subcultura che dagli anni ‘70 – proprio quando nasce Hello Kitty – celebra la cuteness, la semplicità e la timidezza dei modi e del costume, spaziando da prodotti letterari (manga) e audiovisivi (anime), fino ad accessori e abbigliamento.

Alle radici semantiche del concetto di kawaii c’è il lemma giapponese ‘kawayushi’, che nella sua accezione originale e fino alla metà del Novecento significava ‘timido’ o ‘imbarazzato’.

Un treno a tema Hello Kitty che percorre la tratta da Kyoto a Kansai. Foto da Wikipedia

La timidezza è un concetto strettamente legato a quello di cute e che definisce la personalità di Hello Kitty, il cui profilo rientra nei canoni della ‘shy girl’, la ragazza timida, un dei topos della cultura kawaii, che anche grazie alla viralità dei social media è diventato pilastro iconografico adolescenziale. 

“Nelle culture asiatiche c’è spesso la tendenza a considerare un temperamento silenzioso e un carattere docile come qualità morali. Al contrario, nell’Occidente culturalmente assoggettato dalla retorica del sogno americano, i personaggi più popolari hanno sempre personalità forti e carismatiche. Per questo Hello Kitty all’inizio ha dovuto faticare per guadagnarsi l’affetto dei suoi amici oltreoceano, andando letteralmente a bussare alla porte delle case degli americani, in un primo momento in cui l’azienda vendeva i suoi prodotti porta a porta. Che cosa ci dice però che la ragazza-gattina sia effettivamente timida però, quando il suo motto è 'you can never have too many friends?'”
 


A differenza del pensiero comune, infatti Hello Kitty – le cui generalità rispondono a White Kitty – non è propriamente un gatto, ma una ragazza, alta l’equivalente di cinque mele, che vive nella periferia di Londra, insieme alla sorella gemella Mimmy e al loro animale domestico, il gattino Charmmy Kitty. A rivelarlo è stata Christine R Yano, antropologa e curatrice della prima retrospettiva dedicata a Hello Kitty, tenutasi presso il Japanese American National Museum di Los Angeles nel 2014, in occasione del quarantesimo anniversario del personaggio. 

Al tempo della sua creazione, a metà anni ‘70, Londra, come spiega Yano, incarnava infatti l’idealizzazione per eccellenza dell’infanzia. Non a caso, Hello Kitty ha da poco ricevuto anche gli auguri del Re Carlo per i suoi primi 50 anni.

La retrospettiva dedicata a Hello Kitty curata da Christine R Yano al Japanese American National Museum di Los Angeles nel 2014. Foto Jessica Estrada

Sembrerebbe superfluo, ma l’antropologia è di fondamentale importanza per comprendere il fenomeno Hello Kitty. Maria José Brialdi riprende gli studi pubblicati nel 1943 dal biologo ed etologo tedesco Konrad Lorenz sugli attributi fisici che ci rendono maggiormente inclini all’accudire un essere vivente. Tra questi ci sono una testa grande in rapporto al corpo; una fronte enorme, sporgente; occhi grandi, posti nella parte bassa della testa in confronto agli adulti; guance paffute e rotonde; una conformazione del corpo paffuta e rotonda; estremità corte e grassocce; superfici corporee morbide e piacevoli al tatto; movimenti deboli e goffi. “Questa lista fornisce delle coordinate fondamentali per identificare e analizzare la cuteness: Hello Kitty incarna perfettamente il profilo dell’oggetto cute secondo Lorenz,” spiega la ricercatrice. 

Sulle stesse basi, negli anni ‘70, il biologo evoluzionista Jay Stephen Gould aveva non a caso condotto uno studio su come nel tempo fosse cambiano il disegno di Topolino, incontrando canoni sempre più infantili, in linea con quelli individuati da Lorenz, come l’aumento della dimensione della testa e degli occhi.

Una versione "samurai" di Hello Kitty. Foto Shogun Maki

“Il cute possiede una componente di bruttezza e deformità, che però riesce a dosare perfettamente,” prosegue Brialdi, che sottolinea poi come gli stessi tratti estetici siano, benché in chiave maggiormente perturbante, alla base del successo iconografico dei Balloon Dog di Jeff Koons.

Alle radici del successo trasversale di Hello Kitty c’è però anche un’altra cifra strettamente connessa con il suo design, ovvero l’assenza di bocca. Secondo Sanrio, è un modo per esprimere che la ragazza-gatto non ha bisogno della bocca per esprimere i suoi sentimenti, perché parla con il cuore. Hello Kitty supera dunque ogni barriera linguistica e geografica, rimanendo un’icona comprensibile e consumabile in tutto il mondo. 

Allo stesso tempo, come dichiarato da Yuko Yamaguchi, dal 1980 disegnatrice di Hello Kitty, questa cifra stilistica aumenta l’empatia del pubblico nei suoi confronti, perchè ognuno può proiettare sul personaggio il sentimento maggiormente in linea con il proprio stato d’animo. L’intento dichiarato è dunque quello di mantenere una neutralità tale da poter far breccia nel cuore di tutti.

Proprio in virtù di questa sua trasversalità, dal 1984 Hello Kitty è ambasciatrice UNICEF negli Stati Uniti, dal 1994 anche in Giappone, mentre nel 2004 l’istituzione le ha dedicato un titolo a lei esclusivo, quello di Special Friend of Children. A proposito di iniziative benefiche, nel 2013 una copia unica di una bambola Hello Kitty con le sembianze della pop star Lady Gaga è stata battuta all’asta per $21.729,00. Nel macrouniverso di Hello Kitty non può infatti mancare la costole del collezionismo, con oggetti e memorabilia che lambiscono addirittura i $100.000,00.

Si tratta fondamentalmente di un personaggio che si può amare senza impegno, nei ritagli di tempo delle nostre vite frenetiche.

Maria José Brialdi

A testimoniarne la popolarità oltre la sola sfera infantile e preadolescenziale, ci sono le collaborazioni, tantissime, con marchi di moda e non solo: Adidas, Dr. Martens, GCDS, Blue Marine, Louis Vuitton, Balenciaga e, addirittura, le chitarre Squire.

Hello Kitty x Blue Marine. Courtesy Blue Marine

“A causa dell’immenso patrimonio di Sanrio”, commenta Maria José, “il cute oggi ha assunto delle sfumature di cui siamo sempre più sospettosi, ma non per questo meno incantati. Anzi, paradossalmente, più negozi si riempiono di merch di Hello Kitty più la ragazza-gattina sembra guadagnare popolarità.”

Laddove alcuni classici del fumetto e dell’animazione che rientrano negli stilemi del ‘cute’, come Snoopy o La Pimpa, sembrano oggi avere acquisito una dimensione storicizzata, Hello Kitty rimane sorprendemente attuale. Insieme ai personaggi del suo universo – Cinnamoroll, My Melody, Pompompurin e Kuromi, tra i più celebri – ci accompagna sulle cover dei telefoni cellulari, sui portachiavi che ciondolano dalle borsette e nei feed social, popolando la nostra quotidianità in maniera non intrusiva. Lo racconta anche la viralità dello spin-off memetico dedicato a My Melody nato in Italia @melodyseilatop. 
 


È così che Maria José Brialdi spiega, in conclusione, il successo atemporale del franchise. “Si tratta fondamentalmente di un personaggio che si può amare senza impegno, nei ritagli di tempo delle nostre vite frenetiche. Non bisogna leggere saghe di libri, vedere centinaia di episodi di una serie animata o seguire trame complesse per affezionarsi a lei: è una faccia familiare e benevola e basta acquistare un pupazzo o qualche adesivo per essere suoi fan.”

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