Nel settembre 1969, l’imprenditore calzaturiero italiano Giancarlo Zanatta si trova alla Grand Central Station di New York per un viaggio d’affari. L’allunaggio è avvenuto da pochi mesi e all’interno della stazione campeggia una gigantografia dello storico avvenimento.
L’attualità senza fine dei Moon Boot, dall’allunaggio a TikTok
Nati nel pieno della cultura Space Age, dopo mezzo secolo i Moon Boot sono ancora una calzatura avanguardistica, simbolo della capacità italiana di coniugare fashion e design, guardando oltre la tendenza del momento.
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- Lorenzo Ottone
- 20 dicembre 2022
Nel marasma febbrile della metropoli, a catturare l’attenzione dell’italiano è lo scarpone voluminoso e sintetico indossato da Neil Armstrong, primo uomo a mettere piede sulla Luna, e la sua impronta sulla superficie del satellite. Una volta tornato in patria Zanatta, partendo da questa intuizione, cambierà per sempre le sorti della Tecnica Spa, l’azienda di famiglia che dal 1930 si dedicava a calzature da lavoro e montagna, introducendo la linea Moon Boot.
“Rimasi innamorato di quella visione. E mi dissi, perchè non fare un doposci in materiale sintetico? All’epoca ne facevano ma in pelle o pelo,” ha recentemente ricordato Zanatta sul magazine della Triennale, dove la sua calzatura è parte della collezione permanente come icona del design italiano. I Moon Boot fanno parte anche della collezione permanente del MoMa a New York, mentre il Louvre li ha inseriti nella lista delle 100 icone del design del XX secolo. Nel 2022, Zanatta ha ricevuto il Compasso d'Oro alla carriera.
Nonostante il Moon Boot, tanto nel nome quanto nel typeface, sia smaccatamente figlio della cultura Space Age, ad oltre 50 anni di distanza dalla sua nascita continua ad avere qualcosa da dire. Al pari di tanti altri capisaldi del design tricolore del tempo, dalle sedute di Gaetano Pesce alle sperimentazioni plastiche di Joe Colombo, i Moon Boot sono stati capaci di trascendere il loro contesto temporale, presentandosi sempre rinnovati nella loro desiderabilità agli occhi di generazioni diverse.
Addirittura, come capita alle grandi icone del design, il loro nome è diventato paradigma di tutti i doposci da montagna dalle forme chunky. All’apice della loro popolarità, Adidas ne emula addirittura un paio (poi riproposto nel 2005) nella sua linea avveniristica in collaborazione con lo sciatore tedesco Carlo Gruber. Solo qualche anno dopo, nel 1983, la parola Moon Boot entrerà a pieno titolo nei dizionari.
Molteplici sono gli elementi che rendono questa calzatura après-ski un’avanguardia non solo estetica ma concettuale. I Moon Boot sono stati tra i primissimi scarponi a introdurre un tessuto sintetico per la tomaia, materiali termici e a sviluppare suole con un grip antiscivolo. Non solo, questi doposci sembrano perfetti per interpretare i bisogni di una cultura come quella contemporanea in cui la società sembra orientata a un consumo fluido. I Moon Boot non hanno associazione di gender, e non c’è nemmeno distinzione tra piede destro e sinistro. "Il primo doposci a calazatura ambidestra", recitava orgogliosamente la campagna pubblictaria 1980. Le taglie, poi, progrediscono di tre in tre, grazie a un’imbottitura interna di 20 millimetri che si espande e adatta alla forma del piede.
Spingendosi oltre, i Moon Boot – in controtendenza con la prassi dell’epoca – furono da subito ambiziosi e sfrontati nel collocare in piena vista il proprio nome, anticipando di almeno un decennio la cultura dell’ostensione del marchio. Un elemento che ha, senza dubbio, contribuito alla loro storica versatilità: da un lato indumento tecnico per sciatori, dall’altra status symbol del lifestyle.
La fusione di queste sue due anime avviene sin da subito, come l’ascesa nei ‘70 e, soprattutto, nei ruggenti ‘80 craxiani con una maggior diffusione del mito del resort di montagna, spinto anche in Italia dall’inizio del fortunato franchise cinematografico Vacanze di Natale dei fratelli Vanzina.
I Moon Boot sono dunque la scusa glamour per frequentare le piste, anche mai sciando e solo sfilando tra una polenta in baita e un aperitivo vista skilift. Sono sia un must del cittadino benestante che può concedersi ferie in alta quota, sia la scarpa bramata dai teenager nei contesti urbani.
Un appeal che negli ultimi anni, complice i festeggiamenti per il mezzo secolo di vita del marchio, ha prepotentemente fatto di nuovo capolino, stratificandosi al revival che a inizio anni Duemila già aveva ridato linfa alla calzatura Se vent’anni fa, in preda a revivalismi retrofuturistici neo-Space Age da Millennium Bug e Cool Britannia, i Moon Boot erano tornati ai piedi di volti dello showbiz come Paris Hilton, oggi fanno a loro volta tendenza sull’onda della mania Y2K, che riprende l’iconologia di inizi millennio – come per le calzature da montagna di Asics Tiger o gli stivali UGG.
Lo sottolinea il rifacimento con il brand italiano GCDS, che ha anche promosso un modello in collaborazione con un altro caposaldo dell’estetica in questione: Hello Kitty.
Ecco che allora i Moon Boot si spogliano di quasi tutta la loro semantica Space Age per rinascere contemporanei, come contraltare di volumi per una moda che, dopo l’ostentazione del baggy, si sta preparando a celebrare il ritorno delle silhouette slim da It Girl anni Duemila. Victoria’s Secret li ha scelti come unico accessorio per accompagnare una campagna di lingerie ambientata nella neve, con la pop star Dua Lipa a fare eco posando sui social in intimo, Moon Boot Yeti GCDS x Hello Kitty, e nulla più.
Chiave dell’ennesima rinascita dei Moon Boot è infatti anche il faux fur, elemento cardine di molteplici filoni estetici maturati in rete, come l’indie sleaze, il cottagecore e il goblincore – a ricordarci che il termine “goblin mode”, introdotto nel discorso pubblico dall’attrice e artista Julia Fox, è stato eletto come parola dell’anno dal dizionario Oxford.
Colbacchi e après-ski chunky in pelo, oltre a una serie di accessori atti a accentuare il volume delle estremità del corpo come manicotti e scaldamuscoli in lana o denim (simbolo par excellence dell’interesse della gen Z verso l’upcycling e la couture fai-da-te), sono oggi chiave per la moda che, inevitabilmente, deve sapersi leggere a partire da TikTok, prima ancora che dalla strada.
Lo ha sottolineato l’entusiasmo mediatico scaturito dalla sfilata di settembre di quest’anno del brand italiano AVAVAV, in cui modelle in enormi stivali di pelo da tribù lappone si lasciavano volontariamente cadere davanti al pubblico esterrefatto, rompendo la sacralità della passerella.
Senza tralasciare la ricerca per proporzioni iperboliche tipiche dei personaggi manga e anime, protagonisti di un non trascurabile rinascimento che sta influenzando il gusto delle nuove leve di creativi.
Simultaneamente, nel loro farsi alfieri del design tecnico i Moon Boot, con il senno di poi, sono stati tra i primi indumenti ad aprire la strada al Gorpcore, neologismo coniato sul magazine The Cut nel 2017 per indicare l’uso streetwear dell’abbigliamento utilitaristico e da montagna. Una corrente estetica in piena ascesa, arrivata anche a contaminare le passerelle dell’alta moda.
Osserviamo oggi una stratificazione complessa e estremamente volubile riferimenti e ritorni stilistici, di memetica e di giochi di volume attentamente studiati anche nella ricerca di un’estetica trasandata.
E mentre noi rimaniamo impegnati a stratificare revival, intrappolati nella profezia su un futuro che mai vivremo del teorico e critico culturale Mark Fisher, scomparso nel 2017 ma sempre più punto di riferimento nello studio dell’oggi, i Moon Boot continuano a incarnare l’eternità che spetta solo al grande design.
Immagine di apertura: Moon Boot, campagna pubblicitaria del 2021. Foto su gentile concessione di Moon Boot.