Per molti è uno degli oggetti più iconici e rappresentativi del filone radical del design italiano. Ma liquidare il Cactus di Franco Mello e Guido Drocco – realizzato per la Gufram dei fratelli Gugliermetto esattamente 50 anni fa, nel 1972 – considerandolo solo un oggetto di design rischia di essere assai riduttivo. Cactus è un totem e al tempo stesso una scultura. Ovunque lo si collochi, conquista il centro della scena e agisce da catalizzatore degli sguardi. La sua funzione originaria di appendiabiti è presto dimenticata: Cactus è troppo sorprendente e provocatorio per essere rinchiuso e compresso nella gabbia coercitiva della funzione. Anche perché proprio nel momento in cui si defunzionalizza, Cactus si carica di una pluralità di sensi e di usi possibili che ne fanno davvero un oggetto polisemico e plurivalente.
Perchè il Cactus di Gufram, che compie 50 anni, è rivoluzionario
Mezzo secolo fa nasceva un’icona del design italiano, capace di rinegoziare l’idea stessa di utilità e di liquefare i confini tra arte contemporanea e design, reinterpretato da tanti, tra cui Paul Smith e Maurizio Cattelan.
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- Silvana Annicchiarico
- 21 aprile 2022
Al momento della sua concezione e realizzazione, all’inizio degli anni Settanta, Cactus si poneva – assieme al Pratone di Ceretti, Derossi, Rosso e ai Sassi di Piero Gilardi – come emblema di quella tendenza che mirava a riportare dentro lo spazio artificiale dell’abitare quella naturalità che l’architettura inevitabilmente allontanava da sé. Non solo: era uno degli esiti più esemplari di quelle tensioni artistico-progettuali e di quei fermenti radicali che mettevano in discussione i canoni collaudati del razionalismo modernista e facevano del design la testa d’ariete di un attacco deciso all’auraticità e all’unicità dell’opera d’arte, rivendicando un valore estetico anche per gli artefatti seriali della produzione industriale.
Feticcio naturalista realizzato in poliuretano, Cactus nasceva in quel contesto e si offriva immediatamente come oggetto ironico, irriverente, difficile da usare, sufficientemente ludico e sostanzialmente inutile. Meglio: Cactus era ed è uno di quegli oggetti del design italiano che – al pari del Capitello di Studio 65 o del pouf Magritta di Sebastian Matta – rinegoziava l’idea stessa di utilità svincolandola dalla funzionalità performativa e spostandola piuttosto sulla capacità di ingaggio emotivo e comunicazionale.
Courtesy Gufram / CAMRON
Courtesy Gufram / CAMRON
Courtesy Gufram / CAMRON
Courtesy Gufram / CAMRON
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Courtesy Gufram / CAMRON
Courtesy Gufram / CAMRON
Courtesy Gufram / CAMRON
Courtesy Gufram / CAMRON
Courtesy Gufram / CAMRON
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Courtesy Gufram / CAMRON
Courtesy Gufram / CAMRON
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Courtesy Gufram / CAMRON
Cactus è “utile” non perché può funzionare anche da appendiabiti, ma perché funziona anche senza essere necessariamente un appendiabiti. E perché finisce per sciogliere e liquefare i confini fra arte contemporanea e design, fra produzione in serie e limited edition, fra natura e cultura. Realizzato inizialmente nell’iconico verde smeraldo, nel corso degli anni ha conosciuto un nomadismo cromatico che l’ha portato a sperimentare su di sé le tonalità più diverse. Metaforicamente “sempreverde”, nel 2007 Gufram ne ha prodotto una versione bianca (Biancocactus, presto esaurito), nel 2010 è toccato a Rossocactus e successivamente a Nerocactus, ancora in produzione.
Nel 2012, in occasione del quarantennale, è stato rieditato in una nuova edizione limitata con il nome di Metacactus, con il verde del corpo che sfuma in arancione sulle punte, “come se fossero state abbrustolite dal sole cocente del deserto”. Ma esiste anche il Bluecactus, con i tre colori della bandiera francese, e il Cactus tutto d’oro, prodotto nel 2010 in un unico esemplare, ora nella collezione del Plart di Napoli.
Anche gli artisti e gli stilisti si sono lasciati sedurre dalla “creatura” di Franco Mello e Guido Drocco: lo stilista Paul Smith non solo ne ha prodotto con Gufram una versione limitata in 169 esemplari, con colori talmente lisergici da aver indotto qualcuno a definirlo “un peyote di creatività”, ma ne ha anche fatto il leitmotiv iconografico stampato su molti degli indumenti e degli accessori proposti dalla sua Maison. Per non parlare dell’installazione realizzata da Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari per la Biennale di Venezia del 2015: un Cactus ingigantito collocato accanto a due enormi uova (de La Cova di Gianni Ruffi) su una zattera galleggiante nella laguna con il nome dissacrante di God: un esempio paradigmatico di come certe provocazioni dell’arte contemporanea possono trovare nel design uno stimolo prezioso, un alleato spiritoso, forse anche la matrice ispirativa.
Del resto, a conferma dell’osmosi fra questa cultura progettuale e le ricerche dell’arte contemporanea, lo stesso Franco Mello ha dichiarato che oggi forse rifarebbe il Cactus attraverso una fusione in metallo, magari in bronzo, o che lo ridisegnerebbe con interventi pittorici differenti, ma “con l’aggiunta di un elemento casuale, una mela, un uccellino, una sfera di cristallo”. A conferma di come un oggetto come questo consente davvero di proiettare lo sguardo nel futuro.
Immagine in apertura: Cactus, Franco Mello e Guido Drocco, Gufram, 1972