Nel futuro del design "made in India", poi, sembrano esserci soprattutto piccole autoproduzioni all'insegna del cosiddetto barefoot design, l'idea cioè di rivalutare il lavoro degli artigiani dei villaggi, ingegnerizzando le soluzioni nate dalle esigenze concrete e incentivando così le piccole economie locali. È questo il caso della lavatrice a pedali di Reyma Jose, pensata per rispondere al problema dei frequenti black-out energetici, la bicicletta in bambù di Vijay Sharma o, ancora, della struttura in bambù per il trasporto di pesi sulle spalle di Vikram Dinubhai Panchal. Questa sembra essere la strada giusta per un Paese che, grazie alla qualità della produzione artigianale e alla mano d'opera pressoché illimitata, potrebbe contare anche solo su se stesso.
Sono molti i progetti in mostra sviluppati con le associazioni?
Simona Romano: La maggior parte dei prodotti raccolti qui è frutto di piccole autoproduzioni avviate dai designer stessi. In qualche caso, come lo sgabello-cubo di bambù di M.P. Ranjan, che combina lavorazione a macchina e dettagli artigianali di alta qualità, c'è anche l'idea di creare lavoro e dare vita a piccole economie. Le università stesse offrono corsi di barefoot design, che permettono agli studenti di trascorrere un periodo di tempo nei villaggi. Esiste la National Innovation Foundation, un osservatorio permanente sul territorio per individuare le invenzioni autoctone più interessanti. Come le pinze per salire sulle palme e raccogliere le noci di cocco. Gli oggetti sono molto eterogenei: a unirli è la relazione tra contemporaneità e tradizioni, che comprende non soltanto l'aspetto artigianale, ma anche quello simbolico. Dal Mahabaratha, stampato (con una certa ironia) sul rotolo di carta igienica Cheerarhan ai personaggi della mitologia indiana riproposti sui giocattoli di carta per bambini Cut Ok Paste, fino all'immaginario dei film di Bollywood usato da Manish Arora per i suoi abiti.
Penso di sì. L'India non ha bisogno di passare attraverso il nostro sistema produttivo, perché ovviamente ci si confronta con disponibilità di mano d'opera immense e una grande qualità nella produzione artigianale. Credo che in questa forma organizzativa, fatta di piccole produzioni e di un processo di recupero delle tradizioni artigianali, ci sia la strada giusta per loro. E poi, forse, anche la nostra: l'India non ci offre soltanto la sua visione, ma anche le chiavi per rispondere ai problemi attuali. In questa forte relazione tra tradizioni e innovazione – che è il filo conduttore di tutta la mostra – ci può essere una fonte d'ispirazione anche per noi, ovviamente seguendo modalità diverse.
Penso che oggi non abbia alcun senso parlare di cultura indiana, occidentale o asiatica: siamo in un momento in cui la cultura è davvero frammentata. È molto difficile trovare identità e compattezze nei tanti flussi globali. La cultura si rinnova e modifica continuamente, quello che invece può servire al designer come strumento di lavoro sono le tradizioni. È sempre più difficile identificarsi con una cultura precisa. Per chi progetta, è un parametro troppo instabile. Però quello che può fare chi progetta è pensare concretamente alle tradizioni, fare emergere elementi dal passato, attualizzarli e riproporli nella contemporaneità. Tanto è vero che gli oggetti che hanno forti relazioni con la tradizione sono anche un po' oggetti transazionali, sono una medicina, un buon accompagnamento, per via dell'uso di tecniche tradizionali o perché contengono dei messaggi simbolici. Ci sono influenze occidentali, ma come parte di un processo biunivoco. Lo stesso Movimento Moderno è nato su ispirazione del Giappone. Non si riesce davvero a dire di "chi è cosa", ma di certo non si tratta di oggetti apolidi, proprio per via di questa riesumazione di diverse tradizioni e della valorizzazione delle culture locali.
La cultura si rinnova e modifica continuamente, quello che invece può servire al designer come strumento di lavoro sono le tradizioni.
Quello tecnologico è un capitolo a sé. È un aspetto che viaggia in parallelo al progetto di design. L'India fornisce servizi come call center, semi-lavorati e software, e primeggia nella tecnologia "soft". Molto interessanti sono le due sculture di Ranjit Makkuni, un designer che ha lavorato per quasi vent'anni allo Xerox PARC creando interfacce multimediali e sistemi per l'apprendimento. Nel suo laboratorio, in India, mescola tradizioni e tecnologia. La scultura in legno Re-visualizing a green self, per esempio, racchiude al suo interno sofisticati dispositivi tattili e sonori. Nelle sue mostre, Makkuni ripropone riti e miti attraverso installazioni interattive per fare avvicinare la gente alla tecnologia in modo friendly. In India, c'è una fortissima modernità che s'incastra e mescola con qualcosa di atavico, a creare un incredibile melting pot. Chi è indiano, probabilmente, se ne accorge meno.
Kavita Singh Kale si è ispirata alla sua scultura Fragile e al concetto di città in movimento. I fili servono a dare un'idea di equilibrio instabile. È un progetto di grande raffinatezza. Come spiega Avnish: "Molte volte, l'idea di fragilità è collegata a quella di sostenibilità, non bisognerebbe creare qualcosa che è difficile da distruggere. Se gli oggetti sono semplici, vengono consumati e distrutti automaticamente. Questo, secondo me, è uno dei campi che i designer dovrebbero esplorare: materiali sostenibili che, nell'arco di dieci anni, si consumano e si distruggono".
New India Designscape
Triennale di Milano