Impiegando procedimenti tecnici dell’industria tessile più avanzata, Nanni Strada ha messo a punto un materiale vibrante e reattivo alla luce per costruire un abito rituale che esprime l’immaterialità del sacro. L’autrice racconta a Domus la storia del progetto. Fotografia di Francesco Radino A cura di Francesca Picchi.
 
Abiti rituali
L’invito a ripensare la casula, abito rituale indossato durante le funzioni religiose, è stato un’occasione per portare alle estreme conseguenze un approccio che inconsciamente mi sono portata dietro in tutti i progetti: usare strumenti di produzione industriale, e in particolare le lavorazioni legate al processo tessile, come un linguaggio poetico. Questo progetto rientra in un interesse più ampio sul tema degli abiti ‘rituali’. La casula è infatti anch’essa un abito rituale. Il nome significa casupola, capanna, perché i monaci, non avendo né chiesa, né casa, viaggiavano con soltanto questo mantello indosso nel quale dormivano, vivevano, pregavano...
La casula fungeva loro da protezione.
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Dialogando con i responsabili del progetto, e con monsignor Santi in particolare – il mio interlocutore diretto – mi ha colpito il rigore dei codici che regolano ogni singolo momento della celebrazione liturgica. Ogni elemento mi ha profondamente affascinato per il suo valore immateriale. Piuttosto che lavorare sulla simbologia dei colori ho preferito quindi rivolgere il mio interesse al tema della riflessione della luce e in particolare proprio alla quantità di luce riflessa. Così mi sono potuta concentrare sull’idea di brillantezza e di vibrazione della luce. Nei paramenti sacri l'oro è sempre stato molto usato, però si trattava comunque di un tessuto, di un intreccio di fili, di lamine di metallo... In tempi più moderni è stato introdotto il lurex, una fibra che possiede una grande brillantezza e che è molto usata nell’alta sartoria, negli abiti da sera, con risultati sofisticati e anche volgari. La mia idea è stata quella di ‘laminare’ la superficie del tessuto per ottenere un effetto non tessile, ma metallico, di brillantezza e di luce.

Il tessuto come superficie mutante
Il trattamento di superficie è un tema che mi ha sempre appassionato; tempo fa sono stata in contatto con Limonta, azienda leader di questo tipo di trattamenti. Il tessuto prodotto manualmente, o industrialmente, assume il suo aspetto materico nel processo di trattamento. In questa fase può succedere di tutto… esistono trattamenti complessi di floccatura, resinatura, coagulazione... si possono trasformare stuoie in cachemire morbidissimi con la garzatura, oppure cambiare la superficie di un tessuto spazzolandolo con i cardi… Si può intervenire sulla superficie del tessuto trasferendogli qualità di altri materiali – carta, plastiche, metalli – trasformandolo in materiale mutante; in qualche modo favorendo un processo di ibridazione. Nella lavorazione di accoppiamento, ’fogli’ tessili, o di materie diverse, vengono uniti tra loro. Questa fusione avviene per calandratura, facendo passare i tessuti in cilindri che girano vorticosamente rendendoli più o meno lucidi, semplicemente calibrando il numero dei passaggi e la velocità dei cilindri. Sto lavorando da tempo sul tema dell’ibridazione di elementi diversi e su quella che considero “l’eleganza dell’ibrido”: unire mondi differenti nelle fasi del progetto è oggi quello che più mi interessa...

Analogia con la musica
Quando ho incominciato a immaginare questa veste, è stato del tutto naturale prendere come riferimento la musica. Ho pensato a quando si ascolta un concerto in una chiesa. In quello spazio, fatto di luce e penombre, il suono cambia: è un fenomeno di risonanza, di vibrazione, di rapporto con la distanza... il coro ad esempio è spesso collocato dietro l’altare per creare una frattura, una separazione da chi ascolta… Non so quanto tutto ciò abbia agito inconsciamente su di me quando ho incominciato a pensare a quest’abito. I diversi gradi di brillantezza, i livelli di luminosità e la diversa percezione legata alla vibrazione della luce, sono infatti una componente importante di questo progetto.

Componenti dell’abito
Questa veste è fatta di due strati, sono due vesti che si sovrappongono in maniera assolutamente libera. La veste esterna in un primo tempo doveva essere materica. La mia idea era di avere una materia povera, come il feltro, la lana, con un certo peso... questo però si scontrava con le richieste dei prelati, che prediligono invece vesti molto leggere per consentire una certa scioltezza di movimento. Lo strato esterno è stato dunque realizzato in un tessuto molto basico, con un comportamento cascante. La veste esterna è quindi di seta, ed è bianca: il colore della liturgia per tutto l’anno. La veste interna invece è legata ai colori dell’anno liturgico, che sono l’oro, il verde, il rosso, il viola e – solo per il rito ambrosiano – il rosaceo.

Decoro
Avevo visto un tessuto realizzato con dei tagli laser, a elementi verticali, che istintivamente mi ha fatto pensare a un motivo gotico. Mi piaceva l’idea che questi tagli lasciassero appena intravedere, in maniera quasi impercettibile, la brillantezza della veste interna. Volevo che questa visione si amplificasse con il movimento, seguendo i gesti di colui che officia la cerimonia, come se la veste interna, emanando questo speciale grado di brillantezza, fosse un’anima nascosta che si rivela appena… Il disegno a tagli è stato realizzato con il computer e al principio aveva rapporti regolari... Poi ho incominciato a togliere, a spostare, ad accorciare, ad allungare i tagli. Il disegno appare uniforme, ma in realtà contiene delle impercettibili variazioni che gli conferiscono grazia e delicatezza.
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Nella fase di laminatura della veste interna abbiamo operato sui livelli di brillantezza, per ottenere un materiale vibrante, che reagisse alla luce. Quest’operazione di ricerca è stata ardua per un produttore non abituato ad assecondare le richieste del designer. Realizzare un tessuto brillante, e chiedere poi di abbassarne la lucentezza, ripassarlo un’altra volta nella macchina fino ad ottenere il lucore attutito… Tutto questo non è stato facile. Quello che ricercavo nell’incertezza di questi passaggi di pressione, calandratura, di vaporizzazione, di calore, era arrivare a una brillantezza attutita, che trascendesse la realtà della materia stessa.

Geometrie generatrici
Non so spiegare il mio rifiuto per tutto ciò che è sartoriale… Il punto a mano, il “fatto su misura”, la maglia, l’uncinetto, gli abiti aderenti in taglia… Il mio era ed è un rifiuto dell’oggetto in sé in quanto espressione di una cultura dell’abito costruito sulle forme anatomiche di un corpo-manichino ‘abbigliato’, a cui tutti si devono adeguare. Il primo taglio netto con questa tradizione è stato di rifiutare la sartoria e quel tipo di vestiti che ricalcano un corpo inventato, e di contrapporvi la geometria, lo sviluppo in piano, a partire dall’osservazione di altre culture e dell’Oriente in particolare. E, alla fine degli anni Sessanta, quest’approccio era davvero dirompente: significava ribaltare il tavolo.

Dipingere con le macchine
Ho sempre provato una forte emozione andando in fabbrica. Guardare macchinari smisurati dove entra da una parte un tessuto che ne esce completamente modificato. Osservare questi processi genera di continuo dei ragionamenti sulle possibilità espressive della produzione meccanica. Fin dai primi progetti degli anni Settanta, dal primo abito realizzato in modo completamente automatico, l’idea di poter introdurre in questi processi una qualità di tipo estetico, tangibile o immateriale, mi ha sempre appassionato... In fondo le cose più importanti che ho fatto sono legate all’uso non convenzionale di questi macchinari: è un po’ come se si cercasse di “dipingere con le macchine”.
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L'idea di ricercare un linguaggio poetico, una forma di espressione lirica legata all’immaterialità attraverso processi tessili e industriali, caratterizza anche questo progetto. I miei ‘Torchons’ ad esempio – gli abiti da viaggio e gli stropicciati che ho presentato nell’86 – sono nati da un errore portato alle estreme conseguenze, che si è trasformato in elemento di bellezza. È un momento di grazia quando si riesce a vedere in un percorso prefissato, o dato per acquisito, una via d'uscita; quando si intravede una possibilità in un passaggio trascurato: è la forza del progetto.

Frammenti di una conversazione con Nanni Strada avvenuta a Milano, martedì 6 settembre

Nanni Strada, dress designer, ha portato per prima i temi del design e della produzione industriale nei territori per convenzione consacrati alla moda. Dopo la prima collezione etnologica del ‘73, nel ‘74 ha progettato il “manto e la pelle”, una ricerca sulle componenti primarie di progettazione dell’abito come rifiuto delle regole sartoriali tipiche dello stilismo, che ispira agli studi dell’etnografo Max Tilke. Nel ‘79 vince il Compasso d’Oro per il primo abito al mondo senza cuciture. Nel 1986 con gli abiti da viaggio ‘Torchons’, dà inizio alla ricerca sulla comprimibilità dell’abito e il suo uso ‘nomadico’