A 50 anni dalla morte del pittore olandese Piet Mondrian, nel 1994, il suo lavoro veniva celebrato da una mostra a L’Aia, e su Domus veniva pubblicato, in un’inedita presentazione a colori con un saggio di ricerca di Maristella Casciato, il suo progetto per il salon di una facoltosa committente a Dresda. Era il 1925, Mondrian aveva fondato 8 anni prima con Theo Van Doesburg il movimento De Stijl – noto anche come Neoplasticismo – che riuniva artisti e architetti attorno ad una poetica di astrazione e rigore geometrico in linee e campi di colori primari. Gerrit Rietveld avrebbe espresso in forme materiali i principi del movimento, prima con la sedia “Rosso-Blu”, poi con la casa Schröder a Utrecht, così come avrebbe fatto nel 1929 Van Doesburg col Café de l’Aubette a Strasburgo, che proprio nel 1994 veniva ricostruito. Mondrian – in una maggior ortodossia della linea ortogonale rispetto ai compagni che presto avevano introdotto l’uso della diagonale nelle loro composizioni – aggiungeva ai suoi celebri quadri questo progetto di interno domestico che, al di là del manifesto De Stijl, aveva il valore di un suo personale programma culturale, centrato sull’interazione di orizzontale e verticale, come leggiamo nelle pagine di Domus 766, uscito nel dicembre 1994.
La soluzione del paradigma H/V e il Salon de Madame B...
Il progetto per il Salon de Madame B... à Dresden venne elaborato da Mondrian fra l’autunno del 1925 e i primi mesi dell’anno successivo. Madame B... era la committente, Ida Bienert, una facoltosa collezionista tedesca, protettrice di molti artisti dell’avanguardia. Il tema dell’incarico era indiscutibilmente originale: ridisegnare lo spazio di una delle stanze nell’abitazione dei Bienert a Plauen, un sobborgo di Dresda, con l’obiettivo di sistemar vi uno studio-biblioteca per la stessa committente. Come nasceva quell’idea? Erano stati E1 Lissitskij e Sophie Küppers, sua futura moglie, ad introdurre la Bienert alla pittura dell’olandese e in quel 1925, in occasione della personale di Mondrian che la Küppers aveva organizzato presso una nota galleria d’arte di Dresda, Ida Bienert aveva acquistato alcuni suoi dipinti. Subito dopo, la loro mediazione fu decisiva per permetterle di contattare il pittore e offrirgli l’opportunità di sperimentare l'applicazione del linguaggio neoplastico ad un progetto di interior design.
Mondrian non ebbe occasione di vedere di persona l’ambiente e presumibilmente mise a punto i suoi disegni sulla base di una descrizione e di alcune misure che gli vennero inviate a Parigi, dove all’epoca risiedeva. La proposta rimase a livello di progetto; il pittore riteneva infatti indispensabile la sua presenza per l’esecuzione, ma la limitatezza dei fondi messi a disposizione dalla Bienert lo fece recedere dall’affrontare il viaggio. Da una lettera inviata a J.J.P. Oud apprendiamo che il compenso per quell’incarico era stato fissato in “soli 150 marchi”.
L’estremo rigore dell’interno, la composizione per rettangoli campiti con colori primari (oltre al nero, al bianco e a numerose tonalità di grigio applicate ad ogni elemento della stanza), la scarsità dell’arredo, ridotto ad un letto e ad un tavolinetto ovale, mentre gli scaffali per i libri avrebbero dovuto rimanere nascosti dietro la ‘facciata’ neoplastica della libreria murata, fanno di questa proposta un documento eloquente di quel programma di architettura per “piani di colore” che Mondrian aveva cominciato a sperimentare. È perciò difficile immaginare come quello spazio avrebbe potuto assolvere alla sua funzione di studio-biblioteca, se non dopo che la Bienert vi avesse aggiunto i necessari arredi. Significativa a questo proposito la reazione di E1 Lissitskij che, nel vedere le foto dei disegni di Mondrian per il Salon, rimase assai colpito da quell’assenza di vita e commentò: “Mi aspettavo qualcosa di più chiaro... È veramente la natura morta di una stanza, da vedersi attraverso il buco della porta”.
Il progetto consta di un “pian développé” e di due “perspectives géométriques”; questi disegni vennero pubblicati per la prima volta, in bianco e nero, nel numero 25 (1927) di Vouloir, una rivista stampata a Lille negli anni 1924-27. Il ‘plan’ è un esploso che riproduce la tridimensionalità della stanza riconducendola al piano. Al centro del disegno è il pavimento; le quattro pareti sono ribaltate e rese con questo complanari; il soffitto, traslato, è inserito in basso a sinistra. Sottili linee nere sono introdotte per delimitare l’area dei sei rettangoli e per organizzarne le suddivisioni interne.
Fra gli artisti associati a De Stijl questo metodo di rappresentazione dello spazio non è una novità ed almeno due sono i progetti con cui è interessante aprire un confronto: il piano dei colori (1916-17) elaborato da Bart van der Leck per la Kunstkamer, nella lussuosa villa Groot Haesebroek, di proprietà della famiglia Kröller-Müller, di cui H.P. Berlage progettò la ristrutturazione; lo schema cromatico (1924-25) proposto da Theo van Doesburg per la stanza dei fiori nella villa del Vicomte de Noailles, realizzata a Hyères da Robert Mallet-Stevens. Della Kunstkamer Van der Leck studiò il trattamento cromatico delle pareti e il disegno del tappeto e delle tappezzerie, mentre Berlage fu responsa-bile sia degli elementi architettonici che dell’arredo. Il conflitto che si manifestò tra il pittore e l’architetto in merito al “ruolo della pittura moderna in architettura” lo si rilegge anche nel disegno elaborato da Van der Leck: in questo caso i cinque rettangoli (pavimento e pareti) che riportano sul piano la tridimensionalità dell’ambiente non hanno alcun punto di contatto. Per accentuare ancor più la distanza concettuale che separa architettura e colore, una delle pareti (quella in basso nel disegno) è insieme ribaltata sul piano orizzontale e capovolta, negando in tal modo ogni possibile riferimento alla scatola spaziale. Del soffitto, invece, non v’è traccia.
Il secondo confronto è con lo schema cromatico che Van Doesburg elaborò per una stanzetta di circa 1 m X 1,5 m, alta non più di 2,25 m, nella villa del Vicomte de Noailles. Il progetto è documentato in una rappresentazione piana dello spazio, tracciata - a matita, inchiostro e acquerello - su un foglio a forma di losanga. Quest’ultimo dettaglio non è secondario. Fin dai primi mesi del 1924 Van Doesburg si era impegnato a sperimentare gli stimoli che alla sua pittura provenivano dalla “contro-costruzione”, ossia da quella nuova fase del neo-plasticismo, da lui stesso avviata, che mirava a provocare più contrasti, più equilibrio dinamico. In tal senso il progetto per Hyères si faceva portavoce, al pari degli studi assonometrici prodotti in collaborazione con Van Eesteren, di una nuova visione dell’applicazione del colore all’architettura, in cui la diagonale giocava un ruolo predominante. Un altro motivo tipico della pittura di Van Doesburg era inoltre riconoscibile nel grado di indipendenza mantenuto dai cinque rettangoli che riproducono le superfici piane delimitanti lo spazio; in questo caso è il piano del soffitto ad essere posizionato al centro del disegno. C’è però nell’impostazione dello schema cromatico una “costante alternanza fra demarcazione e connessione, fra continuità e discontinuità”, che permette quasi di introdurre un’ulteriore variabile, quella del ‘tempo’, che Van Doesburg considerava come un mezzo di espressione essenziale nell’architettura.
Il paragone fra i progetti appena esposti e il ‘plan’ proposto per la Bienert mette in evidenza le sostanziali differenze che distinguono questi artisti nella interpretazione dello spazio ‘plastico’.
Per Mondrian, nell’arte come nell’architettura, la superficie piana è l’elemento essenziale. Il neoplasticismo, egli afferma, “vede l’architettura come una molteplicità di piani (...) Questa molteplicità è composta astrattamente in un piano plastico (...). Per ottenere un senso plastico del piano, l’architettura neoplastica necessita del colore, senza il quale il piano non può divenire per noi una realtà vitale”. In linea con questo assioma Mondrian sperimentò diversi procedimenti per rendere ‘plastico’ lo spazio mediante il colore. Il suo atelier parigino divenne il primo gabinetto di quella sperimentazione.
Fece in modo che l’intero spazio funzionasse come una composizione astratta di colore e forme piane, e per ottenere un tale risultato applicò sulle pareti cartoni rettangolari di colore rosso, giallo, blu, nero, bianco e grigio (non risparmiò neppure gli arredi), con l’unico obiettivo di rinforzare il carattere piano delle superfici. La stanza per Ida Bienert avrebbe dovuto continuare quella linea di ricerca; certamente, il non aver potuto realizzare quel progetto lo amareggiò non poco. Dopo il 1926 Mondrian abbandonò completamente il tema dell’interior design, eccetto che nei suoi atelier che finirono per trasformarsi in veri e propri ambienti di culto dell’architettura come arte plastica.
Gli altri due disegni che documentano il Salon sono vedute assonometriche, la cui unicità nell’opera di Mondrian merita di essere sottolineata. La tecnica adottata è quella della proiezione a trenta gradi: in un disegno sono rappresentate due pareti e il pavi mento della camera, visti dall’alto; nell’altro compaiono le restanti due pareti e il soffitto, osservati dal basso. I colori - rosso, giallo e blu - sono usati con molta parsimonia, secondo una disposizione asimmetrica; la zona di colore di maggiore dimensione è il rettangolo rosso che sovrasta il letto per tutta la sua lunghezza. La scelta dell’assonometria fu, con ogni probabilità, suggerita al pittore dagli analoghi disegni che Van Doesburg aveva prodotto negli anni appena precedenti, ma l’atteggiamento con cui i due artisti disegnano i loro interni è profondamento diverso. Nell’impiego di una assonometria a trenta gradi Mondrian dimostra di preferire una maniera di penetrare lo spazio più graduale, tale da permettergli di scoprire una porzione maggiore dell’ambiente interno. Diversamente Van Doesburg, particolarmente nei due progetti di maison ideati con Van Eesteren, evidenzia il suo disinteresse per lo spazio interno, che ritiene secondario rispetto alla composizione per piani dell’architettura.
Quando i tre disegni per il Salon de Madame B. .. apparvero su Vouloir, essi accompagnavano un testo teorico di Mondrian, intitolato Le Home-La Rue-La Cité.6 Vouloir, dopo una fase iniziale orientata essenzialmente verso la poesia, la lettera tura e il cinema, dal gennaio del 1926, con l’ingresso in redazione di Felix Del Marle, si era indirizzata con più decisione verso le arti figurative e applicate. Pittore, interior designer, critico d’arte, Del Marle7 divenne, nel giro di pochi mesi, un vero e proprio apostolo dell’estetica neo-plastica. Quella ‘conversione’ trovò in Vouloir, che dal numero 24 (1926) ebbe come sottotitolo “Revue mensuelle d’esthétique néo-plastique”, la sua cassa di risonanza. L’apoteosi di tanto entusiasmo si raggiunse con l’uscita del celebre numero 25 (che segnò anche la fine delle pubblicazioni), intitolato Ambiance ed interamente dedicato al gruppo De Stijl. Titolo e programma vennero suggeriti a Del Marle proprio dal saggio di Mondrian con cui la pubblicazione si apriva8. In quello scritto il pittore olandese esprimeva con estrema chiarezza il suo pensiero circa il rapporto fra pittura e architettura, e metteva fine alla querelle sull’elementarismo, definizione coniata da Van Doesburg per indicare l’introduzione della linea obliqua nel vocabolario formale del neoplasticismo. L’apparato illustrativo del numero, tutte riproduzioni in bianco e nero, offriva un panorama poco convenzionale del gruppo De Stijl, costruito su una ben indirizzata scelta tematica: interni, mobili e oggetti d’uso quotidiano. Al testo e ai disegni di Mondrian seguivano cinque pagine di immagini, dedicate nell’ordine a Del Marle, Rietveld-Schröder e Vantongerloo; più oltre erano pubblicate opere di Domela, Van Ravesteyn, Van Doesburg e Huszar.
In particolare la pagina che contiene le illustrazioni dell’opera di Del Marle merita di essere decifrata.
Due i progetti presentati, illustrati con tre immagini: quelle relative ad una abitazione per Madame M.D.M.L., e quella del plastico di un letto per M. e M.me A.F.K. Le prime altro non sono che immagini, parzialmente epurate per eliminare taluni dettagli decorativi tradizionali, dell’atelier di Del Marle a Lille, ridisegnato nel 1926 alla maniera neoplastica9. Fu lo stesso Mondrian a sollecitare quella pubblicazione. Ricevendo infatti le fotografie di quell’interno, aveva scritto a Del Marle: “Sono molto contento di dirvi che io amo molto la vostra opera. La trovo una delle migliori applicazioni del Neo-plasticismo. Me ne congratulo” e concludeva augurandosi di vederla pubblicata nella serie degli artisti N.P. subito dopo il suo articolo nel successivo numero di Vouloir.10 Del Marle non si lasciò sfuggire l’occasione che lo consacrava ufficialmente fra gli “artisti N.P.” e imitò a tal punto il suo generoso protettore da utilizzare il medesimo sistema di titolazione: in entrambi i casi ci si riferisce a una ‘Madame’, le iniziali del cui nome sono puntate. Avendo riconosciuto l’atelier del pittore a Lille, si può presumere che si tratti della signora Del Mar e.
Dopo essere apparsi su Vouloir, i tre disegni del Salon de Madame B... continuarono ad avere una notevole fortuna critica, ma subirono anche alcune evidenti manipolazioni. Infatti, data la irreperibilità degli originali a colori, per le successive riproduzioni si continuò a fare riferimento unicamente alle immagini pubblicate dalla rivista francese nel 1927.12 Una considerazione conclusiva a proposito di quest’occasione mancata. Quello di Mondrian per il Salon non è un programma isolato (culturalmente) e tantomeno un progetto (tecnicamente) irrealizzabile, benché vada sottolineato che esso non era il risultato della collaborazione né con un architetto, né con un altro artista. È certo però che, se da una parte quell’incarico offrì a Mondrian l’occasione per esprimere compiutamente le sue teorie sul rapporto fra arte plastica e spazio architettonico, l’enfasi sulla composizione orizzontale-verticale lo rese poco vitale e ne decretò l’insuccesso. Come non ricordare, allora, che la realizzazione del Café Aubette a Strasburgo, il più grandioso e rilevante fra i progetti di interno di Van Doesburg, aveva inizio proprio alla fine del 1926. L’Aubette non è solo l’espressione più completa degli ideali estetici e plastici di Van Doesburg, ma segna anche il momento conclusivo, senza ammissione di replica, di un dialogo ormai fra sordi.