Riguardo a Tracey Emin, negli ultimi trent’anni, si è detto di tutto. Che la sua arte è catartica, confessionale, espiatoria, autobiografica. Che i suoi dipinti sono intimi, crudi, introspettivi, controversi. In più occasioni si è gridato allo scandalo, all’inopportuno, al sessualmente esplicito o inadeguato, a partire dal quel My Bed – la riproduzione della sua camera da letto dopo quello che oggi chiamiamo "bed rotting" – che nel 1999 le valse la nomination al Turner Prize, e che la consacrò ufficialmente al mondo dell’arte. Si è parlato spesso anche di fragilità, vulnerabilità, dolcezza.
L’arte di sopravvivere a sé stessi: Tracey Emin in mostra a Palazzo Strozzi
Tra neon, pittura e scultura, l’opera dell'artista britannica, ora in mostra a Firenze, non cerca conforto, ma esistenza pura: un racconto viscerale di fragilità e resistenza, di vita e perdita.
Foto Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. Tutti i diritti riservati, DACS 2025.
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- Laura Cocciolillo
- 18 marzo 2025
In trent’anni sono state usate sempre le stesse parole, che ancora oggi continuano a passare di bocca in bocca. E – in un modo quasi ossessivo, che rasenta la pornografia del dolore – ogni volta che si è parlato di Emin, non si è taciuto sullo stupro subito a tredici anni, su i due aborti che negli anni Novanta l’hanno segnata tanto da portarla a distruggere tutta l’arte prodotta fino a quel momento, e sul cancro che quattro anni fa l’ha quasi uccisa.
Spesso mi chiedono cosa ne penso del femminismo. E io rispondo sempre che io non penso al femminismo. Io sono una femminista.

Certo, sembra quasi impossibile parlare di Emin senza passare per tutto questo, o ignorando un dato biografico così preponderante. Ma la realtà è che la maggior parte di ciò che si è detto finora scalfisce solo impercettibilmente la superficie di quello che l’artista "fa" con la sua arte, con le sue emozioni, con l’esperienza stessa dell’esistenza e del dolore che le è intrinseco – perché inscindibile dall’atto di amare, che è un "dolore costante".
L’unico modo per capire qualcosa di Emin è osservare le sue immagini (“non sono immagini, sono sentimenti”, ha spesso sottolineato l’artista) e leggere le sue parole, lasciandole risuonare in qualcosa dentro di noi che esiste da prima di noi. E per farlo, la mostra “Tracey Emin. Sex and Solitude” – allestita a Palazzo Strozzi a Firenze dal 16 marzo al 20 luglio – è un’occasione imperdibile. Di seguito, un piccolo manuale per visitarla al meglio, attraverso cinque delle opere più rappresentative.
Ma prima, una precisazione sul titolo, ispirato all’installazione site-specific – una scritta in neon che reca le stesse parole – che accoglie il pubblico all’ingresso del Palazzo. Presentando la mostra, Emin spiega che “molte persone in questa stanza, e molte persone in generale, hanno avuto esperienza di cosa sia il sesso e cosa sia la solitudine: per me sono intriseche. Da giovane il sesso mi dava una spinta, mi faceva pensare, mi faceva agire, mentre ora che sono più grande, è la solitudine ad essere fondamentale per la mia arte”.
Foto Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. Tutti i diritti riservati, DACS 2025.
Foto Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. Tutti i diritti riservati, DACS 2025.
Foto Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. Tutti i diritti riservati, DACS 2025.
Foto Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. Tutti i diritti riservati, DACS 2025.
Foto Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. Tutti i diritti riservati, DACS 2025.
Foto Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. Tutti i diritti riservati, DACS 2025.
Foto Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. Tutti i diritti riservati, DACS 2025.
Foto Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. Tutti i diritti riservati, DACS 2025.
Immagine di apertura: Tracey Emin, “Sex and Solitude”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Foto Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. Tutti i diritti riservati, DACS 2025.
Una scultura in bronzo, massiccia e frammentata, si erge nel cortile rinascimentale: a prima vista, I Followed You to the End sembra una forma astratta, una superficie accidentata, quasi un paesaggio. Avvicinandosi, emerge un corpo femminile parzialmente visibile, con le gambe divaricate, in una postura che sfida l’equilibrio tra forza e vulnerabilità. La fusione conserva le tracce del processo creativo, con una materia ruvida e vissuta. Emin sovverte la tradizione scultorea monumentale, da sempre appannaggio di figure maschili erette e dominanti, per restituire alla fragilità una dimensione di potenza. L’ombra di Louise Bourgeois aleggia nel bronzo, in un'opera che non celebra, ma racconta il peso dell’esistenza.
Un neon che squarcia la penombra della sala, trasformando il dolore in luce. Love Poem for CF è una dichiarazione d’amore e di perdita, un poema inciso nell’aria con la scrittura inconfondibile di Emin. Le parole, tratte da versi scritti per il suo ex compagno Carl Freedman, vibrano di malinconia: “Hai messo la tua mano / Sulla mia bocca / Ma il rumore comunque / Continua”. La luce, fredda e impalpabile, non scalda ma espone, come un riflesso della memoria che non svanisce. L’opera è tra i neon più grandi dell’artista, quattro metri e mezzo di emozione cruda.
Nel 1996, Emin si rinchiude per tre settimane in una stanza di una galleria a Stoccolma, nuda, circondata solo da tele bianche. Exorcism of the Last Painting I Ever Made è un rito catartico, un confronto con il blocco creativo e il dolore personale. Dopo due aborti negli anni Novanta, l’artista aveva abbandonato la pittura, incapace di affrontarla. Qui, attraverso un isolamento radicale, la riscopre, lasciando che ogni pennellata sia un atto di riconciliazione. Il pubblico, separato da lei, osserva attraverso lenti distorte, spettatore silenzioso di un processo intimo e viscerale. Alla fine, tutto ciò che resta è un’installazione che preserva tele, oggetti e tracce del suo passaggio, una testimonianza fisica di un momento di trasformazione.
Un tessuto, cucito a mano, porta con sé parole sospese tra desiderio e rassegnazione. I Do Not Expect è un appliqué in cui Emin intreccia frammenti di pensieri sulla maternità negata e sul tempo che scorre inesorabile. “Non mi aspetto di essere madre, ma mi aspetto di morire sola”, scrive, affidando alla stoffa una memoria che si fa corpo. La tecnica dell’appliqué, tradizionalmente associata al lavoro femminile (“Spesso mi chiedono cosa ne penso del femminismo. E io rispondo sempre che io non penso al femminismo. Io sono una femminista”, spiega l’artista), diventa un linguaggio di protesta e affermazione personale. Le cuciture irregolari, volutamente imperfette, creano un’estetica della vulnerabilità, rifiutando l’idea di perfezione. Il tessuto, spesso floreale o colorato, contrasta con il peso emotivo delle parole, creando una tensione tra la delicatezza del mezzo e la crudezza del messaggio.
Nel 2020, nel silenzio imposto dalla pandemia, Emin dipinge nella sua casa di Londra, trasformando la solitudine in un dialogo con l’assenza. My Mum’s Ashes - In The Ashes Room nasce dal dolore della perdita materna, evocata attraverso un’urna che diventa il cuore di uno spazio di riflessione. I dipinti, dominati da tonalità fredde di blu e grigio, sono figure sfocate, ombre che emergono e svaniscono. Il lutto non è una fine, ma un processo di trasformazione. “Sono molto più sincera con me stessa adesso”, racconta l’artista. “Il mio livello di senso di colpa è fenomenale, perché mi guardo dentro per capire cosa faccio”.