Esiste un modo giusto per illuminare il vetro?

Attraverso l’esperienza a Le Stanze del Vetro a Venezia, lo storico dell’arte David Landau spiega che non ci sono regole prestabilite, perché ciascun tipo di vetro richiede una soluzione diversa, da ricercare volta per volta.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1083, ottobre 2023.

Negli ultimi 12 anni, mi sono occupato a fondo di mostre sul vetro presso Le Stanze del Vetro, sull’isola veneziana di San Giorgio, in collaborazione con la Fondazione Giorgio Cini. Per 22 esposizioni, la luce è stata uno dei miei interessi principali, molto più di quanto avessi mai pensato. Alcune delle nostre discussioni più lunghe, alcune delle conversazioni più animate e delle reazioni più accese, ma anche alcune delle soluzioni più interessanti – per non dire entusiasmanti – si sono svolte decidendo come allestire ciascuna di esse: se usare soltanto la luce naturale o solo quella artificiale, un misto delle due. Si è anche discusso del modo in cui ciascuna di queste soluzioni potesse o dovesse essere realizzata: luce naturale diretta proveniente dai nostri finestroni o artificiale diffusa, filtrata da veli, concentrata in un ambiente illuminato o buio, oppure tutta la miriade di combinazioni all’intersezione tra queste soluzioni. Ciò che ho scoperto in questi anni è che ciascun tipo di vetro richiede una soluzione diversa, dato che può stare ovunque ed essere qualunque cosa: trasparente, translucido, opaco, brillante, riflettente, rifrangente, ottico e molto altro ancora. Ogni tipologia e ogni forma vanno rispettate come uniche, vanno trattate in modi differenti per esaltarne le qualità intrinseche e rivelarne pienamente la bellezza. 

L’opera di Václav Cigler Square with Spiral, degli anni Settanta, alla mostra “Vetro boemo: i grandi maestri”, a cura di Caterina Tognon e Sylva Petrová (14.5–26.11.2023). Photo © Enrico Fiorese. Courtesy of Le Stanze del Vetro. © Václav Cigler by SIAE 2023

Mettere controluce un pezzo di Tomaso Buzzi – con i suoi cinque o sei strati di colori differenti che producono la superficie cromatica dalle sfumature più delicate mai viste a Murano – significa semplicemente ammazzarlo. Sparare fasci di luce violenta attraverso una costruzione di vetro di Gerhard Richter vuol dire annullarne la complessa intenzionalità, che consiste nel permettere di vedere attraverso giganteschi pannelli, percependone l’immagine, una persona che ci passa davanti come in uno dei suoi dipinti sfocati, in un’apparizione allo stesso tempo effimera ma memorabile.

Ciascun tipo di vetro richiede una soluzione diversa, dato che può stare ovunque ed essere qualunque cosa: trasparente, translucido, opaco, brillante, riflettente, rifrangente, ottico e molto altro ancora.

Agli inizi della storia de Le Stanze del vetro sono stato coinvolto nelle frequenti liti tra la grande e compianta scultrice Laura de Santillana – che voleva che ogni pezzo fosse visto solo nella pura e semplice luce naturale – e Marino Barovier, esperto mercante e curatore dotato di una conoscenza senza paragoni del vetro muranese del XX secolo, il quale spesso sceglieva di apporre uno sfondo scuro dietro a ogni oggetto così che fosse illuminato da riflettori esaltandone al meglio il valore. 

L’opera 6 Panes of Glass in a Rack (879-4) (2002-2011) di Gerhard Richter all’esposizione “Fragile?” curata da Mario Codognato (8.4–28.7.2013). Photo © Ettore Bellini. Courtesy of Le Stanze del Vetro

Nessuna delle due soluzioni era l’ideale per ogni circostanza e, a poco a poco, giungemmo alla conclusione che la scelta dovesse essere determinata dal rispetto per ciascuna opera, la consapevolezza profonda del modo in cui era stata creata, delle intenzioni di chi l’aveva progettata e di chi l’aveva realizzata, come pure di come dovevano essere apprezzate la sua tessitura, il suo colore e la sua superficie. In una galleria che ospita mostre che inaugurano d’inverno e che continuano fino all’estate, allestite sullo sfondo della vivida luce solare di un mattino di primavera come di quella di un tetro e piovoso pomeriggio novembrino, mescolare luce naturale e artificiale è inevitabile: bisogna dare abbastanza luce per adeguarsi a ogni situazione, compresa la minaccia dell’improvvisa oscurità di un temporale estivo e quella di una breve giornata d’inverno. Ogni oggetto va collocato in modo da trarre il massimo vantaggio dalla luce naturale disponibile, tenendo, per esempio, più vicini alle finestre quelli che richiedono più luce per mostrare i loro colori. Nell’attuale mostra “Vetro boemo: i grandi maestri” le opere della coppia Stanislav Libenský e Jaroslava Brychtová richiedono senza dubbio la massima luce possibile. I loro lavori, calchi di vetro dalla forte matericità, apparirebbero tetri e privi di vita se non fossero immersi in una luce che li attraversa, e non svelerebbero la ricchezza strutturale che li contraddistingue e che nasce dal metodo della loro produzione. 

“Il vetro finlandese nella Collezione Bischofberger”, a cura di Kaisa Koivisto e Pekka Korvenmaa (13.4–2.8.2015). Photo © Enrico Fiorese. Courtesy of Le Stanze del Vetro

Certe opere, come un tipico pezzo di Václav Cigler, vanno osservate in controluce davanti alle finestre, colpite dalla luce naturale senza filtri altrimenti il suo carattere specifico non sarebbe visibile. Al contrario, la complessa costruzione spaziale di una scultura di vetro di Larry Bell, per rivelare il suo sottile messaggio che collega gli ambienti e mescola gli spazi, richiedeva il massimo di luce ambientale diffusa che potessimo ottenere alle Stanze. La luce diffusa, però, per quanto cruciale, raramente è l’unica soluzione nel mondo in continuo cambiamento delle mostre del vetro. La migliore di tutte le nostre belle teche, tutte progettate dall’architetta Annabelle Selldorf – come le stesse Stanze del Vetro – è fatta di vetro satinato con un’illuminazione diretta zenitale, in modo che un forte fascio verticale si trasformi in una luce diffusa carezzevolmente sulla superficie di ciascun oggetto in mostra. Ulteriori fari direzionali possono essere inclinati in modo da sottolineare un oggetto, una superficie o un colore particolare. Alle volte, però, tutto ciò non basta. 

Vista dell’installazione della mostra “Tomaso Buzzi alla Venini”, curata da Marino Barovier (14.9.2014–11.1.2015) Photo © Enrico Fiorese. Courtesy of Le Stanze del Vetro

Nel caso della mostra su Ettore Sottsass, capimmo che un’unica soluzione avrebbe valorizzato contemporaneamente la ricchezza e la varietà di forme e colori dell’opera del progettista: scegliemmo una parete bianca uniformemente illuminata di luce artificiale, contro la quale ogni opera potesse trasmettere allo spettatore la sua natura sperimentale e fantastica. Ancora più difficile è stato trovare una soluzione adatta alla straordinaria, inedita varietà di colori e forme inventata da Carlo Scarpa nell’intenso periodo, tra il 1926 e il 1931, in cui con Giacomo Cappellin letteralmente reinventò per sempre il vetro di Murano. Ogni oggetto in realtà richiedeva un suo spazio ma, in mancanza di ciò, decidemmo di trattarli tutti allo stesso modo, democraticamente, in una lunga teca di luce artificiale, in cui ciascuno potesse conquistarsi il giusto posto nella rivoluzione progettuale di cui era parte. Le coloratissime e vibranti Ninfee di Toni Zuccheri vennero esposte con grande successo in un ambiente completamente buio, collocate su una superficie parzialmente riflettente e illuminate dall’alto, per svelare al meglio la natura del “vetro stracciato”. Un po’ di spettacolo va sempre bene. 

Vista della mostra “La vetreria M.V.M. Cappellin e il giovane Carlo Scarpa 1925–1931” (10.9.2018–6.1.2019) curata da Marino Barovier Photo © Enrico Fiorese. Courtesy of Le Stanze del Vetro

Un’analoga combinazione di ambiente oscuro e superficie riflettente sotto l’oggetto esposto è stata ripresa, benché a scala enormemente diversa, nella nostra recente ricostruzione dell’immenso lampadario di Carlo Scarpa realizzato per il padiglione della mostra “Italia 61” a Torino, che celebrava il primo centenario dell’Unità d’Italia. Non c’era altra soluzione che si prestasse meglio a illustrare la complessità dei particolari con la semplicità dell’insieme: migliaia di poliedri di tre colori diversi – trasparenti, ambra e ametista chiaro – davano vita a un’unica, audace forma che in origine si rifletteva in uno specchio d’acqua. La mostra “Venini: Luce 1921-1985”, di cui questo gigantesco oggetto faceva parte, è stata finora la nostra impresa più difficile. Non bisogna mai sottovalutare la difficoltà di controllare, dirigere, attirare, manipolare e mettere in evidenza la luce. 

Immagine di apertura: riproduzione del lampadario a poliedri policromi, con circa 4.000 elementi, progettato da Carlo Scarpa per il padiglione del Veneto all’esposizione “Italia 61” a Torino. L’opera è stata esposta presso la mostra “Venini: Luce 1921-1985” curata da Marino Barovier (18.9.2022–9.7.2023). Photo © Enrico Fiorese. Courtesy of Le Stanze del Vetro