Ideato per Boffi nel 1963, nel momento apicale del boom economico, il monoblocco per cucina Minikitchen esprime bene l’euforia della modernità e la pulsione entusiasta verso l’innovazione e verso il futuro che connotano la società italiana nella prima metà degli anni Sessanta.
A progettare questa specie di nuovo “robot domestico su ruote” non poteva che essere Joe Colombo: figlio della pop art e della cultura della plastica, influenzato in modo non superficiale dalle suggestioni futuristiche della science-fiction degli anni ’60, Colombo – che amava autodefinirsi “creatore dell’ambiente futuro” – incarna l’aspetto più prometeico e tecnologico del design italiano: come Pininfarina e Zanuso, si misura in prima linea con le innovazioni della tecnologia e con la civiltà delle macchine, ma raccoglie e fa propria la loro sfida con un tratto di inconfondibile e peculiare visionarietà.
In legno e acciaio inox, pensato non come ausilio al lavoro domestico, ma come sintesi funzionale integrata di tutto ciò che costituisce lo spazio della cucina, Minikitchen raggruppa in mezzo metro cubo tutti i servizi essenziali, dal frigorifero ai fornelli elettrici fino ai cassetti e ai contenitori per pentole e stoviglie per sei persone. Avveniristico, futuristico, utopico, Minikitchen viene letto dai sociologi come risposta a quel bisogno di risparmiare e razionalizzare lo spazio abitativo che era molto sentito nelle abitazioni della classe media, ma c’è anche chi riflette sulle sollecitazioni teoriche che stanno dietro a un simile progetto, legate al tema epocale dell’abitare compatto e alla volontà di riprendere sinteticamente tanto le suggestioni della machine à habiter di Le Corbusier quanto il modello dell’abitacolo tipico delle navicelle utilizzate nelle esplorazioni spaziali degli anni ’60.
Anche se – come ha scritto Andrea Branzi – “l’idea di un’integrazione delle funzioni in volumi specializzati rispondeva più a sollecitazioni ideali che a reali necessità produttive”, Minikitchen diventa in qualche modo il simbolo di un desiderio diffuso di cambiare radicalmente “non solo la forma dei mobili, ma la casa stessa, ripensandola fuori dagli schemi dell’arredamento tradizionale”. Di questo desiderio e di questo slancio Joe Colombo è forse l’interprete più lucido e coerente: con lui e con progetti come Minikitchen prende corpo al massimo livello la vocazione intrinseca di parte del design italiano a farsi esploratore del nuovo, a prefigurare scenari non ancora affermati, ad anticipare bisogni e desideri ancora in via di formazione.
Il mobile non è più visto e percepito come un fatto di gusto, di prestigio o di status ma come una presenza autonoma, svincolata dallo spazio che lo contiene, e capace di dialogare non tanto con il passato e con la tradizione ma con il possibile e con il futuro. Troppo, per i canoni estetici e funzionalistici ancora dominanti nell’Italia degli anni Sessanta? Forse sì. Tanto che Joe Colombo amava connotare le sue performances e le sue sorprendenti proposte progettuali con la denominazione al tempo stesso beffarda e provocatoria di antidesign.