Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1055, marzo 2021
La casa e le donne: regno felice o prigione?
Luogo di affermazione di sé o emblema di frustrazione? Il territorio domestico è da sempre uno spazio nevralgico nel processo di decostruzione degli stereotipi di genere.
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- Caroline Corbetta
- 14 marzo 2021
Per secoli, le case sono state disegnate e costruite dagli uomini. Le donne le hanno abitate, passando tra le mura di quelle architetture, che si sono rivelate rifugi, ma anche prigioni, una quantità incalcolabile di ore – accudendo, pulendo, cucinando, aspettando –, mentre gli uomini entravano e uscivano senza sosta. “Sono già milioni di anni che le donne stanno sedute in queste stanze, sicché ormai perfino le pareti sono pervase dalla loro forza creativa”, scrive Virginia Woolf nel celebre saggio Una stanza tutta per sé (1929) in cui rivendica, con un certo anticipo sui tempi, che la possibilità di fare qualcosa di tutta quell’energia creativa femminile passa attraverso l’indipendenza economica e il possesso di una zona privata che difenda la concentrazione: “La donna deve avere denaro e una stanza tutta per sé, per scrivere racconti”. Louise Bourgeois, uno tra i più grandi e prolifici talenti artistici del XX secolo – senza distinzione di genere –, questa stanza tutta per sé in senso strettamente fisico non l’aveva, almeno all’inizio della sua lunga, lunghissima carriera.
Il suo spazio di autonomia creativa era, piuttosto, delimitato temporalmente: cominciava quando il marito e i tre figli (maschi) uscivano di casa per andare in ufficio o a scuola e si chiudeva al loro rientro. Uno spazio mentale potenzialmente infinito, ma comunque a ridotta capacità produttiva tanto che, in quel periodo, Bourgeois immaginava, fissandole su carta, sculture che avrebbe realizzato una volta che avesse avuto un vero e proprio studio dove lavorare. Autoritratti simbolici in cui l’artista si ritrae – e, facendolo, rappresenta la miriade di donne in condizioni analoghe – come un corpo nudo intrappolato, dalla vita in su, in una casa miniaturizzata. È la serie intitolata Femme Maison (casalinga o donna-casa) disegnata e dipinta fra il 1945 e il 1947. Raffigurazioni semplici e potenti del senso di oppressione e frustrazione – ma anche di protezione, per certi versi – derivante dall’orizzonte circoscritto entro cui l’azione e lo sguardo della moglie-madre si muove. L’inesorabilità delle solitarie incombenze domestiche impedisce alla casalinga di vedere il resto del mondo, ma gli altri possono vedere lei, inconsapevolmente esposta, quindi vulnerabile.
Immagini che riviste oggi, alla luce dei ripetuti lockdown imposti a livello mondiale per contenere la pandemia di Covid-19, appaiono come allegorie del profondo isolamento sperimentato dalle donne intrappolate in una cattività domestica in cui gli abusi si sono intensificati. L’immagine creata da Bourgeois è talmente archetipica, rispetto alla relazione tra spazio abitativo e stereotipi di genere, da essere stata ripresa, più o meno consapevolmente, da diverse artiste. L’americana Laurie Simmons, sul finire degli anni Ottanta ha realizzato la fotografia intitolata Walking House in cui la donna non è nemmeno nominata, ma ridotta, nell’immagine, a un paio di gambe sensuali issate su tacchi alti. Il resto del corpo è letteralmente inscatolato dentro al plastico di una villetta con giardino, il simbolo del sogno americano per eccellenza che la donna, alla stregua di un sandwich-man, sembra portare in giro come un messaggio pubblicitario. La perfetta donna di casa, che è anche sessualmente disponibile, va in giro autopromuovendosi secondo una strategia di marketing di stampo patriarcale.
Decisamente meno ambigua è la versione creata da Monica Bonvicini nella video-performance Hausfrau Swinging (1997) nella quale si vede una giovane donna nuda sbattere ripetutamente la testa, infilata nel modellino di una casa, contro il muro. A oltre 20 anni di distanza, Bonvicini ha realizzato una monumentale installazione, allestita nel 2019 nelle altrettanto imponenti Officine Grandi Riparazioni di Torino, che consiste nel telaio di legno di un’abitazione a due piani. Quello che emerge dal buio dello spazio espositivo è una sorta di grado zero dell’architettura domestica: una casa in potenza o il suo residuo, uno spettro di domesticità. Viene spontaneo proiettare sopra quei muri e su quei pavimenti che ancora non esistono, o che non ci sono più, tutta una serie di memorie personali e ricordi collettivi, nonché di condizionamenti, anche di genere, e di aspettative che gli spazi domestici hanno influenzato per secoli.
As Walls Keep Shifting, così si intitola l’intervento che, a livello formale, lavora sul confine tra scultura e architettura analogamente alla pratica dell’artista britannica Rachel Whiteread. Se Bonvicini ha svuotato l’architettura riducendola al suo scheletro, Whiteread ha messo invece in atto un processo inverso. Con House, l’opera pubblica che le ha dato la fama all’inizio degli anni Novanta, ha dato solidità formale allo spazio interno all’involucro architettonico, quel ‘vuoto’ in cui si muovono le persone e stanno gli oggetti. Venuta a conoscenza dell’imminente distruzione di una casa a schiera affacciata su una strada di East London, l’artista ottenne il permesso dall’autorità di riempirla di cemento liquido in modo che, una volta rimossi i muri, l’interno della casa si mostrasse come una massa solida in cui erano impressi i telai delle finestre, cornici e camini, e altre tracce di storie private che diventavano immediatamente collettive con l’esposizione pubblica. Un anti-monumento che, pur essendo stato demolito pochi mesi dopo la sua realizzazione, è riuscito a dare una solidità (e una dignità) scultorea allo spazio atmosferico della vita domestica, all’energia delle persone – soprattutto donne – che vi hanno vissuto e respirato.
In quest’opera, che porta in una dimensione collettiva storie private e anonime, esiste una paradossale analogia col lavoro autobiografico Everyone I have ever slept with 1963-1995 di Tracey Emin, emersa sulla stessa scena e nello stesso periodo della Whiteread ed entrambe infatti annoverate nel gruppo dei Young British Artists. Una tenda da campeggio, versione moderna della capanna, spazio abitativo primordiale, viene ricoperta dall’artista con i nomi delle persone con cui era stata a letto fino a quel punto della sua vita, non necessariamente facendovi sesso.
Con quest’opera, il cui titolo è volutamente allusivo, Emin manda in frantumi la mistica della femminilità ‘parlando’ di sesso come un uomo, sbandierando i nomi delle persone con cui è stata in intimità. La casa-tenda-capanna non è più una gabbia per le donne, ma un luogo di emancipazione. Il personale è politico. Un approccio che ricorda quello militante di Judy Chicago e Miriam Schapiro che, nel 1972, ribaltarono il modello abitativo patriarcale realizzando la Womanhouse.
Chiamando a raccolta un agguerrito manipolo di artiste femministe, trasformarono ogni stanza di una grande casa abbandonata di Hollywood in un’installazione. Come, per esempio, Eggs to Breasts, in cui la cucina venne decorata da una miriade di piccole sculture che ricoprivano soffitto e muri: quelle più in alto riproducevano delle uova al tegamino e, mano a mano che si avvicinavano al pavimento, le forme richiamavano invece dei seni cascanti. Una palese critica al ruolo di nutrice cui la donna è designata dalla biologia e riconfermato dalla società.
La Womanhouse ha portato all’attenzione del pubblico, in quegli anni cruciali di cambiamento, come il territorio domestico possa essere nevralgico nel processo di decostruzione degli stereotipi di genere. Da luogo di subalternità e sottomissione, la casa diventa avamposto di liberazione creativa, prima che sociale. Ancora oggi, le esistenze dentro le abitazioni possono oscillare tra queste due dimensioni di limitazione e possibilità.
Un dualismo enfatizzato dai vari lockdown che hanno causato un profondo disagio piscologico in moltissime donne, e in altrettanti uomini, incapaci di decostruire il proprio perimetro casalingo attraverso, per esempio, il ricorso all’immaginazione e alla creatività. Altre persone, invece, hanno potuto e saputo costruire un’architettura dentro l’architettura, uno spazio mentale all’interno delle mura di casa.
“Non siete voi che mi chiudete dentro, ma sono io che vi chiudo fuori”, così aveva sintetizzato questo ribaltamento di prospettiva Letizia Cariello, già nel 2011, quando realizzò dentro al Palazzo delle Papesse di Siena l’installazione Io, Caterina: un’unita abitativa autosufficiente attraverso cui l’artista si è appropriata della rivendicazione a un destino autogestito, messa in atto dalla santa trecentesca anche attraverso l’autoisolamento domestico, traslandolo su un piano laico. Questa cella di libertà riassume in sé tutti quei luoghi in cui si compie una deliberata scelta di solitudine che disarma ogni tentativo di condizionamento esterno e, quindi, realizza la massima libertà interiore. Strategia cui sono ricorse non solo sante e mistiche, ma anche intellettuali e donne comuni di ogni tempo. Uno spazio inviolabile che esiste dentro di noi, prima che nello spazio in cui abitiamo, in cui è possibile (necessario?) progettare la nostra autonomia prima di rivendicarla.
Immagine di apertura: Monica Bonvicini, As Walls Keep Shifting, installazione alle OGR di Torino, 2019. Foto Andrea Rossetti. Courtesy of OGR Torino and Galleria Raffaella Cortese Milano