Sembra impossibile.
Celant è apparso sempre inossidabile, oltre che sommamente influente. Non solo, ma fino a quando il mondo non si è chiuso nella quarantena, la sua figura vestita di nero è sempre stata presente, pur nell’estremo riserbo. Ancora all’inizio di febbraio nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, a Milano, era possibile visitare la sua mostra dedicata a Vedova – della cui fondazione era curatore scientifico. Chi c’era ricorda la sua soddisfazione, e il piacere con cui rispondeva ai complimenti per la soluzione allestitiva trovata. Così come ci si ricorda degli anni in cui lo si incontrava in occasione della Biennale o delle grandi mostre, con il giovane figlio in braccio: un’immagine che contrastava con l’apparente severità. Il fatto che il Covid-19 abbia spezzato questa figura monolitica e inflessibile costituisce come un monito rivolto a tutti.
Celant nasce a Genova nel 1940, si forma come storico dell’arte specializzandosi sul periodo barocco, incontra il contemporaneo a Roma, nella forma di un’opera di Jackson Pollock che gli appare come una sfida: vuole comprendere. Il risultato: comincia a frequentare le gallerie, come quelle di Sperone e di Pistoi, che in quell’epoca sono luoghi di incontro e di scambio; nel 1963 comincia a scrivere di mostre per la rivista Marcatre, e ne diventa segretario di redazione; all’età di 24 anni è curatore del Museo Sperimentale di Arte Contemporanea di Torino; poi comincia a insegnare presso l’Istituto di Arte Moderna di Genova.
Già nel settembre 1967 organizza presso la galleria La Bertesca di Genova una mostra dal titolo Arte Povera e IM Spazio. E il 23 novembre dello stesso anno pubblica su Flash Art il saggio Appunti per una guerriglia in cui parla di una “ricerca povera”, tesa a recuperare l’identità tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e le proprie azioni. Gli artisti citati sono Pistoletto, Boetti, Zorio, Fabro, Anselmo, Piacentino, Gilardi, Prini, Merz, Kounellis, Paolini e Pascali. Dell’anno successivo una mostra alla Galleria de’ Foscherari di Bologna e l’importante “Arte Povera + Azioni Povere” negli Antichi Arsenali di Amalfi vedranno la partecipazione di Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini, Gilberto Zorio, Ableo, Paolo Icaro, Pietro Lista, Gino Marotta, Gianni Piacentino, Richard Long, Jan Dibbets, e Ger van Elk. Piero Gilardi partecipa al convegno, così come molti dei principali critici del tempo. Il libro Arte Povera, pubblicato da Mazzotta, seguirà poco dopo.
Mentre Celant lascia l’Italia per il mondo – Amsterdam, Londra e poi New York – a livello formale il gruppo dell’Arte Povera si scioglierà nel 1971 a favore dell’esperienza dei singoli artisti. Ma la compagine continua ancora oggi ad essere riconosciuta come tale. E il nome di Celant le resta legata in modo indelebile.
Certo, la nemesi è impressionante: se quel movimento voleva rappresentare una rivolta degli artisti contro i codici artistici, il regime culturale del tempo, le istituzioni e la contiguità dell’arte con il mercato, Celant nei decenni successivi ha rappresentato proprio la forza di un sistema fattosi globale la cui profonda conoscenza ha cavalcato anzitutto con l’intento di stimolare la penetrazione dell’arte italiana nel mondo. Così, dopo le mostre al Centre Pompidou di Parigi nel 1981, a Londra nel 1989 e a Palazzo Grassi a Venezia nel 1989, nel 1994 cura la grande mostra “Italian Metamorphosis 1943-1968”, al Guggenheim di New York, con il quale già collabora dagli anni Ottanta per poi diventarne senior curator.
I ruoli che ha ricoperto sono numerosissimi. Tra gli altri nel 1997 è direttore della 47ma Biennale d’Arte di Venezia, e supervisore artistico della programmazione di Genova 2004, Capitale Europea della Cultura. Nel 1982 co-dirige con Rudy Fuchs Documenta 7 a Kassel.
Dal 1995 al 2014 è stato Direttore artistico e dal 2015 Soprintendente artistico e scientifico di Fondazione Prada, per le cui sedi di Milano e di Venezia ha curato decine di progetti espositivi, molti dei quali rivelatrici, a partire dalla prima, una personale di Michael Heizer nel 1996, fino all’acclamata retrospettiva dedicata a Jannis Kounellis a Ca’ Correr alla Regina nel 2019.
Il suo lavoro, che si trattasse di mostre o di pubblicazioni, si è sempre caratterizzato per la serietà professionale, per la precisione, per l’approccio storico, tanto che molte delle sue mostre più recenti sono state ricognizioni o ricostruzioni, o un insieme delle due cose. È il caso di “Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918–1943” in Fondazione Prada a Milano, dell’ampia indagine “Art or Sound” alla Fondazione Prada di Venezia, o della straordinaria “When Attitudes Become Form” con la quale Celant riproponeva, negli spazi settecenteschi di Ca’ Corner della Regina, la seminale mostra curata da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna nel 1969, mantenendo le originarie relazioni visuali e formali tra le opere.
Da grande frequentatore del mondo dell’arte e studioso degli avvenimenti artistici, sempre interessato al sistema socioeconomico che legittima l’opera, a Milano, dove viveva, Celant ha assemblato un’immensa biblioteca straordinario archivio, gelosamente custodito, di cui tra l’altro aveva dato saggio nell’ambito della titanica mostra “Arte Povera 2011” svoltasi contemporaneamente nelle otto maggiori istituzioni museali e culturali italiane.
Del suo interesse per il clima artistico e teorico in cui l’arte si sviluppa è esempio, tra l’altro, un’intrigante pubblicazione, diversa dai numerosi, spesso ponderosi cataloghi curati. Si tratta di Precronistoria 1966-69 (Quodlibet 2017), che partendo dalla ricerca e dallo studio di documenti e fotografie storiche esplora il sistema dell’arte e della cultura in Italia tra le due guerre mondiali.
E d’altra parte se nel suo lavoro curatoriale i documenti sono stati un bene preziosissimo e lo studio del contesto sociale e politico hanno sempre contribuito a rivelare il senso dell’opera e a connetterla alla propria origine, essi non ne hanno mai sopravanzato la centralità. L’opera resta il bene preziosissimo. La sua figura e le sue mostre lasceranno un grande vuoto.
Immagine di apertura: mostra “Jannis Kounellis” a cura di Germano Celant, organizzata da Fondazione Prada a palazzo di Ca' Corner della Regina, 2019